Dio c’è, anche se non esiste.
27 Gennaio 2019Anna di Niccolò Ammaniti
27 Gennaio 2019di Francesco Petrarca
Rime in vita di Laura (54-107)
54
Perch’al viso d’Amor portava insegna,
mosse una pellegrina il mio cor vano,
ch’ogni altra mi parea d’onor men degna.
Et lei seguendo su per l’erbe verdi,
udí’ dir alta voce di lontano:
Ahi, quanti passi per la selva perdi!
Allor mi strinsi a l’ombra d’un bel faggio,
tutto pensoso; et rimirando intorno,
vidi assai periglioso il mio vïaggio;
et tornai indietro quasi a mezzo ‘l giorno.
55
Quel foco ch’i’ pensai che fosse spento
dal freddo tempo et da l’età men fresca,
fiamma et martir ne l’anima rinfresca.
Non fur mai tutte spente, a quel ch’i’ veggio,
ma ricoperte alquanto le faville,
et temo no ‘l secondo error sia peggio.
Per lagrime ch’i’ spargo a mille a mille
conven che ‘l duol per gli occhi si distille
dal cor, ch’à seco le faville et l’ésca:
non pur qual fu, ma pare a me che cresca.
Qual foco non avrian già spento et morto
l’onde che gli occhi tristi versan sempre?
Amor, avegna mi sia tardi accorto,
vòl che tra duo contrari mi distempre;
et tende lacci in sí diverse tempre,
che quand’ò più speranza che ‘l cor n’esca,
allor più nel bel viso mi rinvesca.
56
Se col cieco desir che ‘l cor distrugge
contando l’ore no m’inganno io stesso,
ora mentre ch’io parlo il tempo fugge
ch’a me fu inseme et a mercé promesso.
Qual ombra è sí crudel che ‘l seme adugge,
ch’al disïato frutto era sí presso?
et dentro dal mio ovil qual fera rugge?
tra la spiga et la man qual muro è messo?
Lasso, nol so; ma sí conosco io bene
che per far più dogliosa la mia vita
amor m’addusse in sí gioiosa spene.
Et or di quel ch’i’ ò lecto mi sovene,
che ‘nanzi al dí de l’ultima partita
huom beato chiamar non si convene.
57
Mie venture al venir son tarde et pigre,
la speme incerta, e ‘l desir monta et cresce,
onde e ‘l lassare et l’aspectar m’incresce;
et poi al partir son più levi che tigre.
Lasso, le nevi fien tepide et nigre,
e ‘l mar senz’onda, et per l’alpe ogni pesce,
et corcherassi il sol là oltre ond’esce
d’un medesimo fonte Eufrate et Tigre,
prima ch’i’ trovi in ciò pace né triegua,
o Amore o madonna altr’uso impari,
che m’ànno congiurato a torto incontra.
Et s’i’ ò alcun dolce, è dopo tanti amari,
che per disdegno il gusto si dilegua:
altro mai di lor gratie non m’incontra.
58
La guancia che fu già piangendo stancha
riposate su l’un, signor mio caro,
et siate ormai di voi stesso più avaro
a quel crudel che ‘ suoi seguaci imbiancha.
Coll’altro richiudete da man mancha
la strada a’ messi suoi ch’indi passaro,
mostrandovi un d’agosto et di genaro,
perch’a la lunga via tempo ne mancha.
E col terzo bevete un suco d’erba
che purghe ogni pensier che ‘l cor afflige,
dolce a la fine, et nel principio acerba.
Me riponete ove ‘l piacer si serba,
tal ch’i’ non tema del nocchier di Stige,
se la preghiera mia non è superba.
59
Perché quel che mi trasse ad amar prima,
altrui colpa mi toglia,
del mio fermo voler già non mi svoglia.
Tra le chiome de l’òr nascose il laccio,
al qual mi strinse, Amore;
et da’ begli occhi mosse il freddo ghiaccio,
che mi passò nel core,
con la vertú d’un súbito splendore,
che d’ogni altra sua voglia
sol rimembrando anchor l’anima spoglia.
Tolta m’è poi di que’ biondi capelli,
lasso, la dolce vista;
e ‘l volger de’ duo lumi honesti et belli
col suo fuggir m’atrista;
ma perché ben morendo honor s’acquista,
per morte né per doglia
non vo’ che da tal nodo Amor mi scioglia.
60
L’arbor gentil che forte amai molt’anni,
mentre i bei rami non m’ebber a sdegno
fiorir faceva il mio debile ingegno
e la sua ombra, et crescer negli affanni.
Poi che, securo me di tali inganni,
fece di dolce sé spietato legno,
i’ rivolsi i pensier’ tutti ad un segno,
che parlan sempre de’ lor tristi danni.
Che porà dir chi per amor sospira,
s’altra speranza le mie rime nove
gli avessir data, et per costei la perde?
Né poeta ne colga mai, né Giove
la privilegi, et al Sol venga in ira,
tal che si secchi ogni sua foglia verde.
61
Benedetto sia ‘l giorno, et ‘l mese, et l’anno,
et la stagione, e ‘l tempo, et l’ora, e ‘l punto,
e ‘l bel paese, e ‘l loco ov’io fui giunto
da’duo begli occhi che legato m’ànno;
et benedetto il primo dolce affanno
ch’i’ ebbi ad esser con Amor congiunto,
et l’arco, et le saette ond’i’ fui punto,
et le piaghe che ‘nfin al cor mi vanno.
Benedette le voci tante ch’io
chiamando il nome de mia donna ò sparte,
e i sospiri, et le lagrime, e ‘l desio;
et benedette sian tutte le carte
ov’io fama l’acquisto, e ‘l pensier mio,
ch’è sol di lei, sí ch’altra non v’à parte.
62
Padre del ciel, dopo i perduti giorni,
dopo le notti vaneggiando spese,
con quel fero desio ch’al cor s’accese,
mirando gli atti per mio mal sí adorni,
piacciati omai col Tuo lume ch’io torni
ad altra vita et a più belle imprese,
sí ch’avendo le reti indarno tese,
il mio duro adversario se ne scorni.
Or volge, Signor mio, l’undecimo anno
ch’i’ fui sommesso al dispietato giogo
che sopra i più soggetti è più feroce.
Miserere del mio non degno affanno;
reduci i pensier’ vaghi a miglior luogo;
ramenta lor come oggi fusti in croce.
63
Volgendo gli occhi al mio novo colore
che fa di morte rimembrar la gente,
pietà vi mosse; onde, benignamente
salutando, teneste in vita il core.
La fraile vita, ch’ancor meco alberga,
fu de’ begli occhi vostri aperto dono,
et de la voce angelica soave.
Da lor conosco l’esser ov’io sono:
ché, come suol pigro animal per verga,
cosí destaro in me l’anima grave.
Del mio cor, donna, l’una et l’altra chiave
avete in mano; et di ciò son contento,
presto di navigare a ciascun vento,
ch’ogni cosa da voi m’è dolce honore.
64
Se voi poteste per turbati segni,
per chinar gli occhi, o per piegar la testa,
o per esser più d’altra al fuggir presta,
torcendo ‘l viso a’ preghi honesti et degni,
uscir già mai, over per altri ingegni,
del petto ove dal primo lauro innesta
Amor più rami, i’ direi ben che questa
fosse giusta cagione a’ vostri sdegni:
ché gentil pianta in arido terreno
par che si disconvenga, et però lieta
naturalmente quindi si diparte;
ma poi vostro destino a voi pur vieta
l’esser altrove, provedete almeno
di non star sempre in odïosa parte.
65
Lasso, che mal accorto fui da prima
nel giorno ch’a ferir mi venne Amore,
ch’a passo a passo è poi fatto signore
de la mia vita, et posto in su la cima.
Io non credea per forza di sua lima
che punto di fermezza o di valore
mancasse mai ne l’indurato core;
ma cosí va, chi sopra ‘l ver s’estima.
Da ora inanzi ogni difesa è tarda,
altra che di provar s’assai o poco
questi preghi mortali Amore sguarda.
Non prego già, né puote aver più loco,
che mesuratamente il mio cor arda,
ma che sua parte abbia costei del foco.
66
L’aere gravato, et l’importuna nebbia
compressa intorno da rabbiosi v’ènti
tosto conven che si converta in pioggia;
et già son quasi di cristallo i fiumi,
e ‘n vece de l’erbetta per le valli
non se ved’altro che pruine et ghiaccio.
Et io nel cor via più freddo che ghiaccio
ò di gravi pensier’ tal una nebbia,
qual si leva talor di queste valli,
serrate incontra agli amorosi v’ènti,
et circundate di stagnanti fiumi,
quando cade dal ciel più lenta pioggia.
In picciol tempo passa ogni gran pioggia,
e ‘l caldo fa sparir le nevi e ‘l ghiaccio,
di che vanno superbi in vista i fiumi;
né mai nascose il ciel sí folta nebbia
che sopragiunta dal furor d’i v’ènti
non fugisse dai poggi et da le valli.
Ma, lasso, a me non val fiorir de valli,
anzi piango al sereno et a la pioggia
et a’ gelati et a’ soavi v’ènti:
ch’allor fia un dí madonna senza ‘l ghiaccio
dentro, et di for senza l’usata nebbia,
ch’i’ vedrò secco il mare, e’ laghi, e i fiumi.
Mentre ch’al mar descenderanno i fiumi
et le fiere ameranno ombrose valli,
fia dinanzi a’ begli occhi quella nebbia
che fa nascer d’i miei continua pioggia,
et nel bel petto l’indurato ghiaccio
che trâ del mio sí dolorosi v’ènti.
Ben debbo io perdonare a tutti v’ènti,
per amor d’un che ‘n mezzo di duo fiumi
mi chiuse tra ‘l bel verde e ‘l dolce ghiaccio,
tal ch’i’ depinsi poi per mille valli
l’ombra ov’io fui, ché né calor né pioggia
né suon curava di spezzata nebbia.
Ma non fuggío già mai nebbia per v’ènti,
come quel dí, né mai fiumi per pioggia,
né ghiaccio quando ‘l sole apre le valli.
67
Del mar Tirreno a la sinistra riva,
dove rotte dal vento piangon l’onde,
súbito vidi quella altera fronde
di cui conven che ‘n tante carte scriva.
Amor, che dentro a l’anima bolliva,
per rimembranza de le treccie bionde
mi spinse, onde in un rio che l’erba asconde
caddi, non già come persona viva.
Solo ov’io era tra boschetti et colli
vergogna ebbi di me, ch’al cor gentile
basta ben tanto, et altro spron non volli.
Piacemi almen d’aver cangiato stile
da gli occhi a’ pie’, se del lor esser molli
gli altri asciugasse un più cortese aprile.
68
L’aspetto sacro de la terra vostra
mi fa del mal passato tragger guai,
gridando: Sta’ su, misero, che fai?;
et la via de salir al ciel mi mostra.
Ma con questo pensier un altro giostra,
et dice a me: Perché fuggendo vai?
se ti rimembra, il tempo passa omai
di tornar a veder la donna nostra.
I’ che ‘l suo ragionar intendo, allora
m’agghiaccio dentro, in guisa d’uom ch’ascolta
novella che di súbito l’accora.
Poi torna il primo, et questo dà la volta:
qual vincerà, non so; ma ‘nfino ad ora
combattuto ànno, et non pur una volta.
69
Ben sapeva io che natural consiglio,
Amor, contra di te già mai non valse,
tanti lacciuol’, tante impromesse false,
tanto provato avea ‘l tuo fiero artiglio.
Ma novamente, ond’io mi meraviglio
(diròl, come persona a cui ne calse,
e che ‘l notai là sopra l’acque salse,
tra la riva toscana et l’Elba et Giglio),
i’ fuggia le tue mani, et per camino,
agitandom’i v’ènti e ‘l ciel et l’onde,
m’andava sconosciuto et pellegrino:
quando ecco i tuoi ministri, i’ non so donde,
per darmi a diveder ch’al suo destino
mal chi contrasta, et mal chi si nasconde.
70
Lasso me, ch’i’ non so in qual parte pieghi
la speme, ch’è tradita omai più volte:
che se non è chi con pietà m’ascolte,
perché sparger al ciel sí spessi preghi?
Ma s’egli aven ch’anchor non mi si nieghi
finir anzi ‘l mio fine
queste voci meschine,
non gravi al mio signor perch’io il ripreghi
di dir libero un dí tra l’erba e i fiori:
Drez et rayson es qu’ieu ciant e ‘m demori.
Ragione è ben ch’alcuna volta io canti,
però ch’ò sospirato sí gran tempo
che mai non incomincio assai per tempo
per adequar col riso i dolor’ tanti.
Et s’io potesse far ch’agli occhi santi
porgesse alcun dilecto
qualche dolce mio detto,
o me beato sopra gli altri amanti!
Ma più quand’io dirò senza mentire:
Donna mi priegha, per ch’io voglio dire.
Vaghi pensier’ che cosí passo passo
scorto m’avete a ragionar tant’alto,
vedete che madonna à ‘l cor di smalto,
sí forte ch’io per me dentro nol passo.
Ella non degna di mirar sí basso
che di nostre parole
curi, ché ‘l ciel non vòle,
al qual pur contrastando i’ son già lasso:
onde, come nel cor m’induro e n’aspro,
così nel mio parlar voglio esser aspro.
Che parlo? o dove sono? e chi m’inganna,
altri ch’io stesso e ‘l desïar soverchio?
Già s’i’trascorro il ciel di cerchio in cerchio,
nessun pianeta a pianger mi condanna.
Se mortal velo il mio veder appanna,
che colpa è de le stelle,
o de le cose belle?
Meco si sta chi dí et notte m’affanna,
poi che del suo piacer mi fe’ gir grave
la dolce vista e ‘l bel guardo soave.
Tutte le cose, di che ‘l mondo è adorno
uscïr buone de man del mastro eterno;
ma me, che cosí adentro non discerno,
abbaglia il bel che mi si mostra intorno;
et s’al vero splendor già mai ritorno,
l’occhio non po’ star fermo,
cosí l’à fatto infermo
pur la sua propria colpa, et non quel giorno
ch’i’ volsi inver’ l’angelica beltade
nel dolce tempo de la prima etade.
71
Perché la vita è breve,
et l’ingegno paventa a l’alta impresa,
né di lui né di lei molto mi fido;
ma spero che sia intesa
là dov’io bramo, et là dove esser deve,
la doglia mia la qual tacendo i’ grido.
Occhi leggiadri dove Amor fa nido,
a voi rivolgo il mio debile stile,
pigro da sé, ma ‘l gran piacer lo sprona;
et chi di voi ragiona
tien dal soggetto un habito gentile,
che con l’ale amorose
levando il parte d’ogni pensier vile.
Con queste alzato vengo a dir or cose
ch’ò portate nel cor gran tempo ascose.
Non perch’io non m’aveggia
quanto mia laude è ‘ngiurïosa a voi:
ma contrastar non posso al gran desio,
lo quale è ‘n me da poi
ch’i’ vidi quel che pensier non pareggia,
non che l’avagli altrui parlar o mio.
Principio del mio dolce stato rio,
altri che voi so ben che non m’intende.
Quando agli ardenti rai neve divegno,
vostro gentile sdegno
forse ch’allor mia indignitate offende.
Oh, se questa temenza
non temprasse l’arsura che m’incende,
beato venir men! ché ‘n lor presenza
m’è più caro il morir che ‘l viver senza.
Dunque ch’i’ non mi sfaccia,
sí frale obgetto a sí possente foco,
non è proprio valor che me ne scampi;
ma la paura un poco,
che ‘l sangue vago per le vene agghiaccia,
risalda ‘l cor, perché più tempo avampi.
O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi,
o testimon’ de la mia grave vita,
quante volte m’udiste chiamar morte!
Ahi dolorosa sorte
lo star mi strugge, e ‘l fuggir non m’aita.
Ma se maggior paura
non m’affrenasse, via corta et spedita
trarrebbe a fin questa apra pena et dura;
et la colpa è di tal che non à cura.
Dolor perché mi meni
fuor di camin a dir quel ch’i’ non voglio?
Sostien ch’io vada ove ‘l piacer mi spigne.
Già di voi non mi doglio,
occhi sopra ‘l mortal corso sereni,
né di lui ch’a tal nodo mi distrigne.
Vedete ben quanti color’ depigne
Amor sovente in mezzo del mio volto,
et potrete pensar qual dentro fammi,
là ‘ve dí et notte stammi
adosso, col poder ch’a in voi raccolto,
luci beate et liete
se non che ‘l veder voi stesse v’è tolto;
ma quante volte a me vi rivolgete,
conoscete in altrui quel che voi siete.
S’a voi fosse sí nota
la divina incredibile bellezza
di ch’io ragiono, come a chi la mira,
misurata allegrezza
non avria ‘l cor: però forse è remota
dal vigor natural che v’apre et gira.
Felice l’alma che per voi sospira,
lumi del ciel, per li quali io ringratio
la vita che per altro non m’è a grado!
Oimè, perché sí rado
mi date quel dond’io mai non son satio?
Perché non più sovente
mirate qual Amor di me fa stracio?
E perché mi spogliate immantanente
del ben ch’ad ora ad or l’anima sente?
Dico ch’ad ora ad ora,
vostra mercede, i’ sento in mezzo l’alma
una dolcezza inusitata et nova,
la qual ogni altra salma
di noiosi pensier’ disgombra allora,
sí che di mille un sol vi si ritrova:
quel tanto a me, non più, del viver giova.
Et se questo mio ben durasse alquanto,
nullo stato aguagliarse al mio porrebbe;
ma forse altrui farrebbe
invido, et me superbo l’onor tanto:
però, lasso, convensi
che l’extremo del riso assaglia il pianto,
e ‘nterrompendo quelli spirti accensi
a me ritorni, et di me stesso pensi.
L’amoroso pensero
ch’alberga dentro, in voi mi si discopre
tal che mi trâ del cor ogni altra gioia;
onde parole et opre
escon di me sí fatte allor ch’i’ spero
farmi immortal, perché la carne moia.
Fugge al vostro apparire angoscia et noia,
et nel vostro partir tornano insieme.
Ma perché la memoria innamorata
chiude lor poi l’entrata,
di là non vanno da le parti extreme;
onde s’alcun bel frutto
nasce di me, da voi vien prima il seme:
io per me son quasi un terreno asciutto,
cólto da voi, e ‘l pregio è vostro in tutto.
Canzon, tu non m’acqueti, anzi m’infiammi
a dir di quel ch’a me stesso m’invola:
però sia certa de non esser sola.
72
Gentil mia donna, i’ veggio
nel mover de’ vostr’occhi un dolce lume
che mi mostra la via ch’al ciel conduce;
et per lungo costume,
dentro là dove sol con Amor seggio,
quasi visibilmente il cor traluce.
Questa è la vista ch’a ben far m’induce,
et che mi scorge al glorïoso fine;
questa sola dal vulgo m’allontana:
né già mai lingua humana
contar poria quel che le due divine
luci sentir mi fanno,
e quando ‘l verno sparge le pruine,
et quando poi ringiovenisce l’anno
qual era al tempo del mio primo affanno.
Io penso: se là suso,
onde ‘l motor eterno de le stelle
degnò mostrar del suo lavoro in terra,
son l’altr’opre sí belle,
aprasi la pregione, ov’io son chiuso,
et che ‘l camino a tal vita mi serra.
Poi mi rivolgo a la mia usata guerra,
ringratiando Natura e ‘l dí ch’io nacqui
che reservato m’ànno a tanto bene,
et lei ch’a tanta spene
alzò il mio cor: ché ‘nsin allor io giacqui
a me noioso et grave,
da quel dí inanzi a me medesmo piacqui,
empiendo d’un pensier alto et soave
quel core ond’ànno i begli occhi la chiave.
Né mai stato gioioso
Amor o la volubile Fortuna
dieder a chi più fur nel mondo amici,
ch’i’ nol cangiassi ad una
rivolta d’occhi, ond’ogni mio riposo
vien come ogni arbor vien da sue radici.
Vaghe faville, angeliche, beatrici
de la mia vita, ove ‘l piacer s’accende
che dolcemente mi consuma et strugge:
come sparisce et fugge
ogni altro lume dove’l vostro splende,
cosí de lo mio core,
quando tanta dolcezza in lui discende,
ogni altra cosa, ogni penser va fore,
et solo ivi con voi rimanse Amore.
Quanta dolcezza unquancho
fu in cor d’aventurosi amanti, accolta
tutta in un loco, a quel ch’i’ sento è nulla,
quando voi alcuna volta
soavemente tra ‘l bel nero e ‘l biancho
volgete il lume in cui Amor si trastulla;
et credo da le fasce et da la culla
al mio imperfecto, a la Fortuna adversa
questo rimedio provedesse il cielo.
Torto mi face il velo
et la man che sí spesso s’atraversa
fra ‘l mio sommo dilecto
et gli occhi, onde dí et notte si rinversa
il gran desio per isfogare il petto,
che forma tien dal varïato aspetto.
Perch’io veggio, et mi spiace,
che natural mia dote a me non vale
né mi fa degno d’un sí caro sguardo,
sforzomi d’esser tale
qual a l’alta speranza si conface,
et al foco gentil ond’io tutt’ardo.
S’al ben veloce, et al contrario tardo,
dispregiator di quanto ‘l mondo brama
per solicito studio posso farme,
porrebbe forse aitarme
nel benigno iudicio una tal fama:
Certo il fin de’ miei pianti,
che non altronde il cor doglioso chiama,
v’èn da’ begli occhi alfin dolce tremanti,
ultima speme de’ cortesi amanti.
Canzon, l’una sorella è poco inanzi,
et l’altra sento in quel medesmo albergo
apparechiarsi; ond’io più carta vergo.
73
Poi che per mio destino
a dir mi sforza quell’accesa voglia
che m’à sforzato a sospirar mai sempre,
Amor, ch’a ciò m’invoglia,
sia la mia scorta, e ‘nsignimi ‘l camino,
et col desio le mie rime contempre:
ma non in guisa che lo cor si stempre
di soverchia dolcezza, com’io temo,
per quel ch’i’ sento ov’occhio altrui non giugne;
ché ‘l dir m’infiamma et pugne,
né per mi’ ‘ngegno, ond’io pavento et tremo,
sí come talor sòle,
trovo ‘l gran foco de la mente scemo,
anzi mi struggo al suon de le parole,
pur com’io fusse un huom di ghiaccio al sole.
Nel cominciar credia
trovar parlando al mio ardente desire
qualche breve riposo et qualche triegua.
Questa speranza ardire
mi porse a ragionar quel ch’i’sentia:
or m’abbandona al tempo, et si dilegua.
Ma pur conven che l’alta impresa segua
continüando l’amorose note,
sí possente è ‘l voler che mi trasporta;
et la ragione è morta,
che tenea ‘l freno, et contrastar nol pote.
Mostrimi almen ch’io dica
Amor in guisa che, se mai percote
gli orecchi de la dolce mia nemica,
non mia, ma di pietà la faccia amica.
Dico: se ‘n quella etate
ch’al vero honor fur gli animi sí accesi,
l’industria d’alquanti huomini s’avolse
per diversi paesi,
poggi et onde passando, et l’onorate
cose cercando, e ‘l più bel fior ne colse,
poi che Dio et Natura et Amor volse
locar compitamente ogni virtute
in quei be’ lumi, ond’io gioioso vivo,
questo et quell’altro rivo
non conven ch’i’ trapasse, et terra mute.
A llor sempre ricorro
come a fontana d’ogni mia salute,
et quando a morte disïando corro,
sol di lor vista al mio stato soccorro.
Come a forza di v’ènti
stanco nocchier di notte alza la testa
a’ duo lumi ch’a sempre il nostro polo,
cosí ne la tempesta
ch’i’ sostengo d’Amor, gli occhi lucenti
sono il mio segno e ‘l mio conforto solo.
Lasso, ma troppo è più quel ch’io ne ‘nvolo
or quinci or quindi, come Amor m’informa,
che quel che v’èn da gratïoso dono;
et quel poco ch’i’ sono
mi fa di lor una perpetua norma.
Poi ch’io li vidi in prima,
senza lor a ben far non mossi un’orma:
cosí gli ò di me posti in su la cima,
che ‘l mio valor per sé falso s’estima.
I’ non poria già mai
imaginar, nonché narrar gli effecti,
che nel mio cor gli occhi soavi fanno:
tutti gli altri diletti
di questa vita ò per minori assai,
et tutte altre bellezze indietro vanno.
Pace tranquilla senza alcuno affanno:
simile a quella ch’è nel ciel eterna,
move da lor inamorato riso.
Cosí vedess’io fiso
come Amor dolcemente gli governa,
sol un giorno da presso
senza volger già mai rota superna,
né pensasse d’altrui né di me stesso,
e ‘l batter gli occhi miei non fosse spesso.
Lasso, che disïando
vo quel ch’esser non puote in alcun modo,
et vivo del desir fuor di speranza:
solamente quel nodo
ch’Amor cerconda a la mia lingua quando
l’umana vista il troppo lume avanza,
fosse disciolto, i’ prenderei baldanza
di dir parole in quel punto sí nove
che farian lagrimar chi le ‘ntendesse;
ma le ferite impresse
volgon per forza il cor piagato altrove,
ond’io divento smorto,
e ‘l sangue si nasconde, i’ non so dove,
né rimango qual era; et sonmi accorto
che questo è ‘l colpo di che Amor m’à morto.
Canzone, i’ sento già stancar la penna
del lungo et del dolce ragionar co llei,
ma non di parlar meco i pensier’ mei.
74
Io son già stanco di pensar sí come
i miei pensier’ in voi stanchi non sono,
et come vita anchor non abbandono
per fuggir de’ sospir’ sí gravi some;
et come a dir del viso et de le chiome
et de’ begli occhi, ond’io sempre ragiono,
non è mancata omai la lingua e ‘l suono
dí et notte chiamando il vostro nome;
et che’ pie’ non son fiaccati et lassi
a seguir l’orme vostre in ogni parte
perdendo inutilmente tanti passi;
et onde vien l’enchiostro, onde le carte
ch’i’ vo empiendo di voi: se ‘n ciò fallassi,
colpa d’Amor, non già defecto d’arte.
75
I begli occhi ond’i’ fui percosso in guisa
ch’e’ medesmi porian saldar la piaga,
et non già vertú d’erbe, o d’arte maga,
o di pietra dal mar nostro divisa,
m’ànno la via sí d’altro amor precisa,
ch’un sol dolce penser l’anima appaga;
et se la lingua di seguirlo è vaga,
la scorta pò, non ella, esser derisa.
Questi son que’ begli occhi che l’imprese
del mio signor victorïose fanno
in ogni parte, et più sovra ‘l mio fianco;
questi son que’ begli occhi che mi stanno
sempre nel cor colle faville accese,
per ch’io di lor parlando non mi stanco.
76
Amor con sue promesse lusingando
mi ricondusse a la prigione antica,
et die’ le chiavi a quella mia nemica
ch’anchor me di me stesso tene in bando.
Non me n’avidi, lasso, se non quando
fui in lor forza; et or con gran fatica
(chi ‘l crederà perché giurando i’ ‘l dica?)
in libertà ritorno sospirando.
Et come vero pregioniero afflicto
de le catene mie gran parte porto,
e ‘l cor ne gli occhi et ne la fronte ò scritto.
Quando sarai del mio colore accorto,
dirai: S’i’ guardo et giudico ben dritto,
questi avea poco andare ad esser morto.
77
Per mirar Policleto a prova fiso
con gli altri ch’ebber fama di quell’arte
mill’anni, non vedrian la minor parte
de la beltà che m’ave il cor conquiso.
Ma certo il mio Simon fu in paradiso
(onde questa gentil donna si parte),
ivi la vide, et la ritrasse in carte
per far fede qua giú del suo bel viso.
L’opra fu ben di quelle che nel cielo
si ponno imaginar, non qui tra noi,
ove le membra fanno a l’alma velo.
Cortesia fe’; né la potea far poi
che fu disceso a provar caldo et gielo,
et del mortal sentiron gli occchi suoi.
78
Quando giunse a Simon l’alto concetto
ch’a mio nome gli pose in man lo stile,
s’avesse dato a l’opera gentile
colla figura voce ed intellecto,
di sospir’ molti mi sgombrava il petto,
che ciò ch’altri à più caro, a me fan vile:
però che ‘n vista ella si mostra humile
promettendomi pace ne l’aspetto.
Ma poi ch’i’ vengo a ragionar co llei,
benignamente assai par che m’ascolte,
se risponder savesse a’ detti miei.
Pigmalïon, quanto lodar ti dêi
de l’imagine tua, se mille volte
n’avesti quel ch’i’ sol una vorrei.
79
S’al principio risponde il fine e ‘l mezzo
del quartodecimo anno ch’io sospiro,
più non mi pò scampar l’aura né ‘l rezzo,
sí crescer sento ‘l mio ardente desiro.
Amor, con cui pensier mai non amezzo,
sotto ‘l cui giogo già mai non respiro,
tal mi governa, ch’i’ non son già mezzo,
per gli occhi ch’al mio mal sí spesso giro.
Cosí mancando vo di giorno in giorno,
sí chiusamente, ch’i’ sol me n’accorgo
et quella che guardando il cor mi strugge.
A pena infin a qui l’anima scorgo,
né so quanto fia meco il mio soggiorno,
ché la morte s’appressa, e ‘l viver fugge.
80
Chi è fermato di menar sua vita
su per l’onde fallaci et per gli scogli
scevro da morte con un picciol legno,
non pò molto lontan esser dal fine:
però sarrebbe da ritrarsi in porto
mentre al governo anchor crede la vela.
L’aura soave a cui governo et vela
commisi entrando a l’amorosa vita
et sperando venire a miglior porto,
poi mi condusse in più di mille scogli;
et le cagion’ del mio doglioso fine
non pur d’intorno avea, ma dentro al legno.
Chiuso gran tempo in questo cieco legno
errai, senza levar occhio a la vela
ch’anzi al mio dí mi trasportava al fine;
poi piacque a lui che mi produsse in vita
chiamarme tanto indietro da li scogli
ch’almen da l’unge m’apparisse il porto.
Come lume di notte in alcun porto
vide mai d’alto mar nave né legno
se non gliel tolse o tempestate o scogli,
cosí di su da la gomfiata vela
vid’io le ‘nsegne di quell’altra vita,
et allor sospirai verso ‘l mio fine.
Non perch’io sia securo anchor del fine:
ché volendo col giorno esser a porto
è gran vïaggio in cosí poca vita;
poi temo, ché mi veggio in fraile legno,
et più che non vorrei piena la vela
del vento che mi pinse in questi scogli.
S’io esca vivo de’ dubbiosi scogli,
et arrive il mio exil’io ad un bel fine,
ch’i’ sarei vago di voltar la vela,
et l’anchore gittar in qualche porto!
Se non ch’i’ ardo come acceso legno,
sí m’è duro a lassar l’usata vita.
Signor de la mia fine et de la vita,
prima ch’i’ fiacchi il legno tra gli scogli
drizza a buon porto l’affannata vela.
81
Io son sí stanco sotto ‘l fascio antico
de le mie colpe et de l’usanza ria
ch’i’ temo forte di mancar tra via,
et di cader in man del mio nemico.
Ben venne a dilivrarmi un grande amico
per somma et ineffabil cortesia;
poi volò fuor de la veduta mia,
sí ch’a mirarlo indarno m’affatico.
Ma la sua voce anchor qua giú rimbomba:
O voi che travagliate, ecco ‘l camino;
venite a me, se ‘l passo altri non serra.
Qual gratia, qual amore, o qual destino
mi darà penne in guisa di colomba,
ch’i’ mi riposi, et levimi da terra?
82
Io non fu’ d’amar voi lassato unquancho,
madonna, né sarò mentre ch’io viva;
ma d’odiar me medesmo giunto a riva,
et del continuo lagrimar so’ stancho;
et voglio anzi un sepolcro bello et biancho,
che ‘l vostro nome a mio danno si scriva
in alcun marmo, ove di spirto priva
sia la mia carne, che pò star seco ancho.
Però, s’un cor pien d’amorosa fede
può contentarve senza farne stracio,
piacciavi omai di questo aver mercede.
Se ‘n altro modo cerca d’esser sacio,
vostro sdegno erra, et non fia quel che crede:
di che Amor et me stesso assai ringracio.
83
Se bianche non son prima ambe le tempie
ch’a poco a poco par che ‘l tempo mischi,
securo non sarò, bench’io m’arrischi
talor ov’Amor l’arco tira et empie.
Non temo già che più mi strazi o scempie,
né mi ritenga perch’anchor m’invischi,
né m’apra il cor perché di fuor l’incischi
con sue saette velenose et empie.
Lagrime omai da gli occhi uscir non ponno,
ma di gire infin là sanno il vïaggio,
sí ch’a pena fia mai ch’i’ ‘l passo chiuda.
Ben mi pò riscaldare il fiero raggio,
non sí ch’i’ arda; et può turbarmi il sonno,
ma romper no, l’imagine aspra et cruda.
84
– Occhi piangete: accompagnate il core
che di vostro fallir morte sostene.
– Cosí sempre facciamo; et ne convene
lamentar più l’altrui, che ‘l nostro errore.
– Già prima ebbe per voi l’entrata Amore,
là onde anchor come in suo albergo v’ène.
– Noi gli aprimmo la via per quella spene
che mosse d ‘entro da colui che more.
– Non son, come a voi par, le ragion’ pari:
ché pur voi foste ne la prima vista
del vostro et del suo mal cotanto avari.
– Or questo è quel che più ch’altro n’atrista,
che’ perfetti giudicii son sí rari,
et d’altrui colpa altrui biasmo s’acquista.
85
Io amai sempre, et amo forte anchora,
et son per amar più di giorno in giorno
quel dolce loco, ove piangendo torno
spesse fïate, quando Amor m’accora.
Et son fermo d’amare il tempo et l’ora
ch’ogni vil cura mi levâr d’intorno;
et più colei, lo cui bel viso adorno
di ben far co’ suoi exempli m’innamora.
Ma chi pensò veder mai tutti insieme
per assalirmi il core, or quindi or quinci,
questi dolci nemici, ch’i’ tant’amo?
Amor, con quanto sforzo oggi mi vinci!
Et se non ch’al desio cresce la speme,
i’ cadrei morto, ove più viver bramo.
86
Io avrò sempre in odio la fenestra
onde Amor m’aventò già mille strali,
perch’alquanti di lor non fur mortali:
ch’è bel morir, mentre la vita è dextra.
Ma ‘l sovrastar ne la pregion terrestra
cagion m’è, lasso, d’infiniti mali;
et più mi duol che fien meco immortali,
poi che l’alma dal cor non si scapestra.
Misera, che devrebbe esser accorta
per lunga experïentia omai che ‘l tempo
non è chi ‘ndietro volga, o chi l’affreni.
Più volte l’ò con ta’ parole scorta:
Vattene, trista, ché non va per tempo
chi dopo lassa i suoi dí più sereni.
87
Sí tosto come aven che l’arco scocchi,
buon sagittario di lontan discerne
qual colpo è da sprezzare, et qual d’averne
fede ch’al destinato segno tocchi:
similmente il colpo de’ vostr’occhi,
donna, sentiste a le mie parti interne
dritto passare, onde conven ch’eterne
lagrime per la piaga il cor trabocchi.
Et certo son che voi diceste allora:
Misero amante, a che vaghezza il mena?
Ecco lo strale onde Amor vòl che mora.
Ora veggendo come ‘l duol m’affrena,
quel che mi fanno i miei nemici anchora
non è per morte, ma per più mia pena.
88
Poi che mia speme è lunga a venir troppo,
et de la vita il trappassar sí corto,
vorreimi a miglior tempo esser accorto,
per fuggir dietro più che di galoppo;
et fuggo anchor cosí debile et zoppo
da l’un de’ lati, ove ‘l desio m’à storto:
securo omai, ma pur nel viso porto
segni ch’i’ò presi a l’amoroso intoppo.
Ond’io consiglio: Voi che siete in via,
volgete i passi; et voi ch’Amore avampa,
non v’indugiate su l’extremo ardore;
ché perch’io viva de mille un no scampa;
era ben forte la nemica mia,
et lei vid’io ferita in mezzo ‘l core.
89
Fuggendo la pregione ove Amor m’ebbe
molt’anni a far di me quel ch’a lui parve,
donne mie, lungo fôra a ricontarve
quanto la nova libertà m’increbbe.
Diceami il cor che per sé non s’aprebbe
viver un giorno; et poi tra via m’apparve
quel traditore in sí mentite larve
che più saggio di me inganato avrebbe.
Onde più volte sospirando indietro
dissi: Ohimè, il giogo et le catene e i ceppi
eran più dolci che l’andare sciolto.
Misero me, che tardo il mio mal seppi;
et con quanta faticha oggi mi spetro
de l’errore, ov’io stesso m’era involto!
90
Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
che ‘n mille dolci nodi gli avolgea,
e l’vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch’or ne son sí scarsi;
e ‘l viso di pietosi color’ farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i’ che l’ésca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di súbito arsi?
Non era l’andar suo cosa mortale,
ma d’angelica forma; et le parole
sonavan altro, che pur voce humana.
Uno spirito celeste, un vivo sole
fu quel ch’i’vidi: et se non fosse or tale,
piagha per allentar d’arco non sana.
91
La bella donna che cotanto amavi
subitamente s’è da noi partita,
et per quel ch’io ne speri al ciel salita,
sí furon gli atti suoi dolci soavi.
Tempo è da ricovrare ambo le chiavi
del tuo cor, ch’ella possedeva in vita,
et seguir lei per via dritta expedita:
peso terren non sia più che t’aggravi.
Poi che se’ sgombro de la maggior salma,
l’altre puoi giuso agevolmente porre,
sallendo quasi un pellegrino scarco.
Ben vedi omai sí come a morte corre
ogni cosa creata, et quanto all’alma
bisogna ir lieve al periglioso varco.
92
Piangete, donne, et con voi pianga Amore;
piangete, amanti, per ciascun paese,
poi ch’è morto collui che tutto intese
in farvi, mentre visse, al mondo honore.
Io per me prego il mio acerbo dolore,
non sian da lui le lagrime contese,
et mi sia di sospir’ tanto cortese,
quanto bisogna a disfogare il core.
Piangan le rime anchor, piangano i versi,
perché ‘l nostro amoroso messer Cino
novellamente s’è da noi partito.
Pianga Pistoia, e i citadin perversi
che perduto ànno sí dolce vicino;
et rallegresi il cielo, ov’ello è gito.
93
Più volte Amor m’avea già detto: Scrivi,
scrivi quel che vedesti in lettre d’oro,
sí come i miei seguaci discoloro,
e ‘n un momento gli fo morti et vivi.
Un tempo fu che ‘n te stesso ‘l sentivi,
volgare exemplo a l’amoroso choro;
poi di man mi ti tolse altro lavoro;
ma già ti raggiuns’io mentre fuggivi.
E se ‘begli occhi, ond’io me ti mostrai
et là dov’era il mio dolce ridutto
quando ti ruppi al cor tanta durezza,
mi rendon l’arco ch’ogni cosa spezza,
forse non avrai sempre il viso asciutto:
ch’i’ mi pasco di lagrime, et tu ‘l sai.
94
Quando giugne per gli occhi al cor profondo
l’imagin donna, ogni altra indi si parte,
et le vertú che l’anima comparte
lascian le menbra, quasi immobil pondo.
Et del primo miracolo il secondo
nasce talor, che la scacciata parte
da se stessa fuggendo arriva in parte
che fa vendetta e ‘l suo exil’io giocondo.
Quinci in duo volti un color morto appare,
perché ‘l vigor che vivi gli mostrava
da nessun lato è più là dove stava.
Et di questo in quel dí mi ricordava,
ch’i’ vidi duo amanti trasformare,
et far qual io mi soglio in vista fare.
95
Cosí potess’io ben chiuder in versi
i miei pensier’, come nel cor gli chiudo,
ch’animo al mondo non fu mai sí crudo
ch’i’ non facessi per pietà dolersi.
Ma voi, occhi beati, ond’io soffersi
quel colpo, ove non valse elmo né scudo,
di for et dentro mi vedete ignudo,
benché ‘n lamenti il duol non si riversi.
Poi che vostro vedere in me risplende,
come raggio di sol traluce in vetro,
basti dunque il desio senza ch’io dica.
Lasso, non a Maria, non nocque a Pietro
la fede, ch’a me sol tanto è nemica;
et so ch’altri che voi nessun m’intende.
96
Io son de l’aspectar omai sí vinto,
et de la lunga guerra de’ sospiri,
ch’i’ aggio in odio la speme e i desiri,
ed ogni laccio ond’è ‘l mio core avinto.
Ma ‘l bel viso leggiadro che depinto
porto nel petto, et veggio ove ch’io miri,
mi sforza; onde ne’ primi empii martiri
pur son contra mia voglia risospinto.
Allor errai quando l’antica strada
di libertà mi fu precisa et tolta,
ché mal si segue ciò ch’agli occhi agrada;
allor corse al suo mal libera et sciolta:
ora a posta d’altrui conven che vada
l’anima che peccò sol una volta.
97
Ahi bella libertà, come tu m’ài,
partendoti da me, mostrato quale
era ‘l mio stato, quando il primo strale
fece la piagha ond’io non guerrò mai!
Gli occhi invaghiro allor sí de’ lor guai,
che ‘l fren de la ragione ivi non vale,
perch’ànno a schifo ogni opera mortale:
lasso, cosí da prima gli avezzai!
Né mi lece ascoltar chi non ragiona
de la mia morte; et solo del suo nome
vo empiendo l’aere, che sí dolce sona.
Amor in altra parte non mi sprona,
né i pie’ sanno altra via, né le man’ come
lodar si possa in carte altra persona.
98
Orso, al vostro destrier si pò ben porre
un fren, che di suo corso indietro il volga;
ma ‘l cor chi legherà, che non si sciolga,
se brama honore, e ‘l suo contrario abhorre?
Non sospirate: a lui non si pò tôrre
suo pregio, perch’a voi l’andar si tolga;
ché, come fama publica divolga,
egli è già là, ché null’altro il precorre.
Basti che si ritrove in mezzo ‘l campo
al destinato dí, sotto quell’arme
che gli dà il tempo, amor, vertute e ‘l sangue,
gridando: D’un gentil desire avampo
col signor mio, che non pò seguitarme,
et del non esser qui si strugge et langue.
99
Poi che voi et io più volte abbiam provato
come ‘l nostro sperar torna fallace,
dietro a quel sommo ben che mai non spiace
levate il core a più felice stato.
Questa vita terrena è quasi un prato,
che ‘l serpente tra’ fiori et l’erba giace;
et s’alcuna sua vista agli occhi piace,
è per lassar più l’animo invescato.
Voi dunque, se cercate aver la mente
anzi l’extremo dí queta già mai,
seguite i pochi, et non la volgar gente.
Ben si può dire a me: Frate, tu vai
mostrando altrui la via, dove sovente
fosti smarrito, et or se’ più che mai.
100
Quella fenestra ove l’un sol si vede,
quando a lui piace, et l’altro in su la nona;
et quella dove l’aere freddo suona
ne’ brevi giorni, quando borrea ‘l fiede;
e ‘l sasso, ove a’ gran dí pensosa siede
madonna, et sola seco si ragiona,
con quanti luoghi sua bella persona
coprí mai d’ombra, o disegnò col piede;
e ‘l fiero passo ove m’agiunse Amore;
e lla nova stagion che d’anno in anno
mi rinfresca in quel dí l’antiche piaghe;
e ‘l volto, et le parole che mi stanno
altamente confitte in mezzo ‘l core,
fanno le luci mie di pianger vaghe.
101
Lasso, ben so che dolorose prede
di noi fa quella ch’a nullo huom perdona,
et che rapidamente n’abandona
il mondo, et picciol tempo ne tien fede;
veggio a molto languir poca mercede,
et già l’ultimo dí nel cor mi tuona:
per tutto questo Amor non mi spregiona,
che l’usato tributo agli occhi chiede.
So come i dí, come i momenti et l’ore,
ne portan gli anni; et non ricevo inganno,
ma forza assai maggior che d’arti maghe.
La voglia et la ragion combattuto ànno
sette et sette anni; et vincerà il migliore,
s’anime son qua giú del ben presaghe.
102
Cesare, poi che ‘l traditor d’Egitto
li fece il don de l’onorata testa,
celando l’allegrezza manifesta,
pianse per gli occhi fuor sí come è scritto;
et Hanibàl, quando a l’imperio afflitto
vide farsi Fortuna sí molesta,
rise fra gente lagrimosa et mesta
per isfogare il suo acerbo despitto.
Et cosí aven che l’animo ciascuna
sua passïon sotto ‘l contrario manto
ricopre co la vista or chiara or bruna:
però, s’alcuna volta io rido o canto,
facciol, perch’i’ non ò se non quest’una
via da celare il mio angoscioso pianto.
103
Vinse Hanibàl, et non seppe usar poi
ben la vittorïosa sua ventura:
però, signor mio caro, aggiate cura,
che similmente non avegna a voi.
L’orsa, rabbiosa per gli orsacchi suoi,
che trovaron di maggio aspra pastura,
rode sé dentro, e i denti et lunghie endura
per vendicar suoi danni sopra noi.
Mentre ‘l novo dolor dunque l’accora,
non riponete l’onorata spada,
anzi seguite là dove vi chiama
vostra fortuna dritto per la strada
che vi può dar, dopo la morte anchora
mille et mille anni, al mondo honor et fama.
104
L’aspectata vertù, che ‘n voi fioriva
quando Amor cominciò darvi bataglia,
produce or frutto, che quel fiore aguaglia,
et che mia speme fa venire a riva.
Però mi dice il cor ch’io in carte scriva
cosa, onde ‘l vostro nome in pregio saglia,
ché ‘n nulla parte sí saldo s’intaglia
per far di marmo una persona viva.
Credete voi che Cesare o Marcello
o Paolo od Affrican fossin cotali
per incude già mai né per martello?
Pandolfo mio, quest’opere son frali
a ll lungo andar, ma ‘l nostro studio è quello
che fa per fama gli uomini immortali.
105
Mai non vo’ più cantar com’io soleva,
ch’altri no m’intendeva, ond’ebbi scorno;
et puossi in bel soggiorno esser molesto.
Il sempre sospirar nulla releva;
già su per l’Alpi neva d’ogn’ ‘ntorno;
et è già presso al giorno: ond’io son desto.
Un acto dolce honesto è gentil cosa;
et in donna amorosa anchor m’aggrada,
che ‘n vista vada altera et disdegnosa,
non superba et ritrosa:
Amor regge suo imperio senza spada.
Chi smarrita à la strada, torni indietro;
chi non à albergo, posisi in sul verde;
chi non à l’auro, o ‘l perde,
spenga la sete sua con un bel vetro.
I’die’ in guarda a san Pietro; or non più, no:
intendami chi pò, ch’i’ m’intend’io.
Grave soma è un mal fio a mantenerlo:
quando posso mi spetro, et sol mi sto.
Fetonte odo che ‘n Po cadde, et morío;
et già di là dal rio passato è ‘l merlo:
deh, venite a vederlo. Or i’ non voglio:
non è gioco uno scoglio in mezzo l’onde,
e ‘ntra le fronde il visco. Assai mi doglio
quando un soverchio orgoglio
molte vertuti in bella donna asconde.
Alcun è che risponde a chi nol chiama;
altri, chi ‘il prega, si delegua et fugge;
altri al ghiaccio si strugge;
altri dí et notte la sua morte brama.
Proverbio “ama chi t’ama” è fatto antico.
I’ so ben quel ch’io dico: or lass’andare,
ché conven ch’altri impare a le sue spese.
Un’ humil donna grama un dolce amico.
Mal si conosce il fico. A me pur pare
senno a non cominciar tropp’alte imprese;
et per ogni paese è bona stanza.
L’infinita speranza occide altrui;
et anch’io fui alcuna volta in danza.
Quel poco che m’avanza
fia chi nol schifi, s’i’ ‘l vo’ dare a lui.
I’ mi fido in Colui che ‘l mondo regge,
et che’ seguaci Suoi nel boscho alberga,
che con pietosa verga
mi meni a passo omai tra le Sue gregge.
Forse ch’ogni uom che legge non s’intende;
et la rete tal tende che non piglia;
et chi troppo assotiglia si scavezza.
Non fia zoppa la legge ov’altri attende.
Per bene star si scende molte miglia.
Tal par gran meraviglia, et poi si sprezza.
Una chiusa bellezza è più soave.
Benedetta la chiave che s’avvolse
al cor, et sciolse l’alma, et scossa l’ave
di catena sí grave,
e ‘nfiniti sospir’ del mio sen tolse!
Là dove più mi dolse, altri si dole,
et dolendo adolcisse il mio dolore:
ond’io ringratio Amore
che più nol sento, et è non men che suole.
In silentio parole accorte et sagge,
e ‘l suon che mi sottragge ogni altra cura,
et la pregione oscura ov’è ‘l bel lume;
le nocturne vïole per le piagge,
et le le fere selvagge entr’a le mura,
et la dolce paura, e ‘l bel costume,
et di duo fonti un fiume in pace vòlto
dov’io bramo, et raccolto ove che sia:
Amor et Gelosia m’ànno il cor tolto,
e i segni del bel volto
che mi conducon per più piana via
a la speranza mia, al fin degli affanni.
O riposto mio bene, et quel che segue,
or pace or guerra or triegue,
mai non m’abbandonate in questi panni.
De’ passati miei danni piango et rido,
perché molto mi fido in quel ch’i’ odo.
Del presente mi godo, et meglio aspetto,
et vo contando gli anni, et taccio et grido.
E ‘n bel ramo m’annido, et in tal modo
ch’i’ ne ringratio et lodo il gran disdetto
che l’indurato affecto alfine à vinto,
et ne l’alma depinto “I sare’ udito,
et mostratone a dito”, et ànne extinto
(tanto inanzi son pinto,
ch’i’ ‘l pur dirò) “Non fostú tant’ardito”:
chi m’à ‘l fianco ferito, et chi ‘l risalda,
per cui nel cor via più che ‘n carta scrivo;
chi mi fa morto et vivo,
chi ‘n un punto m’agghiaccia et mi riscalda.
106
Nova angeletta sovra l’ale accorta
scese dal cielo in su la fresca riva,
là ‘nd’io passava sol per mio destino.
Poi che senza compagna et senza scorta
mi vide, un laccio che di seta ordiva
tese fra l’erba, ond’è verde il camino.
Allor fui preso; et non mi spiacque poi,
sí dolce lume uscia degli occhi suoi.
107
Non veggio ove scampar mi possa omai:
sí lunga guerra i begli occhi mi fanno,
ch’i’ temo, lasso, no ‘l soverchio affanno
distruga ‘l cor che triegua non à mai.
Fuggir vorrei; ma gli amorosi rai,
che dí et notte ne la mente stanno,
risplendon sí, ch’al quintodecimo anno
m’abbaglian più che ‘l primo giorno assai;
et l’imagine lor son sí cosparte
che volver non mi posso, ov’io non veggia
o quella o simil indi accesa luce.
Solo d’un lauro tal selva verdeggia
che ‘l mio adversario con mirabil arte
vago fra i rami ovunque vuol m’adduce.