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27 Gennaio 2019IL CONTE DI CARMAGNOLA
27 Gennaio 2019Alessandro Manzoni
Alessandro Manzoni
ATTO QUARTO
SCENA I
Sala dei Capi del Consiglio dei Dieci, in Venezia.
MARCO Senatore, e MARINO uno dei Capi.
MARCO
Eccomi al cenno degli eccelsi Capi
del Consiglio de’ Dieci.
MARINO
Io parlo in nome
di tutti lor. Vi si destina un grave
incarco, fuor di qui: se un argomento
di confidenza questo sia… la vostra
coscienza il diravvi.
MARCO
Essa mi dice
che scarsa al merto ed all’ingegno mio
dee la patria concederla, ma intera
alla fede ed al cor.
MARINO
La patria! E’ un nome
dolce a chi l’ama oltre ogni cosa, e sente
di vivere per lei; ma proferirlo
senza tremar non dee chi resta amico
de’ suoi nemici.
MARCO
Ed io…
MARINO
Per chi parlaste
oggi in Senato? Per la patria? I vostri
sdegni, i vostri terrori eran per lei?
Chi vi rendea sì caldo? Il suo periglio,
o il periglio di chi? Chi difendeste…
voi solo?
MARCO
Io so davanti a chi mi trovo.
Sta la mia vita in vostra man, ma il mio
voto non già: giudice ei non conosce
fuor che il mio cor; né d’altro esser può reo
che d’avergli mentito. A darne conto
pur disposto son io.
MARINO
Tutto che puote
por la patria in periglio, essere inciampo
all’alte mire sue, dargli sospetto,
è in nostra man. Perché ci siate or voi,
se nol sapete, se mostrar vi giova
di non saperlo, uditelo. Per ora
d’oggi si parli; non vogliam di tutta
la vostra vita interrogar che un giorno.
MARCO
E che? fors’altro mi si appon? Di nulla
temer poss’io; la mia condotta…
MARINO
E’ nota
più a noi che a voi. Dalla memoria vostra
forse assai cose ha cancellato il tempo:
il nostro libro non obblia.
MARCO
Di tutto
ragion darò.
MARINO
Voi la darete quando
vi fia chiesta. Non più: quando il Senato
diede il comando al Carmagnola, a molti
era sospetta la sua fede; ad altri
certa parea: potea parerlo allora.
Ei discioglie i prigioni, insulta i nostri
mandati, i nostri pari; ha vinto, e perde
in perfid’ozio la vittoria. Il velo
cade dal ciglio ai più. Nel suo soccorso
troppo fidando, il Trevisan s’innoltra
nel Po, le navi del nemico affronta;
sopraffatto dal numero, richiede
al Capitan rinforzo, e non l’ottiene.
Freme il Senato; poche voci appena
s’alzano ancor per lui. Cremona è presa,
basta sol ch’ei v’accorra; ei non v’accorre.
Giunge l’annunzio oggi al Senato: alfine
più non gli resta difensor che un solo:
solo, ma caldo difensor. Per lui
innocente è costui, degno di lode
più che di scusa; e se ci fu sventura,
colpa è soltanto del destino… e nostra.
Non è giustizia che il persegue: è solo
odio privato, è invidia, è basso orgoglio
che non perdona al sommo, a chi tacendo
grida co’ fatti: io son maggior di voi.
Certo inaudito è un tal linguaggio: i Padri
nel lor Senato oggi l’udiro; e muti
si volsero a guardar donde tal voce
venìa, se uno straniero oggi, un nemico
premere un seggio nel Senato ardia.
Chiarito è il Conte un traditor; si vuole
torgli ogni via di nocere. Ma l’arte
tanta e l’audacia è di costui, che reso
ei s’è tremendo a’ suoi signori; è forte
di quella forza che gli abbiam fidata;
egli ha il cor de’ soldati; e l’armi nostre,
quando voglia, son sue; contro di noi
volger le puote, e il vuol. Certo è follia
aspettar che lo tenti; ognun risolve
ch’ei si prevenga, e tosto. A forza aperta
è impresa piena di perigli. E noi
starem per questo? E il suo maggior delitto
sarà cagion perché impunito ei vada?
Sola una strada alla giustizia è schiusa,
l’arte con cui l’ingannator s’inganna.
Ei ci astrinse a tenerla; ebben, si tenga:
questo è il voto comun. Che fece allora
l’amico di costui? Ve ne rammenta?
Io vel dirò; ché men tranquillo al certo
era in quel punto il vostro cor, dell’occhio
che imperturbato vi seguia. Perdeste
ogni ritegno, oltrepassaste il largo
confin che un resto di prudenza avea
prescritto al vostro ardor, dimenticaste
ciò che promesso v’eravate, intero
ai men veggenti vi svelaste, a quelli
cui parea novo ciò che a noi non l’era.
Ognuno allor pensò che oggi in Senato
c’era un uom di soverchio, e che bisogna
porre il segreto dello Stato in salvo.
MARCO
Signor, tutto a voi lice: innanzi a voi
quel che ora io sia, non so; però non posso
dimenticarmi che patrizio io sono,
né a voi tacer che un dubbio tal m’offende.
Sono un di voi: la causa dello Stato
è la mia causa; e il suo segreto importa
a me non men che altrui.
MARINO
Volete alfine
saper chi siete qui? Voi siete un uomo
di cui si teme, un che lo Stato guarda
come un inciampo alla sua via. Mostrate
che nol sarete; il darvene agio ancora
è gran clemenza.
MARCO
Io sono amico al Conte:
questa è l’accusa mia; nol nego, io il sono:
e il ciel ringrazio che vigor mi ha dato
di confessarlo qui. Ma se nemico
è della patria? Mi si provi, è il mio.
Che gli si appone? I prigionier disciolti?
Non li disciolse il vincitor soldato?
Ma invan pregato il condottier non volle
frenar questa licenza. Il potea forse?
Ma l’imitò. Non ve lo astrinse un uso,
qual ch’ei sia, della guerra? ed al Senato
vera non parve questa scusa? e largo
d’ogni onor poscia non gli fu? L’aiuto
al Trevisan negato? Era più grave
periglio il darlo; era l’impresa ordita
ignaro il Conte; ei non fu chiesto a tempo.
E la sentenza che a sì turpe esiglio
il Trevisan dannò, tutta la colpa
non rovesciò sovra di lui? Cremona?
Chi di Cremona meditò l’acquisto?
Chi l’ordin dié che si tentasse? Il Conte.
Del popol tutto che a rumor si leva
non può scarso drappel l’inaspettato
impeto sostener; ritorna al campo,
non scemo pur d’un combattente. Al Duce
buon consiglio non parve incontro un novo
impensato nemico avventurarsi;
e abbandonò l’impresa. Ella è, fra tante
sì ben compiute, una fallita impresa;
ma il tradimento ov’è? Fiero, oltraggioso
da gran tempo, voi dite, è il suo linguaggio:
un troppo lungo tollerar macchiato
ha l’onor nostro. Ed un’insidia, il lava?
E poi che un nodo, un dì sì caro, ormai
non può tener Venezia e il Carmagnola,
chi ci vieta disciorlo? Un’amistade
sì nobilmente stretta, or non potria
nobilmente finir? Come! anche in questo
un periglio si scorge! Il genio ardito
del condottier; la fama sua si teme,
de’ soldati l’amor! Se render piena
testimonianza al ver, colpa si stima;
se a tal trista temenza oppor non lice
la lealtà del Conte; il senso almeno
del nostro onor la scacci. Abbiam di noi
un più degno concetto; e non si creda
che a tal Venezia giunta sia, che possa
porla in periglio un uom. Lasciam codeste
cure ai tiranni: ivi il valor si tema
ove lo scettro è in una mano, e basta
a strapparlo un guerrier che dica: io sono
più degno di tenerlo; e a’ suoi compagni
il persuada. Ei che tentar potria?
Al Duca ritornar, dicesi, e seco
le schiere trar nel tradimento. Al Duca?
All’uom che un’onta non perdona mai,
né un gran servigio, ritornar colui
che gli compose e che gli scosse il trono?
Chi non poté restargli amico in tempo
che pugnava per lui, ridivenirlo
dopo averlo sconfitto! Avvicinarsi
a quella man che in questo asilo istesso
comprò un pugnal per trapassargli il petto!
L’odio solo, o signor, creder lo puote.
Ah! qual sia la cagion che innanzi a questo
temuto seggio fa trovarmi, un’alta
grazia mi fia, se fare intender posso
anco una volta il ver: qualche lusinga
io nutro ancor che non fia forse invano.
Sì, l’odio cieco, l’odio sol potea
far che fosse in Senato un tal sospetto
proposto, inteso, tollerato. Ha molti
fra noi nemici il Conte: or non ricerco
perché lo siano: il son. Quando nascoste
all’ombra della pubblica vendetta,
le nimistà private io disvelai;
quando chiedea che a provveder s’avesse
l’util soltanto dello Stato, e il giusto;
allora ufizio io non facea d’amico,
ma di fedel patrizio. Io già non scuso
il mio parlar: quando proporre intesi
che sotto il vel di consultarlo ei sia
richiamato a Venezia, e gli si faccia
onor più dell’usato, e tutto questo
per tirarlo nel laccio… allor, nol nego…
MARINO
Più non pensaste che all’amico.
MARCO
Allora,
dissimular nol vo’, tutte sentii
le potenze dell’alma sollevarsi
contro un consiglio… ah fu seguito!… Un solo
pensier non fu; fu della patria mia
l’onor ch’io vedo vilipeso, il grido
de’ nemici e de’ posteri; fu il primo
senso d’orror che un tradimento inspira
all’uom che dee stornarlo, o starne a parte.
E se pietà d’un prode a tanti affetti
pur si mischiò, dovea, poteva io forse
farla tacer? Son reo d’aver creduto
che util puote a Venezia esser soltanto
ciò che l’onora, e che si può salvarla
senza farsi…
MARINO
Non più: se tanto udii
fu perché ai Capi del Consiglio importa
di conoscervi appien. Piacque aspettarvi
ai secondi pensier; veder si volle
se un più maturo ponderar v’ avea
tratto a più saggio e più civil consiglio.
Or, poiché indarno si sperò, credete
voi che un decreto del Senato io voglia
difender ora innanzi a voi? Si tratta
la vostra causa qui. Pensate a voi,
non alla patria: ad altre, e forti, e pure
mani è commessa la sua sorte: e nulla
a cor le sta che il suo voler vi piaccia,
ma che s’adempia, e che non sia sofferto
pure il pensier di porvi impedimento.
A questo vegliam noi. Quindi io non voglio
altro da voi che una risposta. Espresso
sovra quest’uomo è del Senato il voto;
compir si dee; voi, che farete intanto?
MARCO
Quale inchiesta, signor!
MARINO
Voi siete a parte
d’un gran disegno; e in vostro cor bramate
che a voto ei vada: non è ver?
MARCO
Che importa
ciò ch’io brami, allo Stato? A prova ormai
sa che dell’opre mie non è misura
il desiderio, ma il dover.
MARINO
Qual pegno
abbiam da voi che lo farete? In nome
del Tribunale un ve ne chiedo: e questo,
se lo negate, un traditor vi tiene.
Quel che si serba ai traditor, v’è noto.
MARCO
Io… Che si vuol da me?
MARINO
Riconoscete
che patria è questa a cui bastovvi il core
di preferire uno stranier. Sui figli
a stento e tardi essa la mano aggrava;
e a perderne soltanto ella consente
quei che salvar non puote. Ogni error vostro
è pronta ad obbliar; v’apre ella stessa
la strada al pentimento.
MARCO
Al pentimento!
Ebben, che strada?
MARINO
Il Mussulman disegna
d’assalir Tessalonica: voi siete
colà mandato. A quale ufizio, quivi
noto vi fia: pronta è la nave; ed oggi
voi partirete.
MARCO
Ubbidirò.
MARINO
Ma un’arra
si vuol di vostra fé: giurar dovete
per quanto è sacro, che in parole o in cenni
nulla per voi traspirerà di quanto
oggi s’è fisso. Il giuramento è questo:
(gli presenta un foglio)
sottoscrivete.
MARCO
(legge)
E che, signor? Non basta?..
MARINO
E per ultimo, udite. Il messo è in via
che porta al Conte il suo richiamo. Ov’egli
pronto ubbidisca, ed in Venezia arrivi,
giustizia troverà… forse clemenza.
Ma se ricusa, se sta in forse, e segno
dà di sospetto; un gran segreto udite,
e tenetelo in voi; l’ordine è dato
che dalle nostre man vivo ei non esca.
Il traditor che dargli un cenno ardisce,
quei l’uccide, e si perde. Io più non odo
nulla da voi: scrivete; ovvero…
(gli porge il foglio)
MARCO
Io scrivo.
(prende il foglio e lo sottoscrive)
MARINO
Tutto è posto in obblio. La vostra fede
ha fatto il più; vinto ha il dover: l’impresa
compirsi or dee dalla prudenza: e questa
non può mancarvi, sol che in mente abbiate
che ormai due vite in vostra man son poste. (parte)
SCENA II
MARCO
Dunque è deciso!… un vil son io!… fui posto
al cimento; e che feci?… Io prima d’oggi
non conoscea me stesso!… Oh che segreto
oggi ho scoperto! Abbandonar nel laccio
un amico io potea! Vedergli al tergo
l’assassino venir, veder lo stile
che su lui scende, e non gridar: ti guarda!
Io lo potea; l’ho fatto… io più nol devo
salvar; chiamato ho in testimonio il cielo
d’un’infame viltà… la sua sentenza
ho sottoscritta… ha la mia parte anch’io
nel suo sangue! Oh che feci!… io mi lasciai
dunque atterrir?… La vita?… Ebben, talvolta
senza delitto non si può serbarla:
nol sapeva io? Perché promisi adunque?
Per chi tremai? per me? per me? per questo
disonorato capo?… o per l’amico?
La mia ripulsa accelerava il colpo,
non lo stornava. O Dio, che tutto scerni,
rivelami il mio cor; ch’io veda almeno
in quale abisso son caduto, s’io
fui più stolto; o codardo, o sventurato.
O Carmagnola, tu verrai!… sì certo
egli verrà… se anche di queste volpi
stesse. in sospetto, ei penserà che Marco
è senator, che anch’io l’invito; e l’unge
ogni dubbiezza scaccerà; rimorso
avrà d’averla accolta… Io son che il perdo!
Ma… di clemenza non parlò quel vile?
Sì, la clemenza che il potente accorda
all’uom che ha tratto nell’agguato, a quello
ch’egli medesmo accusa, e che gli preme
di trovar reo. Clemenza all’innocente!
Oh! il vil son io che gli credetti, o volli
credergli; ei la nomò perché comprese
che bastante a corrompermi non era
il rio timor che a goccia a goccia ei fea
scender sull’alma mia: vide che d’uopo
m’era un nobil pretesto; e me lo diede.
Gli astuti! i traditor! Come le parti
distribuite hanno tra lor costoro!
Uno il sorriso, uno il pugnal, quest’altro
le minacce… e la mia?… voller che fosse
debolezza ed inganno… ed io l’ho presa!
Io li spregiava; e son da men di loro!
Ei non gli sono amici!… Io non doveva
essergli amico: io la cercai; fui preso
dall’alta indole sua, dal suo gran nome.
Perché dapprima non pensai che incarco
è l’amistà d’un uom che agli altri è sopra?
Perché allor correr solo io nol lasciai
la sua splendida via, s’io non potea
seguire i passi suoi? La man gli stesi;
il cortese la strinse; ed or ch’ei dorme,
e il nemico gli è sopra, io la ritiro:
ei si desta, e mi cerca; io son fuggito!
Ei mi dispregia, e more! Io non sostengo
questo pensier… Che feci!… Ebben, che feci?
Nulla finora: ho sottoscritto un foglio,
e nulla più. Se fu delitto il giuro,
non fia virtù l’infrangerlo? Non sono
che all’orlo ancor del precipizio; il vedo,
e ritrarmi poss’io… Non posso un mezzo
trovar?… Ma s’io l’uccido? Oh! forse il disse
per atterrirmi… E se davvero il disse?
Oh empi, in quale abbominevol rete
stretto m’avete! Un nobile consiglio
per me non c’è; qualunque io scelga, è colpa.
Oh dubbio atroce!… Io li ringrazio; ei m’hanno
statuito un destino; ei m’hanno spinto
per una via; vi corro: almen mi giova
ch’io non la scelsi: io nulla scelgo; e tutto
ch’io faccio è forza e volontà d’altrui.
Terra ov’io nacqui, addio per sempre: io spero
ché ti morrò lontano, e pria che nulla
sappia di te: lo spero: in fra i perigli
certo per sua pietade il ciel m’invia.
Ma non morrò per te. Che tu sii grande
e gloriosa, che m’importa? Anch’io
due gran tesori avea, la mia virtude,
ed un amico; e tu m’hai tolto entrambi.
(parte)
SCENA III
Tenda del Conte.
IL CONTE e GONZAGA
IL CONTE
Ebben, che raccogliesti?
GONZAGA
Io favellai,
come imponesti, ai Commissari; e chiaro
mostrai che tutta delle vinte navi
riman la colpa e la vergogna a lui
che non le seppe comandar; che infausta
la giornata gli fu perché la imprese
senza di te; che tu da lui chiamato
tardi in soccorso, romper non dovevi
i tuoi disegni per servir gli altrui;
che l’armi lor, tanto in tua man felici,
sempre il sarian, se questa guerra fosse
commessa al senno ed al voler d’un solo.
IL CONTE
Che dicon essi?
GONZAGA
Si mostrar convinti
ai detti miei: dissero in pria, che nulla
dissimular volean; che amaro al certo
de’ perduti navigli era il pensiero,
e di Cremona la fallita impresa;
ma che son lieti di saper che il fallo
di te non fu; che di chiunque ei sia,
da te l’ammenda aspettano.
IL CONTE
Tu il vedi,
o mio Gonzaga; se dai fede al volgo,
sommo riguardo, arte profonda è d’uopo
con questi uomin di Stato. Io fui con essi
quel ch’esser soglio; rigettai l’ingiuste
pretese lor, scender li feci alquanto
dall’alto seggio ove si pon chi avvezzo
non è a vedersi altri che schiavi intorno;
io mostrai lor fino a che segno io voglio
che altri signor mi sia: d’allora in poi
mai non l’hanno passato; io li provai
saggi sempre e cortesi.
GONZAGA
E non pertanto
dar consiglio ad alcuno io non vorrei
di tener, questa via. Te da gran tempo
la gloria segue e la fortuna; ad essi
util tu sei, tu necessario e caro,
terribil forse: e tu la prova hai vinta;
se pur può dirsi che sia vinta ancora.
IL CONTE
Che dubbi hai tu?
GONZAGA
Tu, che certezza? Io vedo
dolci sembianti, e dolci detti ascolto:
segni d’amor; ma pur, l’odio che teme,
altri ne ha forse?
IL CONTE
No: di questo io nulla
sono in pensier. Troppo a regnar son usi;
e san che all’uom da cui s’ottiene il molto
chieder non dessi improntamente il meno.
E poi, mi credi, io li guardai dappresso:
questa cupa arte lor, questi intricati
avvolgimenti di menzogna, questo
finger, tacere, antiveder, di cui
tanto li loda e li condanna il mondo
è meno assai di quel che al mondo appare.
GONZAGA
Se pur non era di lor arte il colmo
il parer tali a te.
IL CONTE
No: tu li vedi
con l’occhio altrui: quando col tuo li veda,
tu cangerai pensiero. Havvene assai
di schietti e buoni; havvene tal che un’alta
anima chiude, a cui pensier non osa
avvicinarsi che gentil non sia:
anima dolce e disdegnosa, in cui
legger non puoi, che tu non sia compreso
d’amor, di riverenza, e di desio
di somigliarle. Non temer; non sono
di me scontenti; e quando il fosser mai,
io lo s’aprei ben tosto.
GONZAGA
Il Ciel non voglia
che tu t’inganni.
IL CONTE
Altro mi duol: son stanco
di questa guerra che condur non posso
a modo mio. Quand’io non era ancora
più che un soldato di ventura, ascoso
e perduto tra i mille, ed io sentia
che al loco mio non m’avea posto il cielo,
e dell’oscurità l’aria affannosa
respirava fremendo, ed il comando
sì bello mi parea,… chi m’avria detto
che l’otterrei, che a gloriosi duci,
e a tanti e così prodi e così fidi
soldati io sarei capo; e che felice
io non sarei perciò!…
(entra un Soldato)
Che rechi?
SOLDATO
Un foglio
di Venezia.
(gli porge il foglio, e parte)
IL CONTE
Vediam.
(legge)
Non tel diss’io?
mai non gli ebbi più amici: a loro il Duca
chiede la pace, e conferir con meco
braman di ciò. Vuoi tu seguirmi?
GONZAGA
Io vengo.
IL CONTE
Che dì tu di tal pace?
GONZAGA
Ad un soldato
tu lo domandi?
IL CONTE
E’ ver; ma questa è guerra?
O mia consorte, o figlia mia, tra poco
io rivedrovvi, abbraccerò gli amici:
questo è contento al certo. Eppur del tutto
esser lieto non so: chi potria dirmi
se un sì bel campo io rivedrò più mai?
FINE DELL’ATTO QUARTO
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