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27 Gennaio 2019James Joyce
27 Gennaio 2019
Gabriele D’Annunzio
Libro Quarto delle LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI
La canzone di Mario Bianco
- Giovine, so che vuota è la tua tomba
- là nella cerchia ove le primavere
- della morte una candida colomba
- reca, Medea nata del Condottiere
- di bronzo, quella che i suoi rosei marmi
- disfoglia come rose di verziere.
- Bergamo t’ebbe. Ma colui che parmi
- ti sorridesse come ad un fanciullo
- gentile, non l’adunco irto nell’armi
- Colleoni, sì ben Francesco Nullo
- era, la buona lancia, il grande e fermo
- alfier di Libertà, col viso brullo
- ancóra delle fiamme di Palermo,
- rotto dal piombo slavo il vasto petto
- offerto alla Giustizia ultimo schermo.
- Risorrideva nel virile aspetto
- il primo sogno che per il selvaggio
- Agro trasse il lanciere giovinetto
- quando la giovinezza era l’ostaggio
- d’ogni patto segnato col Destino
- ed ogni giorno era calendimaggio?
- Dov’egli cadde, cavalier latino
- in terra strana, ivi restò. La spoglia
- dell’eroe sola è mèta al suo cammino.
- Tu fosti tolto, su la nave in doglia
- alla Patria raddotto e alla soave
- madre che t’attendea su la sua soglia.
- Tinta in minio la prora della nave
- non era, né corona avea d’oliva
- né la mannella delle spiche flave;
- né sopra v’era teoria votiva
- che il virginal tuo sangue, libamento
- di guerra, offrisse alla divina riva.
- Ma la mistica voce era nel vento,
- ma sparso era il libame. «E’ questo, Italia,
- è questo il tuo fermento e il tuo cemento.»
- E non era solenne la paràlia
- a Delo come il funebre vascello
- che radduceva il Giovine d’Italia.
- Ed all’approdo ognun t’era fratello
- sentendo in sé l’immobile tuo cuore
- ripalpitare come un cuor novello.
- E dal silenzio funebre un dolore
- nascea possente come la radice
- della virtù. Quest’inno era il suo fiore.
- E la morte era quasi Beatrice
- che ci purificasse in una santa
- onda per trarci a un regno più felice.
- E tu non una giovinezza infranta
- eri, ma la promessa e il pegno. Aroma
- era del cuor la lacrima non pianta.
- E passasti i deserti ove arde Roma
- or d’altra febbre, e lungo il mar toscano
- le salse macchie che il libeccio schioma.
- Oh t’avessero almen per il Gargano
- procelloso raddotto al bel nativo
- colle scisso dal vomere frentano,
- al chiaro colle onde il palladio ulivo
- guarda il gregge dell’isole nomate
- dal nome del guerreggiatore argivo
- e i nostri monti quinci, le nevate
- imagini dei nostri alti custodi,
- e il grande Sprone, e il cerulo Nicate!
- Detto io t’avrei: «Buon figlio, se non odi
- qui fragor di battaglia né ti sazia
- l’effuso dopo te sangue di prodi,
- ben odi qui, sepolto nella grazia
- di San Giovanni, le tue querci cave
- vaticinare al vento di Dalmazia».
- Ma tu rivalicato hai senza nave
- il mar d’Africa. Vuota è la tua tomba
- che t’infiora la madre tua soave.
- Per Santa Barbara, alla prima romba
- del mortaio, già vigile tu eri;
- e Gian Muzzo sonava la sua tromba.
- Ed eran teco i primi cannonieri
- della morte, i tuoi Sardi e i tuoi Pugliesi;
- e tutti eran più bianchi e più leggeri.
- E parea che la gran Vergine accesi
- avesse i fuochi dell’aurora eterna
- alla festa e spiegato i suoi pavesi.
- Ardeva a Tripoli, a Bengasi, a Derna
- la festa del mortaio e del cannone,
- per Santa Barbara, in vicenda alterna.
- Senza pausa correva la canzone
- dall’una gola nera all’altra rossa:
- rugghio d’incendii le tenea bordone.
- L’odor divino della terra smossa,
- fra tanta afa, lo spirto della terra
- uomo e pezzo allenava nella fossa.
- Biego, Desuni, Pellegrini, Serra,
- dèmoni della vampa e del fragore,
- àlacri sinfoneti della guerra!
- Tutte le batterie un solo ardore.
- Tutte le volontà un nervo istesso.
- La massa era contratta come un cuore;
- la fila era flessibile qual nesso
- di tèndini. Fin l’ombra su l’arena
- tra l’uomo alzato e l’uomo genuflesso
- era un legame vivo. La catena
- unanime giocava agile e dura
- come i nodi nell’osso della schiena.
- Ove il ferro faceva una radura
- i superstiti in sùbito retaggio
- raccoglievan la forza moritura.
- I morti si drizzavan nel coraggio
- moltiplicato dei viventi. L’aria
- era come un ignito beveraggio.
- Roma apparìa. L’anima legionaria
- col vasto afflato dilatava i petti.
- Nel cielo spaziava l’ala icaria.
- Oh date gli asfodeli violetti
- d’Aïn-Zara, per tesser le ghirlande
- della gloria primiera ai primi eletti,
- ch’io li mesca ai narcissi della grande
- Berenice, ai nettunii gigli nati
- su l’orlo delle sabbie memorande
- ove tinse gli affusti trascinati
- a braccia il primo sangue virginale
- in libamento della Patria ai Fati.
- Guardiamarina, cippo sepolcrale
- in Tobrucca ti sia l’un dei cannoni
- ammutoliti, tolti nel campale
- giorno di Santa Barbara ai ciglioni
- d’Aïn-Zara che videro i fuggenti.
- Gli altri sei diamo agli altri sei leoni
- Ché dove noi poniamo i fondamenti
- della potenza, là poniam de’ nostri
- morti l’ossa per consacrar gli eventi.
- Non nelle antiche ombre, ne’ lunghi chiostri
- dei cimiteri, tra gli usati avelli,
- dove profusa la pietà si prostri;
- ma novel tumulo ad eroi novelli
- diamo, oltremare, su la quarta sponda;
- e ciascun nome in pietra si scarpelli;
- e sien pietre angolari che profonda-
- mente radichi in terra ad opra forte
- il costruttore, il saldo eroe che fonda.
- O Tobrucca, alte mura e ferree porte
- avrai, cantieri, maestranze, scali,
- darsene, e i novi ingegni della morte.
- E strapperemo alla Vittoria l’ali
- perché mai dall’acropoli munita
- si fugga. Avrem col Mare altri sponsali.
- Una maschia bellezza redimita
- di sogni avremo, senza il sacerdote,
- in mezzo a noi, nel mezzo della vita.
- Ché l’Africa non è se non la cote
- ove affilammo il ferro, per l’acquisto
- supremo, contra le fortune ignote;
- e riluce per noi nell’intravisto
- futuro un bene che per rivelarsi
- vale il martirio d’un novello Cristo.
- O Giovine, se mai nel cor t’apparsi
- creato dalla pagina commossa
- e del gran fuoco mio l’anima t’arsi,
- odimi, qual ti vedo su la fossa
- della trincera mentre ancor spirante
- bevi l’odore della terra smossa,
- odimi. Non morrai. Sei nell’istante
- e nell’eternità. Colui che viene
- e non colui che parte sei, distante
- e prossimo. Tu grondi, e le tue vene
- sono inesauste. Impallidisci, e il viso
- tuo raggia e le tue mani sono piene
- di chiusi doni. Cadi, e il tuo sorriso
- è inestinguibile. In grande ombra veli
- la tua certezza, e pure io ti ravviso.
- Io fui qual sei, nel mondo. Quel che aneli
- anelai. Vissi come tu combatti.
- Nutrii di sangue i sogni miei fedeli,
- d’aspro sangue, per trasmutarli in atti.
- Solo, per simulacro della guerra
- posi a me, tenni a me tremendi patti.
- Tutto che in sé l’insonne anima serra
- perverte esalta io lo conobbi. E pure
- talor fui pari a un fiume della terra!
- Ma gli anni d’onta, ma le cose impure
- pesavano su me. La mandra abietta
- si voltolava nelle sue lordure.
- A me dissi: «Ricòrdati ed aspetta.
- Dal silenzio Ei verrà. Veglia alle porte.
- La gloria fu. Ricòrdati ed aspetta».
- Ed è venuto, il Grande, il Puro, il Forte,
- il Signore aspettato, alto volando,
- come la verità, sopra la morte.
- Ecco, vedi, obbedisco al suo comando
- e tremo. Vedi, sono ebro d’amore
- e di spavento. Or ei dice: «Chi mando,
- o gridatore ed indovinatore
- di cose sante? Chi andrà per noi?».
- «Eccomi» dico «manda me, Signore.
- Con qual segno?» Col segno degli eroi
- Egli ha moltiplicata la mia gente,
- accesa la virtù degli occhi tuoi.
- Ah perché, mentre tutto è rinascente
- in una primavera più gioiosa
- che quella delle Esperidi, e il presente
- è tessuto di porpora famosa
- e di stami indicibili, e la vita
- nella pietra di Pallade corrosa
- riscolpisce l’imagine compita
- della divinità novella, e ignoto
- nume è il soffio che t’agita e t’incìta,
- ah perché non rinasco dal mio loto
- Principe della Gioventù traendo
- i miei compagni a me duce e piloto,
- meco giurati a un patto più tremendo,
- e, per guidarli, d’un più alto e puro
- fuoco in me stesso non mi riaccendo?
- O Giovine d’Italia, il morituro
- ti saluta. Il mio sogno, astro vegliante,
- declina sopra i mari del Futuro.
- Tu sorgi. Non morrai. Sei nell’istante
- e nell’eternità. Colui che viene
- e non colui che parte sei, distante
- e prossimo. Tu grondi, e le tue vene
- sono inesauste. Impallidisci, e il viso
- tuo raggia e le tue mani sono piene
- di chiusi doni. Cadi, e il tuo sorriso
- è inestinguibile. In grande ombra veli
- la tua certezza, e pure io ti ravviso.
- Ave, Giovine. Gloria a te nei cieli,
- gloria nei mari, gloria su la terra!
- Combatti e canta come il pio Mameli;
- semina e mieti; i varchi tuoi disserra;
- assoda e guarda le tue vie; con pugno
- intrepido le tue fortune afferra;
- e sappi come traggo il miel del bugno,
- l’acqua del fonte, della piaga il dardo;
- e vedi come il mio dolore espugno.
- Quando tu abbia col tuo chiaro sguardo
- abbracciato il dominio, su la vetta
- vertiginosa infisso il tuo stendardo,
- offerto al Sole l’ultima saetta,
- alfine avrò da te forse il selvaggio
- inno che il paziente orgoglio aspetta,
- l’inno alla mia vigilia e al mio coraggio.