14. La Città ideale come felice luogo di realizzazione dei suoi cittadini (Repubb…
20 Luglio 201716 Il tempo ciclico come figura del movimento (ultimo su Platone).
20 Luglio 2017«Posto che, pare, esistono tre piaceri, uno legittimo e due spuri, il tiranno, dopo aver violato il confine di quelli spuri ed essere fuggito dalla legge e dalla ragione, convive con piaceri servili che gli fanno da guardie del corpo» Libro IX, Repubblica
Con questo post vorrei rilevare alcune somiglianze e differenze tra i tre Dialoghi politici di Platone prima di inserirli nella prospettiva più vasta che per il loro tema comune (l’inevitabile deterioramento di tutte le forme di governo storiche) Platone gradualmente concepì. Tale sarà l’argomento del mio post finale, rispetto al quale questo rappresenta una dovuta premessa.
Abbiamo detto che Platone sembra mostrare, dopo aver scritto la Repubblica, un interesse più rivolto verso i problemi concreti. Ho quindi proposto di leggere i tre Dialoghi più teoretici (Parmenide, Teeteto e Sofista) intanto come testi didattici scritti (anche) per mostrare come deve essere educato il Filosofo – figura alla quale poi Platone non ha mai dedicato un’opera specifica, disseminandone la trattazione in tutta la sua produzione prima rappresentandolo attraverso la figura storica di Socrate, poi utilizzando Socrate per parlare della teoria delle Idee, infine discutendo del Filosofo in generale in contrapposizione al Sofista ed al falso Politico, argomento trattato soprattutto nella prima parte del Dialogo omonimo. In tutte queste opere Socrate perde il suo ruolo di protagonista principale: Platone ne segnala la presenza sulla scena, ma non è a lui che dà la parola. La caratteristica di questi Dialoghi, con l’eccezione della seconda parte del Politico, è la mancanza di cornice letteraria tipica degli scritti della maturità, una grande astrattezza del linguaggio, assenza di immagini e miti, la coppia maestro adulto-discepolo giovane ed appunto l’intento che (mi) sembra didattico di mostrare e spiegare il metodo dialettico in sé. In questo tipo di opere rientra anche il Filebo, a parte il fatto che in questo testo Platone rimette Socrate nella posizione del protagonista (che parla con due giovani, Filebo e Protarco). In effetti, l’argomento del Filebo è etico, nel senso che la domanda di fondo è come/cosa sia una vita davvero felice. Considerando che questo era il campo d’interesse di Socrate, si può ben capire perché Platone gli restituisce qui e per l’ultima volta un ruolo di primo piano; la discussione è però sviluppata dialetticamente: innanzi tutto si interpreta la vera felicità come legata al Bene, quindi all’Idea di Bene, quindi ad una dimensione raggiungibile solo con il pensiero razionale o intelligenza, e non attraverso il piacere, collegato al sistema sensoriale del corpo ed all’indeterminatezza “del più e del meno”, che non è misura assoluta, ma relativa a qualcos’altro; si parla quindi e di nuovo di Unità (come principio del limite e della misura) e Molteplicità (come principio dell’infinitamente grande ed infinitamente piccolo) che vengono ad essere definite due dei quattro generi della realtà, assieme alla Mescolanza e ad una non meglio definita “Causa della mescolanza”, che dovrebbe essere ciò che miticamente nella Repubblica e nei Dialoghi più tardi è rappresentato dal Demiurgo – il tutto ricorda moltissimo quella che sarà la Dottrina delle Quattro Cause di Aristotele. Il succo del discorso etico, in sintesi, è che un uomo avrà una vita (veramente=stabilmente) felice solo se mosso dall’Idea del Bene, che dà proporzione e misura (anche ai piaceri, che Platone non nega, ma che accetta se disciplinati e contenuti dall’idea greca della giusta misura, della proporzione e del giusto mezzo). Da notare che la definizione dell’uomo felice coincide in ultima analisi con quella del Filosofo/Dialettico “sapiente in divenire” e del Saggio, poiché coincidono la sapienza teorica (del Filosofo)il cui oggetto è la Verità (Alétheia, á¼EURλήθεια), che è “disvelare, conoscere il Bene”, e la saggezza pratica (del Saggio), il cui oggetto è la Felicità (Eudaimonìa, εá½?δαιμονία – letteralmente garantirsi la fortuna, la buona sorte, ovvero “un buon démone), che è il realizzare il Bene, essere felici. L’uomo sapiente conosce il Bene in termini intellettuali, ma è anche uomo saggio poiché il male si compie solo per mancanza di conoscenza (come voleva Socrate): va da sé che chi conosce il Bene non può poi “razzolare male”. E’ evidente anche il perché, avendo un obiettivo etico-politico in mente, Platone dà importanza fondamentale all’educazione e formazione del cittadino, soprattutto delle giovani generazioni.
Il Politico è la prima opera prettamente politica dopo la Repubblica e fa appunto parte della sequenza delle opere teoretico-dialettiche trattate. Il discorso qui si svolge tra lo Straniero di Elea ed il Giovane Socrate, un compagno di studi di Teeteto già presente, ma silente, nel Tetteto e nel Sofista. Escl’uso il personaggio fittizio dello Straniero di Elea, gli altri sono tutti personaggi storici: il Giovane Socrate fu membro dell’Accademia di Platone. Lo Straniero di Elea, che ha promesso di definire il Sofista, il Politico ed il Filosofo, si concentra ora sulla seconda figura. Quasi un terzo dell’opera si occupa di cercare la definizione del vero Polico: il metodo è quello dialettico della diairesi o dièresi successive discendenti. Queste prime pagine non aggiungono molto e sembrano avere un valore puramente espositivo, come se si volesse semplicemente dare appunto un altro esempio di didattica del metodo ad un ragazzo, il Giovane Socrate (per questa mia affermazione mi richiamo anche al testo: cfr. 285 C-D, pag 344 del testo di Reale; tra l’altro, lo stesso Platone cita il Sofista come volesse fare un’autocritica: le sue opere più astratte dovevano aver sollevato moltissime critiche); in un altro momento del testo anche usando l’analogia. In generale, se per riconoscere il Sofista si deve avere dimestichezza con il tipo di argomentazioni da questo utilizzate e quindi si rimane su un piano prettamente teoretico astratto, per chiarire chi sia il vero Politico, e differenziarlo da chi si presenta tale ma non lo è, bisogna invece saper definire ciò che lo caratterizza: il possesso della “virtù politica”, che altro non è che la sua capacità di operare per il bene della comunità che governa, quindi di essere guidato dall’Idea del Bene. In questo senso, il vero Politico può essere solo il Filosofo, l’unico che, nel mondo dei fenomeni, ha poi davvero competenza per guidare come un pastore le greggi umane. Ma non è questa parte teoretica, peraltro molto meno impegnativa di quella esposta nei Dialoghi precedenti, il tema che di questo Dialogo desidero discutere. Ritorna qui la tematica della differenza degli Stati storicamente dati, che anche qui, come nella Repubblica e nelle Leggi, Platone mette in relazione con il modello di Stato ideale.
I Libri VIII e IX della Repubblica erano stati dedicati ai quattro tipi di Costituzioni storiche (timocrazia, oligarchia, democrazia e tirannide) spiegate psicologicamente/moralmente come progressivo degrado dell’anima razionale a causa del graduale prevalere delle parti impulsiva/irascibile e poi appetibile/schiava dei desideri dell’anima di chi governa.
1) lo Stato perfettissimo per Platone è uno Stato retto da una monarchia assoluta, con idealmente al vertice un Re-Filosofo singolo, anche se Platone non esclude la possibilità che un Collegio di (pochi) Re-Filosofi possano svolgere lo stesso ruolo: chiaro che l’amore di Platone per la riduzione della molteplicità all’unità gli fa preferire la prima forma. In questo Stato non esistono leggi, assolutamente inutili in un contesto dove i Governanti sono direttamente illuminati dall’Idea della Giustizia ed i cittadini, educati a perseguire il bene dello Stato ognuno compiendo in modo eccelso la propria mansione come espressione più alta della propria autorealizzazione personale, non hanno bisogno di altri rimandi a norme scritte, di per sé incapaci di cogliere e valutare l’unicità di ogni caso individuale.
2) questo modello di Stato è rarissimo se non impossibile da realizzare nella realtà materiale, che, dice Platone, in ogni caso è destinata a deteriorarsi. Quindi, nel mondo, la prima forma che gli assomiglia è lo Stato costituzionale monarchico o aristocratico (a seconda se il vertice è occupato da una o più persone). Per aristocratico qui si intende un gruppo elitario “dei migliori” nel senso di individui dominati dalla parte razionale dell’anima: il loro compito è di emanare leggi che salvaguardino la sopravvivenza dello Stato, leggi immutabili alle quali gli stessi Governanti saranno poi soggetti. Il Governante di questo tipo di Stato è l’uomo che apprende, che tende cioé a riflettere sull’esperienza personale e collettiva;
3) Platone spiega che, siccome ogni cosa nel mondo è destinata a deteriorarsi (ed il perché di questo sarà il punto che sentirà il bisogno di sviluppare dal Politico in poi, come vedremo), a questa forma seguirà prima o poi il prevalere dell’anima impulsiva soggetta a valori che cominciano ad essere irrazionali: innanzi tutto, ai valori dell’ambizione e dell’onore. Si avrà quindi la forma dei governi timocratici, retti da soggetti sensibili all’adulazione, alla fama, all’ammirazione, finalità che li distolgono dal bene prioritario dello Stato e li fanno concentrare più su se stessi;
4) quando tra questi valori concentrati sul personale si immette il valore dato al guadagno ed all’utile materiale, ovvero all’accumulo di mera ricchezza personale, avremo l’ulteriore degenerazione del governo oligarchico caratterizzato dalla prevalenza di un’anima impulsiva ormai totalmente rivolta verso il basso dei suoi Governanti. La città diventa “due città in una”, irrimediabilmente divisa tra ricchi e poveri – ricordiamo che nello Stato ideale la povertà non esiste, Governanti e Guerrieri non hanno diritto alla proprietà privata, vivono in totale comunanza di donne e di figli: solo ai Produttori, che sono lavoratori autonomi o salariati, è concesso di possedere beni materiali, case ed avere famiglie proprie. Non occuparsi delle classi inferiori è segno di degenerazione: vero che Platone fa tutto un discorso alquanto inquietante sui cittadini disabili, anziani ed in generali inutili per il bene della comunità; accanto a questo, afferma però che i cittadini considerati sani e degni di esserne membri devono essere tanto controllati quanto salvaguardati, in quanto parte integrante di un organismo unitario;
5) la rivolta del volgo/demo a questa forma di ingiustizia creerà costituzioni democratiche, dove i governanti sono il popolo stesso nella sua molteplicità di bisogni e desideri individuali ed irrazionali: senza una regola superiore, ognuno di questi bisogni e desideri apparirà a ciascuno il prioritario; si avranno quindi governi instabili in cui prevarrà chi avrà buon gioco per farsi notare dal popolo ad un certo punto disorientato in un contesto di anarchia e rivolgimenti di potere repentini;
6) sensibile alla parola di sofisti, retori e demagoghi, il popolo prima o poi si darà spontaneamente in mano al tiranno. La descrizione dell’anima del tiranno a cui è dedicato tutto il Libro IX della Repubblica dovrebbe essere un testo oggetto di lettura e discussione in tutte le nostre scuole superiori per l’attualità degli spunti che offre ai ragazzi in età formativa (da circa i sedici anni in su).
Notiamo che lo schema è articolato in tre forme di governo costituzionale (dell’uno, dei pochi, dei molti) ordinati in coppie di opposti, da cui rimane isolata, come forma astratta ed ideale, la descrizione dello Stato perfetto:
a) uno=monarchia costituzionale del Re-Filosofo/tiranno
b) pochi= aristocrazia: timocrazia/oligarchia
c) molti= democrazia, di cui Platone descrive due forme, pur dicendo che ad entrambe si può dare uno stesso nome
Rilevante la contemporanea presenza del numero 7 e dicotomia dei contrari ed interessantissimo il parallelo che il Prof. Giorgini fa tra il Filosofo-politico ed il Tiranno, le due figure a cui Platone dedica tante pagine anche di altri Dialoghi precedenti (pensiamo anche al Gorgia): rimando al link https://www.youtube.com/watch?v=Pa31c7IKLXY
Con la seconda parte del Politico si nota un diverso punto di vista ed un ampliamento di interessi in Platone, per cui il fatto che lui ci presenti questo Dialogo come direttamente collegato al Sofista potrebbe essere un’indicazione relativa: in fondo lo stesso gioco di richiami è fatto anche tra la Repubblica ed il Timeo, che, come vedremo, sono Dialoghi cronologicamente (non tematicamente, presentando l’uno lo sviluppo di spunti introdotti dall’altro) distanti. Dal Politico fino alla morte di Platone, infatti, questo stesso schema degenerativo sarà inserito in una più comprensiva visione storico-cosmologica, una “filosofia della Storia” fondata sul regolare movimento del tempo ciclico di cui parleremo meglio nel prossimo post. Si ripete il concetto di uno Stato monarchico ideale totalmente svincolato da leggi, quindi assoluto e retto da un potere discrezionale: il monarca giusto sa come valutare i casi singoli di cui la legge, che generalizza, non potrà mai dare una vera giusta ragione. Le forme di governo storiche, che sono progressive degenerazioni del modello di Governo ideale, devono invece necessariamente ed assolutamente darsi delle leggi scritte sopra le quali nessun Governante ha potere di muoversi: il loro processo di deterioramento progressivo è proprio interpretato in base al fatto che esse rispettino o meno le loro stesse leggi. Lo schema è quindi: governi costituzionali/incostituzionali dell’uno, dei pochi, dei molti:
1) potere regio/tirannide
2) aristocrazia (dei timocratici)/oligarchia
3) democrazia/anarchia, demagogia
Ne consegue tutta l’importanza data ora, a differenza che nella Repubblica, alle leggi dello Stato che, aventi come obiettivo la coesione interna, non devono essere messe in discussione da nessuno anche quando evidentemente imperfette, neppure da coloro che, governanti imperfetti, meri politici e non filosofi, pur creandole, sono tenuti a rispettare. E proprio un’opera dedicata ed intitolata alle Leggi è ultima lunga opera di Platone rimasta incompiuta, divisa in dodici parti o Libri e pubblicata da un suo discepolo. Qui Socrate non c’è più: l’occasione del Dialogo è una discussione di tre anziani personaggi fittizi, un Ateniese, un Cretese ed uno Spartano, che, in cammino verso il santuario di Zeus (un dio nominato non a caso, dato il tema del Dialogo dedicato alle leggi – Platone non lascia molto al caso, gioca spesso con rimandi, corrispondenze e ritorni, riflessi, per lui, di quell’Ordine superiore ed universale a cui dedica le sue opere più tarde), discutono e si confrontano pacamente prima il significato delle diverse abitudini culturali dei loro luoghi di provenienza. Traendo poi spunto dal fatto che il vecchio Cretese è stato scelto per emanare insieme ad altri le leggi di una nuova colonia di Creta, i tre analizzano il senso ed il significato delle leggi e delle varie Costituzioni storicamente conosciute. Il testo diventa così una specie di trattato delle diverse legislazioni, con excursus storici (per esempio discutendo l’acme e la degenerazione della monarchia persiana) e digressioni mitiche (nominati nuovamente, come nel Politico, nel Crizia e nel Timeo, il mito di Atlantide ed il diluvio).
I temi sono simili a quelli della Repubblica, ma il punto di vista è totalmente ribaltato: quella descriveva come Platone, mettendola in bocca a Socrate, si immaginava la perfezione del modello di Città ideale, un'”Idea di Città”; nelle Leggi il punto di vista è pratico: dopo aver dedicato Dialoghi alla figura ed all’educazione del politico non più ideale, ma umano, qui lo si vede nell’atto di riflettere, confrontando le possibilità date e la loro esperienza nella Storia, quali leggi preferire e perché. Vi è uno spazio di libertà riconosciuto all’uomo: la riflessione razionale. Infatti qui tre uomini ANZIANI (tre “migliori”) si permettono di dialogare, valutare e confrontare le legislazioni delle proprie città, premettendo però di essere pari per età e dignità, di non essere al cospetto di chi potrebbe fraintendere e, soprattutto, di non avere attorno persone giovani – discutere apertamente le leggi infatti può essere pericoloso per l’armonia interna della Città e non è permesso a nessuno. Anzi, il rispetto delle leggi è ora identificato con l’immagine di un filo d’oro, simbolo della razionalità umana, già dal Libro I. Questo filo è ciò in cui si ritrova ora trasformata -oserei dire ridotta – l’anima razionale, che collega l’uomo all’Ordine che lo trascende e che sulla Terra e nel Tempo non può che essere riflesso dalle leggi comunitarie: l’essere umano diventa un burattino mosso dai fili (di diversi metalli, rigidi) delle sue diverse passioni rette (o meno) dal gioco degli dèi; quel filo d’oro (flessibile) rappresenta la sua unica possibilità di libertà personale, che, come diranno, sviluppando l’argomento, soprattutto gli Stoici, ma anche Aristotele, sembra identificata essenzialmente con la libera accettazione di ciò che lo sovrasta, il che vuol dire che la libera scelta è confinata alla personale e razionale/saggia approvazione di ciò che è dato.
Sembra chiaro che le immagini di Platone siano funzionali al discorso che fa: ora che il focus è sulle leggi, l’uomo è quasi privato di anima, lo splendido volo della biga alata di cui l’auriga deve saper governare le opposte pulsioni mantendendo equilibrio e rotta dietro al carro del suo dio (Fedro), la magnifica immagine d’un’anima individuale che, in ricordo della propria esperienza passata, potrebbe prudentemente scegliere un nuovo destino trasmessa dal mito di Er (Libro VII, Repubblica), la tensione dell’anima innamorata della sua parte dimezzata (mito detto dell’androgino, che ovviamente non riguarda solo l’anima di questo genere misto) raccontata da Aristofane nel Simposio, lo sviluppo del tema dell’amore come mancanza e tensione verso l’autorealizzazione del racconto di Diotima a Socrate (ancora Simposio) e dell’amore come motore per l’autorealizzazione reciproca del Fedro, tutto questo ed altro ancora sembrano ora lontani dall’immagine d’un uomo saggio e filosofo la cui libertà sta nella capacità di scegliere di farsi guidare da un filo, d’oro e più flessibile, ma pur sempre un legame che lo collega alla Sapienza TRAMITE (il rispetto delle) leggi storiche della sua città data. E quanto distante è da questa l’immagine di un’altra trama, quella tessuta dal Re-filosofo del Politico, per tenere coeso il tessuto socio-politico della Città!
Il lungo testo riabbraccia anche temi cosmologici e mitici che vedremo nel prossimo e conclusivo post; varie leggi sono discusse dettagliatamente: in generale, le leggi giuste sono quelle che si ispirano alla conoscenza dell’Ordine/Calendario cosmico e che quindi inseriscono lo Stato, opera umana, in una visione che lo sovrasta e gli dà senso, con miti di origine del mondo, di fondazione, giorni festivi, sistema di premi e punizioni eccetera. Alla luce di quanto detto già nella Repubblica circa il valore pedagogico delle creatività umana, non si è sicuri che Platone parli di questa specie di religione cosmico-astrale perché ci crede davvero o perché ormai non crede più che il fattore di coesione fondamentale per la sopravvivenza di una comunità possa poggiare sulla (sola) capacità razionale dei suoi membri, ma debba anche e soprattutto riposare sul fatto che essi credano=siano educati e governati in modo tale da credere e non mettere in dubbio che quanto viene scelto da chi li governa riflette e realizza nello Stato una precisa corrispondenza con il resto del Cosmo.
La consapevolezza che tutto, nel mondo, è destinato a deteriorarsi e finire getta un’ombra quasi pessimistica in tutto il testo ed eserciterà una grandissima influenza sull’immagine della Storia di grandissima parte della cultura occidentale a venire. Una nota storica a questo discorso: dal 359a.C. il trono di Macedonia, regione semi-barbara a nord della Grecia, era occupato da Filippo II, padre del futuro Alessandro Magno (di cui fu per qualche tempo maestro Aristotele alla fine degli anni ’40, dopo la morte di Platone). Filippo aveva subito mostrato un interesse verso la Grecia – alla quale farà perdere la propria indipendenza nel 338 a.C. con battaglia di Cheronea. Quindi, per ben vent’anni le poleis greche videro addensarsi minacciose nubi ai confini della loro esistenza. Platone muore nel 348/347 a.C.: il suo acume politico, la sua esperienza e la sua attitudine riflessiva, a parte l’agitazione crescente in Atene rappresentata per esempio dalle orazioni contro il re macedone (le Filippiche) di Demostene e dal sogno di “patriottismo nazionalistico” del maestro di retorica Isocrate, certo non gli risparmiarono il peso dell’ansia e l’amarezza di un’intuizione storica. Tenendo conto di questo nuovo contesto, possiamo meglio comprendere il nuovo interesse dell’anziano Platone verso una Filosofia della Storia onnicomprensiva e la sua scelta di accostare nel suo ultimo Dialogo tre anziani saggi provenienti sì da tre luoghi diversi di quell’atomistico mondo greco, ma che, anziché opporsi e contraddirsi a vicenda con la presunzione di essere ognuno il rappresentante del modo di vivere e della legge migliore, parlano, ascoltano e si confrontano educatamente tra loro. Se rileggiamo il testo delle Leggi da questa prospettiva, vi potremmo riconoscere sicuramente l’assenza dell’appassionato entusiasmo, ma anche l’estrema e riflessiva esortazione di un Greco alla pace non più solo interna ad uno Stato, ma estesa ad un senso di appartenenza più estesa.
Cristina Rocchetto
Nella raccolta dell’opera del Prof. Reale: https://giuseppecapograssi.files.wordpress.com/2015/03/platone_a_cura_di_giovanni_reale_tutti_gli_scribookzz-org.pdf
Repubblica – pag 1067
Politico pag 315
Leggi – pag 1447 (mito del filo d’oro, pag 1477)
Vedere anche eventualmente i testi nei link:
Repubblica: http://www.ousia.it/content/Sezioni/Testi/PlatoneRepubblica.pdf
Leggi: http://www.ousia.it/content/Sezioni/Testi/PlatoneLeggi.pdf