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27 Gennaio 2019James Joyce
27 Gennaio 2019
Gabriele D’Annunzio
Libro Quarto delle LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI
La canzone d’Elena di Francia
- Stelle dell’Orsa, Guardie dei piloti,
- e voi, Pleiadi, lacrime divine
- d’amori eterni e di dolori ignoti;
- e tu, fra le sorelle oceanine,
- che sola amasti un triste eroe mortale,
- e ti celi il tuo vólto nel tuo crine,
- o Merope d’Atlante, mia navale
- Musa; e tu, Vega, e tu, bacca di luce,
- Perla della corona boreale;
- o Sirio, Sirra, Aldebaràn, Polluce,
- Càstore, plenitudine di spirti
- che la corusca melodìa conduce;
- Notte, e Galàssia effusa per crinirti,
- Nube, e il dio che ti lacera, scorgete
- la bianca nave uscente dalle Sirti!
- Sul guerreggiato mare alta quiete
- regna. Il silenzio del Risorto incombe,
- come quando Simon gittò la rete.
- Quasi un dolce candore di colombe
- illumina la tolda della nave
- che reca i morti alle materne tombe.
- E su l’assi che chiudono il cadavere
- e sul letto ove sanguina il ferito
- arde una sola santità soave.
- La figura di prua non è scolpito
- legno ma un sovrumano Essere intento,
- con un sorriso eguale all’Infinito.
- E quegli ch’ebbe stritolato il mento
- dalla mitraglia e rotta la ganascia,
- e su la branda sta sanguinolento
- e taciturno, e i neri grumi biascia,
- anch’egli ha l’indicibile sorriso
- all’orlo della benda che lo fascia,
- quando un pio viso di sorella, un viso
- d’oro si china verso la sua guancia,
- un viso d’oro come il Fiordaliso.
- Sii benedetta, o Elena di Francia,
- nel mar nostro che vide San Luigi
- armato della croce e della lancia
- fare il passaggio coi baroni ligi
- su le navi di Genova e prostrato
- sotto i suoi gigli attendere i prodigi,
- sii benedetta; ché ritorna il fato
- d’amore all’acque istesse e in te rigiura
- il santo Re di lacrime beato.
- Ti sovviene dei morti di Mansura
- che putivan nel limo, su le rive
- del Nilo, ignudi, senza sepoltura,
- mentre per tutta l’oste le malvive
- genti ululavan come donne in parto
- di tra il marciume delle lor gengive,
- e i feriti, colcati su lo sparto
- come buoi, la Cappella e il suo Tesoro
- deprecavano in van pel sangue sparto
- e lungi travedean dal lor martoro
- splendere, dietro la criniera ardente
- di fuoco greco, la celata d’oro,
- la gran spada alemanna ben tagliente,
- e udian sonar la prece su la zuffa:
- «Bel sire Iddio, tu guarda la mia gente!».
- Allora il Re levavasi la buffa
- dal viso smunto; e, sceso degli arcioni,
- sfangava solo per l’orribil muffa.
- Per quel carnaio givasi carponi
- piangendo, a riconoscere i suoi cari
- morti, i suoi fanti come i suoi baroni.
- E i Vescovi, che in campo dagli altari
- assolvevano l’anime, al divino
- officio si turavano le nari.
- Ma il Re, toltosi l’elmo e il gorzerino,
- portava i corpi in su le braccia e in dosso
- quand’altri li traeva per l’uncino.
- E con quella pia man che avea riscosso
- Carlo d’Angiò di sotto il fuoco greco
- (in arme d’oro sul cavallo rosso
- che ardea per la criniera, ei fatto cieco
- e invitto dal suo Dio corse a traverso
- l’inferno avendo un grande Angelo seco)
- con quella mano l’ulcero perverso
- medicava, tagliava intorno ai denti
- la carne enfiata, ungeva il taglio asterso.
- Pane afflitto partia con le sue genti
- nelle fami. Parlava col lebbroso.
- Portava invidia agli uomini piangenti.
- «Bel sire Iddio, richieder non son oso
- fonte di pianto. Alcuna stilla basta
- all’alidore del mio cor penoso.»
- Le lacrime colando per la casta
- bocca, ei gustava nell’amaro sale
- la dolcezza che ad ogni altra sovrasta.
- Ma non tu piangi, o Amàzone regale.
- Una intrepida forza t’azzurreggia
- negli occhi, sotto il lino monacale,
- se il braccio lacerato dalla scheggia
- sostieni o la man tronca fasci o bagni
- le labbra al sitibondo che vaneggia.
- Non lacrime, non gemiti, non lagni.
- Quegli che vinse fuor della trincera,
- vuol col silenzio vincere i compagni.
- E quegli che di vivere non spera
- già fiammeggiar nel gelido lenzuolo
- sente i tre ferzi della sua bandiera.
- Qual novo giorno splenderà sul molo
- popoloso, laggiù? La Patria è tutta
- pallida, in piedi, con un vólto solo.
- Pallida, in piedi, con la gota asciutta,
- serra nel petto i nomi de’ suoi morti.
- Guarda lontano. E il mar non li ributta.
- Quale mistico approdo è atteso? I porti
- sono solenni come cattedrali.
- Donna di Francia, or sai quel che tu porti.
- Tu porti con la nave i sogni e l’ali
- e le rose future e il novo canto
- in quel cumulo d’anime e di mali.
- L’angioino vascello non più santo
- era allorché recava il grande spoglio
- del Re che volse in cenere il suo manto.
- Ben ti sovviene. Il funebre convoglio
- venìa così pel Mar siciliano
- con l’oste e col navile in gran cordoglio.
- E il Re col suo soave Gian Tristano
- stavasi in bara; e, qual lo pinse Giotto
- in Fiorenza, il cordiglio francescano
- nell’una man tenea forse e di sotto
- al drappo azzurro e al vaio e a’ fiordiligi
- avea su l’ossa il càmice incorrotto.
- Era lontano in Santo Dionigi
- il sepolcro, guardata dalla morte
- la via lunga di Trapani a Parigi.
- Re Tibaldo morivasi alle porte
- dell’Invitta, Isabella d’Aragona
- sentiva già l’orrore della sorte
- imboscata ne’ monti ove risuona
- giù per la costa calabra il maligno
- guado che lei travolse e la corona.
- E il Nasuto, il carnefice ulivigno
- de’ biondi Svevi, in terra di baldoria
- gli usci franceschi tinti di sanguigno
- non si sognava già, né la sua boria
- vedeva il lunedì di Risurresso
- e le galere di Rugger di Loria,
- quand’ebbe offerto in pegno di possesso
- eterno a Monreale il Cor beato
- e in Palermo il Lambello ebbe rimpresso.
- Ora a Palermo per divino fato
- il Fiordaliso ed il Lambel vermiglio
- raddotto hai tu, non in vessillo issato,
- o Elena di Francia, ma in naviglio
- ricrociato d’amore e di dolore
- ove tu splendi come il più gran giglio.
- «Così è germinato questo fiore!»
- par sorrida colui che su la roccia
- del sacro balzo, ove l’umano errore
- si purga, Ugo Ciapetta che rimproccia
- suo seme ha visto tutto vòlto in giuso
- fonder per gli occhi il male a goccia a goccia.
- «Nuova luce percote il viso chiuso»
- dice la Voce. E dice: «Qui si monta».
- Ed ovunque il suo spirito è diffuso.
- La sua forza gentile austera e pronta
- è la tempra dell’aria. O Italia bella,
- or sei fissa al tuo Sol che non tramonta.
- O dolce Francia, o unica sorella,
- per la muta speranza che s’inclina
- su le chiare acque della tua Mosella,
- per la memoria pia di Valentina
- che, fedele al suo lutto, patir volle
- senza tregua nel cor l’acuta spina,
- pei campi onde l’allodola tua folle
- balza chiamando, e i pioppi della Mosa
- fremono, e il sangue grida nelle zolle,
- Francia, ricevi e serba la gioiosa
- promessa che ti fa, d’una vendetta
- più grande, questa carne sanguinosa.
- Taglia per noi con la tua vecchia accetta
- un ramo della quercia di Lorena,
- sul colle ove Giovanna è alla vedetta,
- intreccia al ramo rude la verbena
- già sacra ai nostri padri, ed a noi manda.
- Su le Statue velate il ciel balena.
- Balena anche per noi da quella banda.
- Sul Campidoglio senza Feziali
- sospenderemo noi la tua ghirlanda.
- E tu òccupa il ciel con le tue ali,
- guerriera alata. Noi le navi forti
- spingeremo nel mar dai nostri scali.
- O Elena, che in fronte ai nostri morti
- impressa vedi la virtù di Roma,
- pel gran patto latino oggi tu porti
- la verbena augurale entro la chioma.