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27 Gennaio 2019James Joyce
27 Gennaio 2019
Gabriele D’Annunzio
Libro Quarto delle LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI
La canzone della Diana
- Tutti i cipressi fremono. O Canzone,
- squilla! I corvi dall’arco tiburtino
- s’alzano andando verso il Teverone.
- Altrove è l’alba. Un pascolo marino
- è l’Agro. L’Urbe è un’isola. Si spande
- la più gran luce sopra l’Aventino,
- verso la Porta d’Ostia, in sette bande.
- Nell’ombra del Gianicolo tre vele
- rosse rimontan verso Ripa Grande.
- Sul Mausoleo l’Arcangelo Michele
- sfolgora. Ritto sta su l’altra mole
- a cavallo il secondo Emanuele.
- Ninfa perenne dalle mille gole
- l’acqua canta le origini del Lazio.
- Niuna cosa mai tu veda, o Sole,
- maggior di Roma! Il numero d’Orazio
- a quando a quando par, tra l’Arce e il Fòro,
- riecheggiato nel divino spazio.
- Pieno di nume è l’aere sonoro.
- Tronca la quercia un dio sul Celio? taglia
- un eroe sul Gianicolo l’alloro?
- Riarde ai Quattro V’ènti la battaglia
- sublime? ancóra fumiga il Vascello?
- ancóra il sangue bulica e s’accaglia?
- ancóra ai giovinetti ebri il mantello
- bianco del condottiere è l’ala intatta
- della Vittoria? il Dandolo l’appello
- ultimo fa su la scalea scarlatta
- ove sopra i cadaveri il cavallo
- del gran Masina dà l’ultima stratta?
- Irto di furia è il muto piedestallo.
- I bersaglieri di Lucian Manara
- disperati empion d’animo il metallo.
- Laggiù, guatano il ciel che si rischiara
- dietro il muro di fango, nel palmeto,
- i bersaglieri di Gustavo Fara.
- Laggiù, sotto la cupola che sgretola,
- arde l’araba lampada al bivacco
- e la vedetta sta sul minareto.
- Pietro Ari laggiù tra sacco e sacco
- spia l’Oasi, con l’occhio a mira certa,
- tranquillo masticando il suo tabacco.
- I mozzi, come fossero in coverta,
- stanno alla guardia della batteria
- sopra il sabbione; e l’un per gioco «Allerta
- a proda!» grida. E vien dalla Menscìa,
- con l’afa dei cadaveri, odor d’erbe
- arse nel vento, odore di gaggìa.
- Poggiato al pezzo il morituro imberbe,
- che morderà la sabbia, i denti bianchi
- ficca nel pane e nelle frutta acerbe.
- Odesi il canto dei soldati stanchi
- che scavan le trincere nelle tombe
- dei Caramanli. Il canto li rinfranchi.
- S’ode nel cielo un sibilo di frombe.
- Passa nel cielo un pallido avvoltoio.
- Giulio Gavotti porta le sue bombe.
- Laggiù, presso la mola d’un frantoio
- o presso i tronchi d’un’antica noria
- onde pendon consunti e corda e cuoio,
- sorride un morto all’invisibil gloria.
- Il paradiso è all’ombra delle spade
- e la delizia è il fior della vittoria.
- Ulula per i campi senza biade
- il duolo delle donne beduine
- alterno, ed or s’inalza ed ora cade.
- All’ombra d’una palma, sul confine
- dell’Oasi, una croce rude è fitta
- in un tumulo cinto dalle spine.
- Nome inciso non v’è, non lode inscritta:
- altro segno non v’è se non l’eterno.
- Sola una nudità vi splende invitta.
- Un dal tuo più profondo sen materno
- escito, Italia, un figlio tuo vi dorme;
- che s’ebbe anch’egli forse il pianto alterno
- là nell’isola dove l’ombra enorme
- del Passato covar sembra il nuraghe
- perché ne sorga un popolo conforme.
- Non la madre mortal toccò le piaghe,
- né le lavò, né le lasciò di bende,
- già consunta dall’ansie sue presaghe.
- Ma tu guardasti le ferite orrende
- e componesti il corpo in quel sepolcro.
- Sola una invitta nudità vi splende.
- E la terra fu tua per quel sepolcro,
- tutta la terra inclusa tra la Sirte
- e il Deserto fu tua per quel sepolcro!
- Canto l’azzurro e l’oro della Sirte,
- l’azzurro che nel grande oro s’insena,
- ove non dagli scogli ma dall’irte
- navi con l’urlo lungo la sirena
- lacera l’aria pregna dell’aroma
- che inebria i prodi; e bianca su l’arena
- Tripoli infida cui la guerra schioma
- come femmina presa per le trecce
- dalle pugna del maschio che la doma.
- Le sue palme schiantate, le sue brecce
- fumide canto; canto i suoi villaggi
- rasi che brucian come in luglio secce
- di Maremma, onde fiutano i selvaggi
- poledri il dubbio odore dalle chiatte
- ben costrutte e nitriscono ai foraggi
- salini che pascean lungo le fratte
- di tamerici, presso i sepolcreti
- sonori dove il mare etrusco batte.
- O terra di sepolcri e di forteti,
- Maremma, canto la tua razza equina,
- la ben crinita razza che disseti
- nel sarcofago tolto alla ruina
- di Saturnia o di Volci e che rinfreschi
- con un germoglio roscido di brina.
- Salute, o terra degli Aldobrandeschi!
- Pioggia e sole ai tuoi bradi la criniera,
- come l’ocra e la robbia ai barbereschi,
- arrossano finché di primavera
- tu non li marchi all’anca e alla ganascia
- per arrolarli sotto la bandiera.
- La chiatta a fondo stagno il mastro d’ascia
- chioda, coi sacchi d’aria e con le botti
- l’aiuta, con i canapi la fascia.
- I cavalli s’impennano, condotti
- alla gru; cinti dell’imbraca, appesi
- al paranco, paventano. Interrotti
- sibili, canti di fatica ai tesi
- canapi, voci di comando, liti
- di battellieri, gergo di Maltesi,
- schianti d’assi e di tavole, nitriti
- e scàlpiti nel vento che ridonda,
- sudore e schiuma, urti d’abbordo, attriti
- di ferramenta; e tutta l’aria è bionda
- come su Talamone; ed agli approdi
- i maremmani giungono con l’onda.
- Maremma, canto i tuoi cavalli prodi.
- Tra sangue e fuoco ecco un galoppo come
- un nembo. E la cavalleria di Lodi,
- la schiera della morte. So il tuo nome,
- o buon cavalleggere Mario Sola.
- Giovanni Redaelli, so il tuo nome;
- Agide Ghezzi, e il tuo. “Lodi” s’immola.
- E veggo i vostri visi di ventenni
- ardere tra l’elmetto e il sottogola
- o dentro i crini se il caval s’impenni
- contra il mucchio. Gandolfo, Landolina,
- alla riscossa! Tuona verso Henni.
- Tuona, da Gargarèsch alla salina
- di Mellah, su le dune e le trincere,
- su le cubbe, su i fondachi, a ruina,
- su i pozzi, su le vie carovaniere.
- La casa di Giammìl ha una cintura
- di fiamma. Appiè, appiè, cavalleggere!
- Vengono di Taruna e di Tagiura,
- vengon di Gariàn e di Misrata;
- e dal Deserto un’altra massa oscura
- s’avanza già sotto la cannonata.
- Or biancheggiano al vento i baracani:
- s’arrossano se scoppia la granata.
- Occhio alla mira ferma, o cristiani.
- Solo chi sbaglia il colpo è peccatore.
- Vi sovvenga! Non uomini ma cani.
- Per secoli e per secoli d’orrore,
- vi sovvenga! Dilaniano i feriti,
- sgozzan gli inermi, corrono all’odore
- dei cadaveri, i corpi seppelliti
- dissotterrano, mùtilano i morti,
- scempiano i morti. Straziano i feriti,
- gli inermi, i prigionieri, i nostri morti!
- Vi sovvenga. Dovunque è il tradimento,
- nelle case, nei fondachi, negli orti,
- nel verde d’ogni palma, nell’argento
- d’ogni olivo, allo svolto d’ogni via.
- I marinai lo fiutan sottovento.
- O Tripoli, città di fellonìa,
- tu proverai se Roma abbia calcagna
- di bronzo e se il suo giogo ferreo sia.
- Avanti, o Bracciaferri, Adorni, Bagna,
- Pergolesi, Coralli! Il maschio Fara
- vi guarda. Cresce il sangue e mai non stagna.
- Tutti in piedi. Nessuno si ripara.
- Chi cade, si rialza; e poi stramazza.
- La spalla del soldato è la sua bara.
- Immune su la grandine che spazza
- l’Oasi atroce, splendido nell’alto
- cielo un alato spia. Salute, o Piazza,
- Mòizo, Gavotti dal tuo lieve spalto
- chinato nel pericolo dei v’ènti
- sul nemico che ignora il nuovo assalto!
- Anche la morte or ha le sue sementi.
- La bisogna con una mano sola
- tratti, e strappi la molla con i denti.
- Poi, come il tessitor lancia la spola
- o come il frombolier lancia la fromba
- (gli attoniti la grande ala sorvola)
- di su l’ala tu scagli la tua bomba
- alla sùbita strage; e par che t’arda
- il cuor vivo nel filo della romba.
- Non guarda il cielo Pietro Ari. Guarda
- tra sacco e sacco. Pelle non scarseggia.
- Sceglie, tira, non falla. E’ testa sarda.
- Non si volta, non grida né motteggia.
- Mira e tira. Una palla squarcia un sacco.
- Una rimbalza su la canna e scheggia
- la cassa. Un’altra viene a tiro stracco
- e un po’ lo pesta. Un’altra vien di schiàncio
- e lo strina. Egli morde il suo tabacco.
- E’ a testa nuda, testa quadra. A un gancio
- pende l’elmetto. Intorno è pien di bòssoli.
- Ancor nella gamella è caldo il rancio.
- Anima, corpo e patria son nel fosso
- come in un focolare più capace
- che l’arborense. Una man sacra ha smosso
- col ferro nella cenere la brace
- dentro il cerchio dei sassi. Le sorelle
- cuciono in sogno il suo gabban d’orbace.
- Ei dormirà, come le prime stelle
- tremino, su la stuoia stesa in terra.
- Or è nella mislèa. «Pelle per pelle»
- dai padri suoi che dormono sotterra
- fu comandato. Or contro questi cani
- sta con fegato buono a mala guerra.
- Quante grandùre, quanti baracani
- colcò, sotto la grandine che scroscia!
- Ancor uno! Ancor uno! Oggi e domani
- e mai sempre. Una palla nella coscia
- gli spezza il taglio della baionetta
- cinta al fianco, e nell’osso della coscia
- il mozzicon del ferro gli s’imbietta
- forte così che sola una tanaglia
- o la mano del Sardo in una stretta
- cruda lo possa svellere. Ei travaglia
- seduto su lo zàino. Alfin lo svelle.
- S’alza nel sangue, e torna alla battaglia.
- Non torna al focolare? Le sorelle
- cuciono in sogno il suo gabban d’orbace.
- Or tinto è il panno, e l’opre son più belle.
- Ancor uno! Ancor uno! Non è pace
- ancóra. In piedi nel suo sangue, ammazza.
- Il sangue scorre e l’anima è tenace;
- ché rugge in piedi tutta la sua razza
- ora nel suo coraggio, su quell’osso
- scheggiato, e del suo sangue egli la chiazza.
- Ancor uno! Due tre gli sono addosso,
- lo prendono, gli strappano il fucile,
- lo forzano, lo traggono dal fosso.
- Non son que’ cani, sono i suoi! Le file
- de’ suoi vede in ginocchio ai parapetti,
- i pacchi di cartucce nel barile;
- gli scatti ode, gli scocchi dei moschetti;
- ode il tonfo d’un corpo che si piega,
- la rabbia che stridisce su gli elmetti.
- E il taciturno supplica, diniega,
- minaccia, si dibatte. Il sangue scorre
- per la barella. Ei rugge ancóra, e prega!
- Verso Messri, un eroe nomato Astorre
- ha tolto all’orda lo stendardo verde;
- e tutto il fronte alla riscossa accorre.
- Su, compagnia dello stendardo verde,
- Ottava! Su, la Settima, col prode
- Orsi! L’inferno di Giammìl si perde.
- Spinelli, alla riscossa! Ala dell’Ode,
- non batti se non come il chiuso cuore.
- Chiusa fremi, e il tuo numero non s’ode.
- Come quella d’Atene, per amore
- della mischia, t’allacci i tuoi calzari,
- Ode, e ricalchi l’orme del valore.
- Dal ciglio dei ridotti e dei ripari
- sporgi, Gloria più giovine, ed irraggi
- gli oscuri eroi pel cor di Pietro Ari.
- A corpo a corpo! Son tenuti i gaggi
- della Corsina e quelli di Marsala.
- Su la mischia feroce, su i selvaggi
- urli, sul mucchio, sul baglior ch’esala
- dall’animo scagliato a tutta possa,
- subitamente par che passi l’ala
- di quel mantello e la camicia rossa
- rilampeggi e racceso per la duna
- il riverbero sia di Gibilrossa.
- Croce d’argento contro mezzaluna!
- Undecimo, con l’ugne riafferri
- pe’ capegli di dietro la fortuna.
- Chi balza con lo stuolo irto di ferri
- di là dalle trincere e dai destini
- verso la sua bellezza? E’ Pietro Verri.
- «Avanti, marinai, garibaldini
- del mare!» Par che su lo scarno viso
- l’ardente ombra del Sìrtori s’inclini.
- Rotta la fronte che fu pura, ucciso
- cade. Par che l’alfiere da Camogli
- su le spalle si carichi l’ucciso.
- «Avanti!» Non è tempo di cordogli.
- Il pericolo ondeggia. Il tradimento
- è dietro i muri, è dietro i tronchi spogli
- che la grandine schianta; è in tutto il vento
- del Deserto e dell’Oasi. La sorte
- balena. Alla riscossa! Ei non son cento,
- e la bandiera sventola. Ora, o Morte,
- ei son cinquanta. E la bandiera sventola.
- Dov’è Giacomo Medici? Ora, o Morte,
- non son che dieci. E la bandiera sventola.