10. La Verità: indicibile o solo inscrivibile? (1)
6 Luglio 2017Una questione privata di Beppe Fenoglio – di Alessandra Marinaccio
7 Luglio 2017Proseguendo il discorso iniziato nel post precedente (10), dopo aver distinto il piano della Verità suprema, ci accingiamo qui a discutere l’ardua questione delle Idee platoniche. Chiariamo intanto il rapporto tra piano materiale (del sensibile= percepito attraverso i sensi) e piano delle Idee (dell’ultrasensibile, concepito attraverso il pensiero) per chiarire intanto la loro funzione: il piano più basso della realtà, riferito al mondo materiale dove ciò che nasce e cresce (per i viventi presi individualmente), o ciò che semplicemente si forma (per le cose), è destinato prima o poi a corrompersi ed è in continua trasformazione. Come avevano rilevato tutti i filosofi precedenti, per il motivo della sua natura fugace e per il motivo della natura fallace e soggettiva del nostro sistema sensoriale, esso non può essere preso come riferimento di una conoscenza che si dica “vera”. Ciò che noi conosciamo può solo riguardare una realtà stabile; il modo in cui pervenizmo alla sua conoscenza può solo passare per il pensiero/ragionamento/discorso razionale, tutti termini resi in Greco dalla parola pregnante di lògos. Nel famosissimo mito della caverna, contenuto nel Libro VII della Repubblica (lungo Dialogo articolato in dieci Libri), Platone dà immagine a tutto questo per dirci quanto ciò che appare ai sensi sia in realtà solo “apparenza”, “ombra di verità”, oggetto di opinione. Per fondare un processo di conoscenza che sia stabile e che riguardi oggetti stabili, egli ad un certo punto della sua riflessione si mise quindi a parlare di “Idee”, realtà formali che l’uomo può cogliere (razionalmente) e che lo aiutano a comprendere, definendolo, il mondo in cui vive. Metto il “razionalmente” tra parentesi per i motivi che seguono e riprendo da dove mi ero interrotta nel post precedente:
2) IL PIANO DELLE IDEE
Questo è un discorso, per quanto riguarda la mia percezione, più complicato, poiché, se per la Verità ineffabile la mia sensibilità può accontentarsi di lasciarsi affascinare dai miti e dalle metafore platoniche, dai rimandi e dalle allusioni alla suggestione pitagorica del Numero; se in esse anche io personalmente posso anche riconoscerci la traccia di perduranti tradizioni cosmo-astrologiche, quando si parla di Idee platoniche che presiedono alla conoscenza razionale della realtà mi chiedo davvero quale sia l’origine della loro inerente problematicità. Io me la spiego notando la loro natura bifronte:
a) in alcuni luoghi, lì dove Platone trascende il discorso della loro funzione e si mette a parlare della natura sia delle Idee che della conoscenza, le Idee sembrano essere parte integrante di quel piano metafisico più o meno articolato e trattato a momenti quasi come oggetto di religiosa fede di cui abbiamo parlato nel post precedente;
b) quando però Platone vuole determinare qualcosa in termini dialettici, ricorre invece a farne uso come obiettivo e/o strumento di un tipo di ragionamento (di matrice socratica) che tende senz’altro, tramite l’associazione, la dissociazione ed il principio di non-contraddizione, a de-finire (dare limiti certi a) ciò di cui si parla; talvolta precisa anche che, per definire, bisogna astrarre dalla molteplicità (le singole cose simili che si manifestano ai nostri sensi) quell’unità che le comprende tutte (i concetti che noi esprimiamo con i nomi comuni) e chiama questa unità che sembra concettuale con termini come “essenza”, “forma” “idea”. In parole molto povere, noi riconosciamo i cavalli in quanto “cavalli”, poiché abbiamo nel nostro pensiero l’idea del cavallo. Quindi, quando sono funzionali ad un discorso definitorio, la qualità ed il luogo della loro esistenza non assume particolare rilevanza e possono davvero essere intese come “concetti mentali”, precisamente come preferì fare Aristotele.
Discepolo di Platone e per vent’anni membro della sua scuola, interpretando il piano platonico delle Idee in termini “realistici”, Aristotele ne prese le distanze, scegliendo tra l’altro anche di scrivere in uno stile diverso: infatti, se Socrate aveva solo conversato/ragionato (direbbero anche i nostri amici Toscani) senza lasciare nulla di scritto, se Platone aveva riprodotto la dinamica di un confronto diretto nello stile dei Dialoghi inserendo un enigmatico e fascinoso linguaggio lì dove il discorso trascendeva la dialettica di matrice socratica , Aristotele sceglierà altrimenti e ci insegnerà come si scrivono i trattati “scientifici”.
C’è quindi da concludere che, come diceva Aristotele, Platone ritenesse che “il Cavallo” in quanto forma perfetta esistesse in un altro luogo metafisico se non nella mente che astrae dall’esperienza sensibile del molteplice un nome che lo comprenda? Non si sa!
— E’ vero che, a seconda del Dialogo preso in esame, delle Idee Platone appunto parla in modo sensibilmente diverso: nel Timeo, per esempio, quasi quasi sembrerebbe che esse esistano e siano visibili al Demiurgo che le prende come modello per creare la realtà materiale. Da notare però che nella premessa del discorso cosmologico, lo stesso Timeo, protagonista parlante del Dialogo, dice che l’uomo su questi argomenti può esprimere un “discorso verosimile”. Aggiungerei che, il Demiurgo essendo egli stesso Pura Intelligenza, dovrebbe cogliere gli intelligibili in maniera puramente intelligibile, lì dove il verbo “vedere” significherebbe “puramente conoscere” senza il coinvolgimento del senso della vista e di un luogo definito.
— In altri Dialoghi, come sappiamo, viene raccontato che anche di tali “Forme” l’uomo sappia perché la sua anima le ha contemplate nell’Aldilà. Per complicare il tutto, questi due piani (della “Verità” e dei “Concetti”), nonostante appartengano entrambi a qualcosa che può essere solo “visto con il pensiero”, non sembrano sempre coincidere del tutto tra loro, ovvero sembra che Platone abbia stabilito una gerarchia della Verità.
— E, ciliegina sulla torta, abbiamo già notato come nei Dialoghi siano presenti immagini diverse, a volte difficilmente sovrapponibili, attraverso cui egli coglie la visione della dimensione dell’Invisibile.
Tutto questo ha aperto da secoli alla critica diverse, addirittura contrastanti interpretazioni riguardo a che tipo di esistenza Platone abbia effettivamente attribuito alla dimensione dell’immateriale (sia quello pensabile, sia quello che sfugge al pensiero razionale e diventa senz’altro pura metafisicità).
Riconoscendo questa differenza di piani (differenza di piani che altri negano) taluni studiosi sostengono che Platone abbia dell’Ineffabile appunto una visione articolata in vari piani: uno sarebbe il piano delle Idee, l’altro delle grandezze geometriche e matematiche (dei Numeri), l’altro ancora dei Principi supremi dell’Uno e della Diade indefinita di grande e piccolo, Principi organizzatori di tutta la realtà. Poiché Platone non ha riportato queste distinzioni per iscritto, e poiché, ripeto, si esprime sulla dimensione immateriale in termini non del tutto chiari e congruenti in ogni luogo, costoro accettano l’ipotesi che di codesti argomenti Platone preferisse parlare solo all’interno dell’Accademia (la scuola che fondò ad Atene). Queste lezioni orali sarebbero state dedicate alle famose “dottrine non scritte”, della cui esistenza si parla in un documento platonico, l’unico scritto in stile autobiografico, la VII Lettera, da alcuni critici considerato invece apocrifo. Espressioni disseminate nei testi platonici del tipo “di questo non parlerò ora”, “di questo parlerò altrove” sono lette come riferimento a tali dottrine orali; la parte finale del Fedro, in cui si attesta che della Verità non si può scrivere, è letta come una conferma di questa linea interpretativa; e così la testimonianza di Aristotele che si riferisce ad una sola lezione (o serie di lezioni) dedicata all’Idea del Bene e risoltasi in una discussione poco apprezzata sull’Uno. Questa è la linea interpretativa sostenuta dalla detta “Scuola di Tubinga-Milano”, rappresentata in Italia dal Prof. Giovanni Reale (vedere la sua presentazione alla raccolta di cui sto regolarmente riportando il link) e dal Prof. Migliori, autore di un recente studio mastodontico su Platone che segnalo più sotto.
In conclusione, è fondamentale la scelta di timbro che ognuno di noi decide di dare alla lettura di queste opere. Ogni Dialogo potrebbe essere anche visto semplicemente come un modo di guardare quella stessa Verità ineffabile che non ripete ciò che di essa vien detto altrove e da un altro punto di vista, poiché, divina ed infinita, essa sfugge alla parola e dalla parola non si fa limitare=de-finire. Sarebbe un errore, forse, interpretare Platone privandolo di quella dimensione dai confini sfumati che egli dà, in ultima analisi, alla realtà intera, cercando conferme e consistenza interna in ciò che invece è appositamente lasciato nell’Indefinito. Dante ed il Medioevo, che conoscevano i miti di Platone sull’anima e l’Aldilà, costruiranno, l’uno, a parole, il Paradiso, gli altri, con le pietre, spazi profusi di luce avvolti dal gotico e dalle magnifiche vetrate delle loro chiese, traducendo ancora in immagine ciò che egli, in assenza di appigli più tradizionali, scelse di dire e di credere alla sua Verità.
Maurizio Migliori, “Il Disordine ordinato. La filosofia dialettica di Platone” – rimando al link della prima parte (di tre) della sua lunga presentazione, che è poi una discussione su Platone tra tre accademici: https://www.youtube.com/watch?v=805Zyp8wBTo.
Nella raccolta delle opere platoniche del Prof. Reale: https://giuseppecapograssi.files.wordpress.com/2015/03/platone_a_cura_di_giovanni_reale_tutti_gli_scribookzz-org.pdf:
Mito della caverna e seguenti passi, pag 1238-42, per il momento. La Repubblica è un Dialogo lungo di cui parlerò nel prossimo post.
Timeo – pag 1346
VII Lettera, pag 1806
Cristina Rocchetto