Nelle ultime settimane sto partecipando tramite il web ad interessanti discussioni aventi come oggetto la figura professionale dell’educatore. Il tema che vedo discutere animatamente è innanzi tutto quello del riconoscimento giuridico della professione:
da esso infatti dipende la possibilità di partecipare a concorsi o addirittura di lavorare come educatori nelle strutture ora dette “sociosanitarie” e presentate come diverse da quelle ancora però chiamate “socioeducative” . Nelle strutture “sociosanitarie” lavorano “educatori” definibili come “sanitari” , aventi un diploma di laurea diverso dagli educatori che chiamerò “umanistici” . Personalmente mi sembra che il problema sia di definizioni, poiché le due figure professionali non appaiono come sovrapponibili; ma alcuni decreti negli ultimi anni hanno sollevato un polverone che, con la crisi e la penuria di posti di lavoro, ha dato origine ad una situazione di maggior precarietà per i laureati ed i laureandi del settore, esponendoli tra l’altro ad essere oggetto di piccole truffe e raggiri da parte di associazioni che, presentandosi anche nel web come grandi e radicate nel territorio, dicono di poter assicurare lavoro o di essere concretamente impegnate per garantire riconoscimento alla figura professionale dell’educatore al momento meno tutelato, l’educatore pedagogista laureato in Scienze dell’Educazione e della Formazione.
Sulla base di un documento ufficiale messo in rete dall’ANEP (Associazione Nazionale Educatori professionali), io sarei risalita intanto alla possibilità di tracciare un breve itinerario storico a tutta questa confusione. Vediamolo insieme per ora: nei prossimi articoli cercherò di correggere la prospettiva, se è errata, chiedendo il parere a persone legate alla facoltà accademica teoricamente privata di obiettivi di lavoro realistici.
Nel 25 luglio 2008 è stato compilato un documento sottoscritto dal Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, agevolmente oggetto di consultazione pubblica anche in Internet, chiamato “Libro Verde” : esso, si legge, si proponeva di avviare un dibattito pubblico sul futuro del sistema di welfare in Italia, valutando gli obiettivi, le disfunzioni, i costi eccetera anche del sistema vigente; il Libro Verde nominava, tra gli altri punti, l’importanza della figura dell’educatore professionale come di quell’operatore che, in collaborazione ad altri specialisti, partecipa alla ricerca di un modo di miglioramento delle condizioni di vita di soggetti socialmente vulnerabili.
Tutto questo suonerebbe confortante, se non fosse per un piccolo particolare: per “educatore professionale” il Libro Verde intende chiaramente il laureato in materie sanitarie, escludendo il laureato in materie pedagogiche…
Ohibò!…. questo non è un dettaglio da nulla… Per far luce su di esso, bisogna capire cosa il sistema di valori sotteso comprende per “educare” :
1) l’educatore sanitario per “educazione” tenderebbe, infatti e dal punto di vista della sua formazione, “riabilitare” nel senso di “reintegrare” i soggetti devianti in un modello di “normalità” attraverso tecniche e metodologie che in qualche modo restituiscano o compensino la mancanza di abilità iniziale. La prospettiva parte dalla definizione di una situazione di “privazione” (“disabilità” ) e si pone come obiettivo la trasformazione, il passaggio da quello stadio ad uno stadio in cui il soggetto è considerato il più possibile “normalizzato” ;
2) l’educatore pedagogista formato in materie più umanistiche concepisce invece l’educazione in tutt’altro modo, in un modo più socratico: un “tirar fuori” , un “e-ducere” (“estrarre” , “condurre fuori” , “liberare o realizzare le potenzialità” ). Egli parte filosoficamente ed antropologicamente dalla consapevolezza del relativismo valoriale e culturale, non giudica l’altro come “deviante” , ma, nel migliore dei casi, si propone di “socializzarlo” in modo costruttivo, dando senso e significato al mondo di esperienza di cui l’altro è portatore, cercando di trovare per quel mondo un posto, un senso ed un significato, uno “scambio vitale” nella società di accoglienza. Il tutto presuppone una grande preparazione sia in storia, che in antropologia culturale che in materie pedagogiche, in counselling ed in pedagogia, con in più un bagaglio di esperienza personale non indifferente. Sicuramente i programmi offerti oggi da molte facoltà di Scienze dell’Educazione e della Formazione non riescono a trasformare lo studente in un educatore competente, e molti di noi si augurano che qualcuno si preoccupi di questo problema; ma da questo a decidere che l’educatore pedagogista non ha senso e modo di essere, sostituendolo da un sanitario non formato per operare e creare un dialogo interculturale tra sé e colui che rappresenta ed appartiene di fatto ad un mondo di esperienza straniero ce ne corre… mi sembra…
La confusione del Libro Verde si rifà ad un documento precedente, il Decreto del Ministero della Sanità del 8 ottobre 1998, il numero 520. Riporto perciò l’art. 1 (DM 520/98) facilmente rintracciabile anche in rete:Regolamento recante norme per l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell’educatore professionale:
Art. 1
1. E’ individuata la figura professionale dell’educatore professionale, con il seguente profilo: l’educatore professionale è l’operatore sociale e sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, attua specifici progetti educativi e riabilitativi, nell’ambito di un progetto terapeutico elaborato da un’équipe multidisciplinare, volti a uno sviluppo equilibrato della personalità con obiettivi educativo/relazionali in un contesto di partecipazione e recupero alla vita quotidiana; cura il positivo inserimento o reinserimento psicosociale dei soggetti in difficoltà.
2. L’educatore professionale:
a) programma, gestisce e verifica interventi educativi mirati al recupero e allo sviluppo delle potenzialità dei soggetti in difficoltà per il raggiungimento di livelli sempre più avanzati di autonomia;
b) contribuisce a promuovere e organizzare strutture e risorse sociali e sanitarie, al fine di realizzare il progetto educativo integrato;
c) programma, organizza, gestisce e verifica le proprie attività professionali all’interno di servizi sociosanitari e strutture sociosanitarie riabilitative e socioeducative, in modo coordinato e integrato con altre figure professionali presenti nelle strutture, con il coinvolgimento diretto dei soggetti interessati e/o delle loro famiglie, dei gruppi, della collettività;
d) opera sulle famiglie e sul contesto sociale dei pazienti, allo scopo di favorire il reinserimento nella comunità;
e) partecipa ad attività di studio, ricerca e documentazione finalizzate agli scopi sopra elencati.
3. L’educatore professionale contribuisce alla formazione degli studenti e del personale di supporto, concorre direttamente all’aggiornamento relativo al proprio profilo professionale e all’educazione alla salute.
4. L’educatore professionale svolge la sua attività professionale, nell’ambito delle proprie competenze, in strutture e servizi sociosanitari e socioeducativi pubblici o privati, sul territorio, nelle strutture residenziali e semiresidenziali in regime di dipendenza o libero professionale.
Si comprende bene in questo documento una delle fondamentali origini della presente confusione. Ormai, anche su Wikipedia (l’enciclopedia disponibile gratuitamente nel web), si legge che:
“Si definiscono “Educatori Professionali” i possessori di laurea breve della Facoltà di Medicina e Chirurgia previsto dal ex DM 520/98, come previsto dal Decreto interministeriale 2 aprile 2001, o titolo ad esso equipollente o equivalente ai sensi della legge 42/99, od ai sensi del DM Sanità 29/03/1984, o da altre normative regionali o provinciali. Le equipollenze con il diploma universitario per educatore professionale sono riportate dal DM Sanità del 27 luglio 2000. In tale decreto non è prevista nessuna equipollenza con la laurea in Scienze dell’Educazione V.O. (vecchio ordinamento) ad indirizzo educatore professionale o educatore professionale extra scolastico. Coloro che hanno conseguito la laurea in Scienze dell’Educazione presso le facoltà di Scienze della Formazione o il Diploma Universitario di Educatore Professionale, in alcune regioni, attraverso i propri regolamenti (es. Emilia Romagna, Puglia ecc.), possono svolgere la funzione educativa in attesa della ridefinizione dell’articolo 12 della legge 328/2000 per l’ambito socio-educativo e assistenziale, si precisa che l’ambito della riabilitazione rimane di competenza dei laureati ex D.M. 520/1998 o equipollenti. Con una normativa che andrà in vigore tra breve, l’educatore professionale in quanto professione di ruolo sanitario si strutturerà forse con Ordine Professionale. Quindi tutti coloro che si definiscono o che svolgono la professione di educatore professionale in ambito sanitario senza i titoli abilitanti o i titoli equipollenti per decreto possono incorrere in abuso di professione” .
Se cerchiamo di leggere bene la definizione, ci accorgiamo che il testo riferisce la dizione “educatore professionale” appunto al solo concetto di riabilitazione più legato all’ambito sanitario; cosa c’entra questa figura professionale con l’educatore che educa in senso culturale l’individuo? A me sembra che il problema sia circoscritto ad una questione di definizioni e distinzioni: la figura dell’educatore pedagogista non può essere sostituita e non può essere cancellata, perché essa risponde ad un bisogno reale e tanti di noi, lavorando, lo dimostrano. C’è da riconsiderare certamente a monte la formazione in modo da renderla, oltre che teorica, anche sostanziosamente pratica, dimostrando nel concreto quanto siamo socialmente utili nell’ambito della nostra attività giornaliera, poiché l’operatore non è semplicemente un filosofo e non vive di teoria, ma, pur avendo alle spalle coscienza speculativa, “agisce” : “opera, appunto. La straordinarietà del nostro lavoro sta proprio nella nostra capacità personale di adattare le teorie alla pratica per servire la nostra utenza creando le condizioni concrete per un miglioramento di vita, offrendo agli accademici occasioni di verifica e possibilità di riflessione pratica.
Certamente l’esistenza di alcune associazioni nazionali che dicono di rappresentare, tutelare e difendere la professione è altrettanto utile e necessaria. Ma tali associazioni dovrebbero esprimersi con maggiore chiarezza per farci comprendere bene se sono le “nostre” associazioni” o se noi dobbiamo costituirne altre a parte distinguendo la “nostra” professione anche terminologicamente.
La Presidente Nazionale dell’ANEP, dott.ssa Martina Vitillo, per esempio ha messo in rete la posizione ufficiale di questa associazione che ha gettato ancora più panico tra i giovani laureati e laureandi in Scienze dell’Educazione e della Formazione. Io noto nel documento una strana incongruenza: la stessa ANEP ha in rete annunci di lavoro assolutamente aggiornati per educatori che si muovano in ambito pedagogico, a cui io indirizzo da mesi attraverso il sito di orientamento al lavoro sociale http://www.socialidarity.it/… Allora, perché poi scrive utilizzando la prima persona plurale (“noi” ):
“Il nostro profilo professionale, al momento riconosciuto solo dal Ministero della Sanità e fondamento del nostro agire…” … “Nostro” di chi, dott.ssa Vitillo? Dei laureati sanitari o dei laureati pedagogisti? Dei “riabilitatori” o degli “educatori” nel senso più antico del termine? Ed ancora:
“Nel 1982 l’allora Ministero dell’Interno istituì una “Commissione nazionale di studio per la definizione dei profili professionali e dei requisiti di formazione degli “operatori sociali” composta da rappresentanti del Ministero, delle Regioni ed Enti locali, delle sedi associative (gli educatori erano presenti con l’allora associazione ANEOS) e delle sedi di formazione. Tale commissione analizzò e definì tre figure cardine dei servizi: l’assistente sociale (attualmente normata), dell’assistente domiciliare e dei servizi tutelari (ora normata come OSS), e dell’educatore professionale. Il documento è sorprendentemente attuale per molti dei contenuti e delle riflessioni di cui è portatore. Il percorso concettuale intrapreso dalla commissione e l’analisi delle fonti effettuata che portò a individuare la denominazione di “educatore professionale” allora “scarsamente” utilizzata, infatti, la figura, pur avendo contenuti analoghi aveva denominazioni molto variegate a seconda dei territori o degli enti formativi o delle normative che avevano permesso l’attivazione della formazione. La stessa delineazione del profilo, delle funzioni, attività e compiti, pur marcatamente rivolta al sociale poiché il Servizio Sanitario pubblico era stato istituto solo nel 1978, è quanto mai rispondente ai contenuti attuali della nostra figura. Va ribadito che la 833/78 non riguardava solo ed esclusivamente l’ambito sanitario ma vedeva la nascita del settore sociosanitario. Noi consideriamo quindi la 833 come capostipite della riforma più generale nata nel 1999 con la legge 229 e nel 2000 con la legge 328……La mancanza della definizione dell’art. 12 della legge 328/00 riteniamo sia un aspetto fondamentale e, ormai, non più procrastinabile: com’è possibile agire sulla spesa socio-assistenziale, sui modelli organizzativi, sulla povertà assoluta, se una delle principali figure professionali che sono coinvolte in questi processi non ha una definizione chiara? E’ paradossale dover rilevare che la nostra stessa professione agisce frammentata e solo parzialmente riconosciuta.
Com’è quindi possibile portare avanti obiettivi così qualificanti quando il quadro d’insieme della nostra figura professionale ha un riconoscimento così debole? Bisogna porre fine all’abuso di professione da parte di persone non formate” .
Insomma, sembra aver ragione lo studente che ha scritto che l’ANEP dovrebbe precisare che nel suo “noi” rientra anche chi si occupa di “formazione” , e non di “riabilitazione” nella prospettiva sopra precisata. Per il resto, sono d’accordo pure io: infatti anche a me infastidisce vedere svolgere la mia professione di educatore umanistico a chi non ha nessuna preparazione per trasmettere alla sua utenza in quanto formatore patrimonio culturale con cognizione di causa; a chi non ha esperienza e competenza per poter in quanto orientatore identificare maieuticamente risorse e talenti personali; a chi in quanto consulente non ha autonomia mentale ed esperienza di vita pratica (come fanno persone cresciute in casa e vincitrici di concorsi grazie ai contatti di mamma e papà – o altro – ad operare in tal senso senza far danno????) capaci di ispirare la ricerca di soluzioni personali e creative…. Ovvero, non vedrei un “riabilitatore” laureato in una facoltà scientifica svolgere un lavoro “umanistico” senza fare danno a causa di una prospettiva sbagliata “a monte” per questo tipo specifico di incombenza. Vien da chiedere dunque all’ANEP, che dice di occuparsi del riconoscimento giuridico della professione: di quale professione stiamo dunque parlando, scusate? Non vi accorgete che sono due, e ben distinte? Mandando questo articolo in visione alla detta associazione per conoscenza, rimando la discussione ai prossimi articoli.
Cristina Rocchetto