La realtà e lo scandalo – di Simone Feneri
9 Luglio 201713. I Dialoghi teoretici: frutto di una segreta disillusione o rimando a qualcos&#…
13 Luglio 2017Se partiamo dall’ipotesi che tutta la ricerca di Platone abbia avuto il senso di trovare una spiegazione e, contemporaneamente, una chiave di soluzione al problema del crollo e del caos del mondo in cui era nato e da cui era stato circondato fino ed oltre la morte di Socrate, con la Repubblica, come vedremo meglio nel post finale di questa serie, una visione comprensiva (dell’uomo e della vita) sembra trovata. La mia ipotesi di lavoro è di leggere quindi quest’opera come il grande spartiacque che segna un cambiamento in Platone. Tutti i Dialoghi che tratterò d’ora in poi sono stati certamente scritti DOPO di ed in relazione ad essa, che presuppongono. Si deve dare notizia preliminare della divergenza di interpretazioni del periodo di produzione finale di questo grande autore. Cercherò di essere schematica.
Negli scorsi post avevamo lasciato Platone entusiasta della sua dottrina delle Idee, alla quale era pervenuto sulla scia dell’istanza di natura prettamente etico-politica: l’obiettivo era promuovere un senso di unità/appartenenza alla città ed alle sue leggi, quindi evitare comportamenti egoistici, anarchici e tirannici, quindi scardinare ogni base del relativismo sofistico. Dall’analisi socratica delle singole virtù, Platone era passato alla definizione di un concetto generale di “virtù” che comprendesse tutte le singole manifestazioni: si era quindi appellato a concetti ancora più generali, come quello di Giustizia, di Bellezza, di Bene, che in qualche modo sembrava usare quasi come fossero interscambiabili, anche se alla fine preferirà utilizzare la dizione “Idea del Bene” per definire la sommità della sua scala valoriale. Sicuro di questa intuizione, aveva scritto Dialoghi caratterizzati da un ammirevole ed artisticamente riuscito equilibrio tra parti discorsive dedicate alla dialettica confutatoria e parti dedicate alla visione intuitiva di qualcosa di più alto.
Poi, aveva scritto la Repubblica, un lungo testo (di dieci parti o Libri) che, anziché rappresentare semplicemente la summa delle sue riflessioni, a ben leggerla pone interrogativi molto seri, qualcuno addirittura inquietante.
1) Quando parla di poeti e di miti, per esempio – e ne parla estesamente in più parti del lungo testo – criticandoli quando, per licenza poetica, si permettono di attribuire a dèi ed erori comportamenti eticamente scorretti implicitamente legittimandone limitazione, Platone aggiunge che la stessa arte può però diventare positiva ed utile per la comunità quando, opportunamente guidata da chi ha (co-)scienza pedagogica, produce oggetti portatori di messaggi positivi. Possiamo noi essere ancora del tutto sicuri che le immagini che di Platone ci hanno emozionato rappresentino davvero solo un’istanza metafisico-religiosa dell’autore;
2) Un secondo problema, questo di ordine teoretico, tra gli altri posti dalla Repubblica (ma anche da altri Dialoghi di questa fase) riguarda la dottrina delle Idee: abbiamo detto che qui l’Idea del Bene è presentata come Idea cardine di quel Mondo trascendente visto da un’anima completamente immateriale/spirituale durante il suo ciclo di tempo nell’Aldilà; ma, e questo sembra essere sotteso dal mito/allegoria della Caverna, ora il Mondo delle Idee sembra essere diventato un Mondo di Essenze che danno ragione di tutti gli oggetti (enti) della realtà materiale: dal campo valoriale (istanza assiologica) e conoscitivo (istanza gnoseologica), siamo passati al campo dell’esistenza (istanza ontologica).
In altre parole, vedendo gli alberi, io li riconosco in quanto forme transeunti, pallide ombre imitanti “L’Albero” che la mia anima ha visto nell’Aldilà, senza la cui pre-conoscenza io non riuscirei a cogliere nella molteplicità dell’esperienza sensibile l’unicità della “cosa in sé”. Tutto ciò suona come una specie di “apriori cognitivo”: senonché Platone parla di questo “apriori” in termini che suonano effettivamente ontologici (anche se la forma usata nella Repubblica è ancora il mito), come se esso avesse una vera e propria esistenza oggettiva da addirittura più vera (=conoscibile) delle cose (enti) a cui si riferisce.
Agli enti materiali Platone, badiamo bene, NON nega esistenza/realtà: ma dà a quell’esistenza un significato di “apparenza”, da intendersi nel senso della temporaneità – poiché ogni cosa del mondo è destinata a deteriorarsi e sparire, essa “appare” e “scompare” nel mondo e nulla più. Tipico però è l’assunto della netta separazione tra il sensibile (il mondo di qua, inconoscibile perché relativo rispetto al soggetto e transeunte, come volevano in fondo i Sofisti) e l’ultrasensibile (unico fondamento di Verità e possibilità di conoscenza oggettiva, da salvare quindi in termini universali ed assoluti).
3) Ma la piega ontologica presa ormai dalla dottrina delle Idee doveva aver sollevato grandi interrogativi all’interno dell’Accademia già durante la stesura della Repubblica, stesura che occupò un arco di tempo esteso durante il quale le varie parti erano sicuramente lette e discusse via via – sulla stimolante vitalità intellettuale promossa dalla scuola di Platone, in questo sicuramente allievo fedele di Socrate, ci sono notizie certe. Dovevano imperversare domande quali: “Come può essere possibile un rapporto tra Idee immateriali ed il mondo materiale a cui danno definizione?”; “Se i cavalli esistono perché esiste un’Idea di cavallo, in che senso l’Idea, immateriale e metafisica, può dare ragione di ogni cavallo del mondo: perché vi è presente come “forma” o come modello per la mente di chi conosce/riconosce? Ed in che senso?”. A tali domande Platone aveva dato una prima risposta, in forma di mito, ripresa e sviluppata, come vedremo, dopo la fase più teoretico-argomentativa in cui affronta i medesimi problemi con un altro approccio, ma i risultati di cui lascia traccia scritta non li risolvono. Alla fine della Repubblica, nel X Libro (a lungo da taluni ritenuto spurio, contenente anche il celeberrimo mito/allegoria della Caverna), entra in scena il Demiurgo, il dio Creatore del mondo materiale: immagine bella che però NON RISOLVE DIALETTICAMENTE/ARGOMENTATIVAMENTE il problema di base: quello della (possibilità di) relazione tra gli enti (le cose che esperiamo attraverso i sensi) e le Idee, ovvero il rapporto tra materiale ed immateriale.
Dopo la Repubblica, probabilmente sotto la pressione crescente di obiezioni e critiche, delle Idee Platone sembra preoccuparsi di spiegare IN TERMINI DIALETTICI la genesi, l’interelazione con le altre in quanto tutte “Unità in sé/pure Essenze” separate le une dalle altre, la relazione tra esse ed il mondo materiale. Questo, il modo più semplice in cui mi do ragione dei Dialoghi teoretici che seguono quella fase e che, anziché rispondere ai problemi posti, ne generano altri non risolvibili o comunque certamente non risolti nelle opere scritte dall’autore.
L’argomento è complesso ed è facile vederlo eludere con descrizioni schematiche su gerarchie metafisiche che gli esperti stessi ammettono di non riuscire a spiegare sulla base degli scritti che le nominano. A me spiace non riuscire a fare di questi problemi una sintesi meno lunga di quella che sono riuscita a riportare in questo presente post.
Faccio intanto notare che da qui in poi con il nome “Dialettica” non si intende più semplicemente il metodo dialogico confutatorio di matrice socratica, ma una branca della Filosofia, anzi, la Filosofia nella sua accezione più alta, che si occupa di conoscere la realtà applicando rigorosi metodi di ragionamento (induzione, sintesi, analisi e dieresi con le sue dicotomie).
Tutti metodi che Aristotele si preoccuperà di definire ed organizzare sistematicamente, ma che Platone, che non scrive trattati, semplicemente applica.
Gli scritti di questa fase (in particolare: Parmenide, Teeteto, Sofista, trattati nel post che segue) non hanno più la dinamicità, l’entusiasmo, la vivacità dei Dialoghi precedenti: la polemica contro i Sofisti è sempre fondamentale; un richiamo a – ed al tempo stesso una distinzione da – Parmenide di Elea (oggi Velia, provincia di Salerno), fondatore della Dialettica e dell’Ontologia (che si occupa della realtà in quanto Essere, Esistente), si fa importantissimo, insieme agli apporti della tradizione pitagorica (anch’essa magnogreca), alla quale risalivano già molti aspetti del pensiero platonico maturo quali la dottrina sull’immortalità dell’anima, della reicarnazione, parte del discorso sulla reminiscenza. Subentra perciò un astrattismo tecnico, una fortissima influenza della Matematica, scienza teoretica per lui emblematica perché non direttamente legata al mondo dei fenomeni come altre scienze – l’importanza di Numeri e della Matematica come studio propedeutico alla Dialettica era stata confermata già precedentemente e sottolineata nella Repubblica. Sono opere di difficile interpretazione – il Parmenide è addirittura talvolta definito “misterioso ed enigmatico”. Esse trattano le basi del pensiero platonico, quelle su cui si erge per l’appunto tutto il grande Dialogo Repubblica: la maieutica, la possibilità di conoscenza razionale (“scienza”), il discorso sulle Idee, la loro articolazione gerarchica, le sue concezioni etico-politiche. Non è chiaro se il punto di vista dell’autore sia diventato scettico al punto da criticare le sue stesse dottrine o se invece le stia elaborando in altra sede preferendo non esporsi troppo per iscritto o se, infine, la disamina spietata arriva ad aporie che Platone stesso si accorge di non poter risolvere.
Cosa ci dicono gli interpreti? Per esempio:
1) La Scuola Tubinga-Milano, con da noi il Prof. Reale, di cui leggiamo il testo che raccoglie tutte le opere di Platone, accetta che Platone non abbia dato soluzioni nei testi scritti, che si ammettono essere interpretabili solo alla luce delle dottrine non scritte: nel pensiero platonico sarebbe presente un’evoluzione con forte immissione di influenze pitagoriche che lo portò ad articolare il piano metafisico sui progressivi livelli già accennati nella Repubblica.
2) Il Prof. Migliori ha cercato di valutare i testi scritti senza ricorrere alla supposizione delle dottrine orali, che peraltro lui non esclude, ed è arrivato alla conferma di trovarli aporetici: Platone non chiarisce in maniera sistematica il senso dato alla sua gerarchia metafisica. Parte delle difficoltà risiederebbero, nota Migliori, nel fatto che i termini tecnici usati da Platone non avevano una tradizione d’uso stabilita: quindi ci troviamo a trattare con parole greche pregne di varie sfumature semantiche attraverso cui, a seconda della traduzione, si possono implicitamente suggerire determinate prospettive interpretative.
3) Altri in generale invece sostengono che Platone, messo alle strette dalle obiezioni mosse da collaboratori eccellenti (tra cui Aristotele), a questo punto della vita si rese conto che la dottrina delle Idee non semplificava la comprensione del mondo di qua ed anzi aggiungeva altri problemi. Disilluso e disinnamorato della propria ingenua concezione, si sarebbe messo a scrivere Dialoghi che la complicano con il proposito di mostrarne le debolezze per smontarla, metterla in crisi, negarla. Un Platone quasi scettico, insomma, capace di nascondendosi dietro a questo o quel personaggio, giocando con le maschere (immagine presa a prestito da Reale); un Platone che smonta ciò che ha lui stesso contruito, prima che lo facciano gli altri… Sono suggerimenti che lasciano perplessi… come si fa a credere che l’autore del Simposio o del Fedro sia poi arrivato ad invecchiare senza slanci d’amore verso una visione di pura bellezza?
Dopo Platone e la prima generazione di Accademici, il Platonismo effettivamente ebbe, nel periodo ellenistico, una svolta scettica prima di sviluppare l’elemento teologico-metafisico in età tardo imperiale. Gli Scettici in generale affermano che non esista sapienza, ma solo una forma di saggezza pratica: l’uomo saggio sarà allora semplicemente colui che si astiene dal parlare della natura delle cose (afasia), dal dare giudizi (epoché), rimanendo quanto più connesso ad una imperturbabilità (atarassia) che è la versione veramente umana di quell’equilibrio a cui Socrate, Platone ed Aristotele avevano cercato di dare definizione; la felicità umana sarà un mantenersi indifferente di fronte al cambiamento delle cose del mondo, raggiungendo “apatia”. Tracce di scetticismo perlomeno “latente, potenziale” si potrebbero intercettare già in Presocratici, per esempio Parmenide ed Eraclito che avevano distinto la sapienza (sophìa) dall’opinione (doxa), e nelle aporie di Socrate e di Platone, se le interpretiamo come implicite affermazioni dell’impossibilità per l’uomo di raggiungere una forma di conoscenza certa delle cose del mondo. Il dibattito su questa possibile interpretazione di Platone si aprì già nell’Antichità e si muove dalla stessa definizione del filosofo come “amante” della sapienza, e non sapiente in sé. Per approfondimenti di questa prospettiva, il testo del Prof. Mauro Bonazzi, Academici e Platonici, Il Dibattito Antico sullo Scetticismo di Platone (una brevissima recensione al link: http://www.lededizioni.com/catalogo.html?/catalogo/bonazziacademici.html)
Cristina Rocchetto