Come un branco di segugi, dopo aver inseguita invano una lepre, tornano mortificati verso il padrone, co’ musi bassi, e con le code ciondoloni, così, in quella scompigliata notte, tornavano i bravi al palazzotto di don Rodrigo. Egli camminava innanzi e indietro, al buio, per una stanzaccia disabitata dell’ultimo piano, che rispondeva sulla spianata. Ogni tanto si fermava, tendeva l’orecchio, guardava dalle fessure dell’imposte intarlate, pieno d’impazienza e non privo d’inquietudine, non solo per l’incertezza della riuscita, ma anche per le conseguenze possibili; perché era la più grossa e la più arrischiata a cui il brav’uomo avesse ancor messo mano. S’andava però rassicurando col pensiero delle precauzioni prese per distrugger gl’indizi, se non i sospetti. « In quanto ai sospetti », pensava, « me ne rido. Vorrei un po’ sapere chi sarà quel voglioso che venga quassù a veder se c’è o non c’è una ragazza. Venga, venga quel tanghero, che sarà ben ricevuto. Venga il frate, venga. La vecchia? Vada a Bergamo la vecchia. La giustizia? Poh la giustizia! Il podestà non è un ragazzo, né un matto. E a Milano? Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? Chi sa che ci siano? Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno. Via, via, niente paura. Come rimarrà Attilio, domattina! Vedrà, vedrà s’io fo ciarle o fatti. E poi… se mai nascesse qualche imbroglio… che so io? qualche nemico che volesse cogliere quest’occasione,… anche Attilio saprà consigliarmi: c’è impegnato l’onore di tutto il parentado ». Ma il pensiero sul quale si fermava di più, perché in esso trovava insieme un acquietamento de’ dubbi, e un pascolo alla passion principale, era il pensiero delle lusinghe, delle promesse che adoprerebbe per abbonire Lucia. « Avrà tanta paura di trovarsi qui sola, in mezzo a costoro, a queste facce, che… il viso piu umano qui son io, per bacco… che dovrà ricorrere a me, toccherà a lei a pregare; e se prega ».
Mentre fa questi bei conti, sente un calpestìo, va alla finestra, apre un poco, fa capolino; son loro. « E la bussola? Diavolo! dov’è la bussola? Tre, cinque, otto: ci son tutti; c’è anche il Griso; la bussola non c’è: diavolo! diavolo! il Griso me ne renderà conto ».
Entrati che furono, il Griso posò in un angolo d’una stanza terrena il suo bordone, posò il cappellaccio e il sanrocchino, e, come richiedeva la sua carica, che in quel momento nessuno gl’invidiava, salì a render quel conto a don Rodrigo. Questo l’aspettava in cima alla scala; e vistolo apparire con quella goffa e sguaiata presenza del birbone deluso, – ebbene, – gli disse, o gli gridò: – signore spaccone, signor capitano, signor lascifareame?
– L’è dura, – rispose il Griso, restando con un piede sul primo scalino, – l’è dura di ricever de’ rimproveri, dopo aver lavorato fedelmente, e cercato di fare il proprio dovere, e arrischiata anche la pelle.
– Com’è andata? Sentiremo, sentiremo, – disse don Rodrigo, e s’avviò verso la sua camera, dove il Griso lo seguì, e fece subito la relazione di ciò che aveva disposto, fatto, veduto e non veduto, sentito, temuto, riparato; e la fece con quell’ordine e con quella confusione, con quella dubbiezza e con quello sbalordimento, che dovevano per forza regnare insieme nelle sue idee.
– Tu non hai torto, e ti sei portato bene, – disse don Rodrigo: – hai fatto quello che si poteva; ma… ma, che sotto questo tetto ci fosse una spia! Se c’è, se lo arrivo a scoprire, e lo scopriremo se c’è, te l’accomodo io; ti so dir io, Griso, che lo concio per il dì delle feste.
– Anche a me, signore, – disse il Griso, – è passato per la mente un tal sospetto: e se fosse vero, se si venisse a scoprire un birbone di questa sorte, il signor padrone lo deve metter nelle mie mani. Uno che si fosse preso il divertimento di farmi passare una notte come questa! toccherebbe a me a pagarlo. Però, da varie cose m’è parso di poter rilevare che ci dev’essere qualche altro intrigo, che per ora non si può capire. Domani, signore, domani se ne verrà in chiaro.
– Non siete stati riconosciuti almeno?
Il Griso rispose che sperava di no; e la conclusione del discorso fu che don Rodrigo gli ordinò, per il giorno dopo, tre cose che colui avrebbe sapute ben pensare anche da sé. Spedire la mattina presto due uomini a fare al console quella tale intimazione, che fu poi fatta, come abbiam veduto; due altri al casolare a far la ronda, per tenerne lontano ogni ozioso che vi capitasse, e sottrarre a ogni sguardo la bussola fino alla notte prossima, in cui si manderebbe a prenderla; giacché per allora non conveniva fare altri movimenti da dar sospetto; andar poi lui, e mandare anche altri, de’ più disinvolti e di buona testa, a mescolarsi con la gente, per scovar qualcosa intorno all’imbroglio di quella notte. Dati tali ordini, don Rodrigo se n’andò a dormire, e ci lasciò andare anche il Griso, congedandolo con molte lodi, dalle quali traspariva evidentemente l’intenzione di risarcirlo degl’improperi precipitati coi quali lo aveva accolto.
Va a dormire, povero Griso, che tu ne devi aver bisogno. Povero Griso! In faccende tutto il giorno, in faccende mezza la notte, senza contare il pericolo di cader sotto lunghie de’ villani, o di buscarti una taglia per rapto di donna honesta, per giunta di quelle che hai già addosso; e poi esser ricevuto in quella maniera! Ma! così pagano spesso gli uomini. Tu hai però potuto vedere, in questa circostanza, che qualche volta la giustizia, se non arriva alla prima, arriva, o presto o tardi anche in questo mondo. Va a dormire per ora: che un giorno avrai forse a somministrarcene un’altra prova, e più notabile di questa.
La mattina seguente, il Griso era fuori di nuovo in faccende, quando don Rodrigo s’alzò. Questo cercò subito del conte Attilio, il quale, vedendolo spuntare, fece un viso e un atto canzonatorio, e gli gridò: – san Martino!
– Non so cosa vi dire, – rispose don Rodrigo, arrivandogli accanto: – pagherò la scommessa; ma non è questo quel che più mi scotta. Non v’avevo detto nulla, perche, lo confesso, pensavo di farvi rimanere stamattina. Ma… basta, ora vi racconterò tutto.
– Ci ha messo uno zampino quel frate in quest’affare, – disse il cugino, dopo aver sentito tutto, con piu serietà che non si sarebbe aspettato da un cervello così balzano. – Quel frate, – continuò, – con quel suo fare di gatta morta, e con quelle sue proposizioni sciocche, io l’ho per un dirittone, e per un impiccione. E voi non vi siete fidato di me, non m’avete mai detto chiaro cosa sia venuto qui a impastocchiarvi l’altro giorno -. Don Rodrigo riferì il dialogo. – E voi avete avuto tanta sofferenza? – esclamò il conte Attilio: – e l’avete lasciato andare com’era venuto?
– Che volevate ch’io mi tirassi addosso tutti i cappuccini d’Italia?
– Non so, – disse il conte Attilio, – se, in quel momento, mi sarei ricordato che ci fossero al mondo altri cappuccini che quel temerario birbante; ma via, anche nelle regole della prudenza, manca la maniera di prendersi soddisfazione anche d’un cappuccino? Bisogna saper raddoppiare a tempo le gentilezze a tutto il corpo, e allora si può impunemente dare un carico di bastonate a un membro. Basta; ha scansato la punizione che gli stava più bene; ma lo prendo io sotto la mia protezione, e voglio aver la consolazione d’insegnargli come si parla co’ pari nostri.
– Non mi fate peggio.
– Fidatevi una volta, che vi servirò da parente e da amico.
– Cosa pensate di fare?
– Non lo so ancora; ma lo servirò io di sicuro il frate. Ci penserò, e… il signor conte zio del Consiglio segreto è lui che mi deve fare il servizio. Caro signor conte zio! Quanto mi diverto ogni volta che lo posso far lavorare per me, un politicone di quel calibro! Doman l’altro sarò a Milano, e, in una maniera o in un’altra, il frate sarà servito.
Venne intanto la colazione, la quale non interruppe il discorso d’un affare di quell’importanza. Il conte Attilio ne parlava con disinvoltura; e, sebbene ci prendesse quella parte che richiedeva la sua amicizia per il cugino, e l’onore del nome comune, secondo le idee che aveva d’amicizia e d’onore, pure ogni tanto non poteva tenersi di non rider sotto i baffi, di quella bella riuscita. Ma don Rodrigo, ch’era in causa propria, e che, credendo di far quietamente un gran colpo, gli era andato fallito con fracasso, era agitato da passioni più gravi, e distratto da pensieri più fastidiosi. – Di belle ciarle, – diceva, – faranno questi mascalzoni, in tutto il contorno. Ma che m’importa? In quanto alla giustizia, me ne rido: prove non ce n’è; quando ce ne fosse, me ne riderei ugualmente: a buon conto, ho fatto stamattina avvertire il console che guardi bene di non far deposizione dell’avvenuto. Non ne seguirebbe nulla; ma le ciarle, quando vanno in lungo, mi seccano. E’ anche troppo ch’io sia stato burlato così barbaramente.
– Avete fatto benissimo, – rispondeva il conte Attilio. – Codesto vostro podestà… gran caparbio, gran testa vota, gran seccatore d’un podestà… è poi un galantuomo, un uomo che sa il suo dovere; e appunto quando s’ha che fare con persone tali, bisogna aver più riguardo di non metterle in impicci. Se un mascalzone di console fa una deposizione, il podestà, per quanto sia ben intenzionato, bisogna pure che…
– Ma voi, – interruppe, con un po’ di stizza, don Rodrigo, – voi guastate le mie faccende, con quel vostro contraddirgli in tutto, e dargli sulla voce, e canzonarlo anche, all’occorrenza. Che diavolo, che un podestà non possa esser bestia e ostinato, quando nel rimanente è un galantuomo!
– Sapete, cugino, – disse guardandolo, maravigliato, il conte Attilio, – sapete, che comincio a credere che abbiate un po’ di paura? Mi prendete sul serio anche il podestà…
– Via via, non avete detto voi stesso che bisogna tenerlo di conto?
– L’ho detto: e quando si tratta d’un affare serio, vi farò vedere che non sono un ragazzo. Sapete cosa mi basta l’animo di far per voi? Son uomo da andare in persona a far visita al signor podestà. Ah! sarà contento dell’onore? E son uomo da lasciarlo parlare per mezz’ora del conte duca, e del nostro signor castellano spagnolo, e da dargli ragione in tutto, anche quando ne dirà di quelle così massicce. Butterò poi là qualche parolina sul conte zio del Consiglio segreto: e sapete che efletto fanno quelle paroline nell’orecchio del signor podestà. Alla fin de’ conti, ha più bisogno lui della nostra protezione, che voi della sua condiscendenza. Farò di buono, e ci anderò, e ve lo lascerò meglio disposto che mai.
Dopo queste e altre simili parole, il conte Attilio uscì, per andare a caccia; e don Rodrigo stette aspettando con ansietà il ritorno del Griso. Venne costui finalmente, sull’ora del desinare, a far la sua relazione.
Lo scompiglio di quella notte era stato tanto clamoroso, la sparizione di tre persone da un paesello era un tal avvenimento, che le ricerche, e per premura e per curiosità, dovevano naturalmente esser molte e calde e insistenti; e dall’altra parte, gl’informati di qualche cosa eran troppi, per andar tutti d’accordo a tacer tutto. Perpetua non poteva farsi veder sull’uscio, che non fosse tempestata da quello e da quell’altro, perché dicesse chi era stato a far quella gran paura al suo padrone: e Perpetua, ripensando a tutte le circostanze del fatto, e raccapezzandosi finalmente ch’era stata infinocchiata da Agnese, sentiva tanta rabbia di quella perfidia, che aveva proprio bisogno d’un po’ di sfogo. Non già che andasse lamentandosi col terzo e col quarto della maniera tenuta per infinocchiar lei: su questo non fiatava; ma il tiro fatto al suo povero padrone non lo poteva passare affatto sotto silenzio; e sopra tutto, che un tiro tale fosse stato concertato e tentato da quel giovine dabbene, da quella buona vedova, da quella madonnina infilzata. Don Abbondio poteva ben comandarle risolutamente, e pregarla cordialmente che stesse zitta; lei poteva bene ripetergli che non faceva bisogno di suggerirle una cosa tanto chiara e tanto naturale; certo è che un così gran segreto stava nel cuore della povera donna, come, in una botte vecchia e mal cerchiata, un vino molto giovine, che grilla e gorgoglia e ribolle, e, se non manda il tappo per aria, gli geme all’intorno, e vien fuori in ischiuma, e trapela tra doga e doga, e gocciola di qua e di là, tanto che uno può assaggiarlo, e dire a un di presso che vino è. Gervaso, a cui non pareva vero d’essere una volta più informato degli altri, a cui non pareva piccola gloria l’avere avuta una gran paura, a cui, per aver tenuto dl mano a una cosa che puzzava di criminale, pareva d’esser diventato un uomo come gli altri, crepava di voglia di vantarsene. E quantunque Tonio, che pensava seriamente all’inquisizioni e ai processi possibili e al conto da rendere, gli comandasse, co’ pugni sul viso, di non dir nulla a nessuno, pure non ci fu verso di soffogargli in bocca ogni parola. Del resto Tonio, anche lui, dopo essere stato quella notte fuor di casa in ora insolita, tornandovi, con un passo e con un sembiante insolito, e con un’agitazion d’animo che lo disponeva alla sincerità, non poté dissimulare il fatto a sua moglie; la quale non era muta. Chi parlò meno, fu Menico; perché, appena ebbe raccontata ai genitori la storia e il motivo della sua spedizione, parve a questi una cosa così terribile che un loro figliuolo avesse avuto parte a buttare all’aria un’impresa di don Rodrigo, che quasi quasi non lasciaron finire al ragazzo il suo racconto. Gli fecero poi subito i più forti e minacciosi comandi che guardasse bene di non far neppure un cenno di nulla: e la mattina seguente, non parendo loro d’essersi abbastanza assicurati, risolvettero di tenerlo chiuso in casa, per quel giorno, e per qualche altro ancora. Ma che? essi medesimi poi, chiacchierando con la gente del paese, e senza voler mostrar di saperne più di loro, quando si veniva a quel punto oscuro della fuga de’ nostri tre poveretti, e del come, e del perché, e del dove, aggiungevano, come cosa conosciuta, che s’eran rifugiati a Pescarenico. Così anche questa circostanza entrò ne’ discorsi comuni.
Con tutti questi brani di notizie, messi poi insieme e cuciti come s’usa, e con la frangia che ci s’attacca naturalmente nel cucire, c’era da fare una storia d’una certezza e d’una chiarezza tale, da esserne pago ogni intelletto più critico. Ma quella invasion de’ bravi, accidente troppo grave e troppo rumoroso per esser lasciato fuori, e del quale nessuno aveva una conoscenza un po’ positiva, quell’accidente era ciò che imbrogliava tutta la storia. Si mormorava il nome di don Rodrigo: in questo andavan tutti d’accordo; nel resto tutto era oscurità e congetture diverse. Si parlava molto de’ due bravacci ch’erano stati veduti nella strada, sul far della sera, e dell’altro che stava sull’uscio dell’osteria; ma che lume si poteva ricavare da questo fatto così asciutto? Si domandava bene all’oste chi era stato da lui la sera avanti; ma l’oste, a dargli retta, non sl rammentava neppure se avesse veduto gente quella sera; e badava a dire che l’osteria è un porto di mare. Sopra tutto, confondeva le teste, e disordinava le congetture quel pellegrino veduto da Stefano e da Carlandrea, quel pellegrino che i malandrini volevano ammazzare, e che se n’era andato con loro, o che essi avevan portato via. Cos’era venuto a fare? Era un’anima del purgatorio, comparsa per aiutar le donne; era un’anima dannata d’un pellegrino birbante e impostore, che veniva sempre di notte a unirsi con chi facesse di quelle che lui aveva fatte vivendo; era un pellegrino vivo e vero, che coloro avevan voluto ammazzare, per timor che gridasse, e destasse il paese; era (vedete un po’ cosa si va a pensare!) uno di quegli stessi malandrini travestito da pellegrino; era questo, era quello, era tante cose che tutta la sagacità e l’esperienza del Griso non sarebbe bastata a scoprire chi fosse, se il Griso avesse dovuto rilevar questa parte della storia da’ discorsi altrui. Ma, come il lettore sa, ciò che la rendeva imbrogliata agli altri, era appunto il più chiaro per lui: servendosene di chiave per interpretare le altre notizie raccolte da lui immediatamente, o col mezzo degli esploratori subordinati, poté di tutto comporne per don Rodrigo una relazione bastantemente distinta. Si chiuse subito con lui, e l’informò del colpo tentato dai poveri sposi, il che spiegava naturalmente la casa trovata vota e il sonare a martello, senza che facesse bisogno di supporre che in casa ci fosse qualche traditore, come dicevano que’ due galantuomini. L’informò della fuga; e anche a questa era facile trovarci le sue ragioni: il timore degli sposi colti in fallo, o qualche avviso dell’invasione, dato loro quand’era scoperta, e il paese tutto a soqquadro. Disse finalmente che s’eran ricoverati a Pescarenico; più in là non andava la sua scienza. Piacque a don Rodrigo l’esser certo che nessuno l’aveva tradito, e il vedere che non rimanevano tracce del suo fatto; ma fu quella una rapida e leggiera compiacenza. – Fuggiti insieme! – gridò: – insieme! E quel frate birbante! Quel frate! – la parola gli usciva arrantolata dalla gola, e smozzicata tra’ denti, che mordevano il dito: il suo aspetto era brutto come le sue passioni. – Quel frate me la pagherà. Griso! non son chi sono… voglio sapere, voglio trovare… questa sera, voglio saper dove sono. Non ho pace. A Pescarenico, subito, a sapere, a vedere, a trovare… Quattro scudi subito, e la mia protezione per sempre. Questa sera lo voglio sapere. E quel birbone… ! quel frate… !
Il Griso di nuovo in campo; e, la sera di quel giorno medesimo, poté riportare al suo degno padrone la notizia desiderata: ed ecco in qual maniera.
Una delle più gran consolazioni di questa vita è l’amicizia; e una delle consolazioni dell’amicizia è quell’avere a cui confidare un segreto. Ora, gli amici non sono a due a due, come gli sposi; ognuno, generalmente parlando, ne ha più d’uno: il che forma una catena, di cui nessuno potrebbe trovar la fine. Quando dunque un amico si procura quella consolazione di deporre un segreto nel seno d’un altro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione anche lui. Lo prega, è vero, di non dir nulla a nessuno; e una tal condizione, chi la prendesse nel senso rigoroso delle parole, troncherebbe immediatamente il corso delle consolazioni. Ma la pratica generale ha voluto che obblighi soltanto a non confidare il segreto, se non a chi sia un amico ugualmente fidato, e imponendogli la stessa condizione. Così, d’amico fidato in amico fidato, il segreto gira e gira per quell’immensa catena, tanto che arriva all’orecchio di colui o di coloro a cui il primo che ha parlato intendeva appunto di non lasciarlo arrivar mai. Avrebbe però ordinariamente a stare un gran pezzo in cammino, se ognuno non avesse che due amici: quello che gli dice, e quello a cui ridice la cosa da tacersi. Ma ci son degli uomini privilegiati che li contano a centinaia; e quando il segreto è venuto a uno di questi uomini, i giri divengon sì rapidi e sì moltiplici, che non è più possibile di seguirne la traccia. Il nostro autore non ha potuto accertarsi per quante bocche fosse passato il segreto che il Griso aveva ordine di scovare: il fatto sta che il buon uomo da cui erano state scortate le donne a Monza, tornando, verso le ventitre, col suo baroccio, a Pescarenico, s’abbatté, prima d’arrivare a casa, in un amico fidato, al quale raccontò, in gran confidenza, l’opera buona che aveva fatta, e il rimanente; e il fatto sta che il Griso poté, due ore dopo, correre al palazzotto, a riferire a don Rodrigo che Lucia e sua madre s’eran ricoverate in un convento di Monza, e che Renzo aveva seguitata la sua strada fino a Milano.
Don Rodrigo provò una scellerata allegrezza di quella separazione, e sentì rinascere un po’ di quella scellerata speranza d’arrivare al suo intento. Pensò alla maniera, gran parte della notte; e s’alzò presto, con due disegni, l’uno stabilito, l’altro abbozzato. Il primo era di spedire immantinente il Griso a Monza, per aver più chiare notizie di Lucia, e sapere se ci fosse da tentar qualche cosa. Fece dunque chiamar subito quel suo fedele, gli mise in mano i quattro scudi, lo lodò di nuovo dell’abilità con cui gli aveva guadagnati, e gli diede l’ordine che aveva premeditato.
– Signore… – disse, tentennando, il Griso.
– Che? non ho io parlato chiaro?
– Se potesse mandar qualchedun altro…
– Come?
– Signore illustrissimo, io son pronto a metterci la pelle per il mio padrone: è il mio dovere; ma so anche che lei non vuole arrischiar troppo la vita de’ suoi sudditi.
– Ebbene?
– Vossignoria illustrissima sa bene quelle poche taglie ch’io ho addosso: e… Qui son sotto la sua protezione; siamo una brigata; il signor podestà è amico di casa; i birri mi portan rispetto; e anch’io… è cosa che fa poco onore, ma per viver quieto… li tratto da amici. In Milano la livrea di vossignoria è conosciuta; ma in Monza… ci sono conosciuto io in vece. E sa vossignoria che, non fo per dire, chi mi potesse consegnare alla giustizia, o presentar la mia testa, farebbe un bel colpo? Cento scudi l’uno sull’altro, e la facoltà di liberar due banditi.
– Che diavolo! – disse don Rodrigo: – tu mi riesci ora un can da pagliaio che ha cuore appena d’avventarsi alle gambe di chi passa sulla porta, guardandosi indietro se quei di casa lo spalleggiano, e non si sente d’allontanarsi!
– Credo, signor padrone, d’aver date prove…
– Dunque!
– Dunque, – ripigliò francamente il Griso, messo così al punto, – dunque vossignoria faccia conto ch’io non abbia parlato: cuor di leone, gamba di lepre, e son pronto a partire.
– E io non ho detto che tu vada solo. Piglia con te un paio de’ meglio… lo Sfregiato, e il Tiradritto; e va di buon animo, e sii il Griso. Che diavolo! Tre figure come le vostre, e che vanno per i fatti loro, chi vuoi che non sia contento di lasciarle passare? Bisognerebbe che a’ birri di Monza fosse ben venuta a noia la vita, per metterla su contro cento scudi a un gioco così rischioso. E poi, e poi, non credo d’esser così sconosciuto da quelle parti, che la qualità di mio servitore non ci si conti per nulla.
Svergognato così un poco il Griso, gli diede poi piu ampie e particolari istruzioni. Il Griso prese i due compagni, e partì con faccia allegra e baldanzosa, ma bestemmiando in cuor suo Monza e le taglie e le donne e i capricci de’ padroni; e camminava come il lupo, che spinto dalla fame, col ventre raggrinzato, e con le costole che gli si potrebber contare, scende da’ suoi monti, dove non c’è che neve, s’avanza sospettosamente nel piano, si ferma ogni tanto, con una zampa sospesa, dimenando la coda spelacchiata,
Leva il muso, adorando il vento infido,
se mai gli porti odore d’uomo o di ferro, rizza gli orecchi acuti, e gira due occhi sanguigni, da cui traluce insieme l’ardore della preda e il terrore della caccia. Del rimanente, quel bel verso, chi volesse saper donde venga, è tratto da una diavoleria inedita di crociate e di lombardi, che presto non sarà piu inedita, e farà un bel rumore; e io l’ho preso, perche mi veniva in taglio; e dico dove, per non farmi bello della roba altrui: che qualcheduno non pensasse che sia una mia astuzia per far sapere che l’autore di quella diavoleria ed io siamo come fratelli, e ch’io frugo a piacer mio ne’ suoi manoscritti.
L’altra cosa che premeva a don Rodrigo, era di trovar la maniera che Renzo non potesse più tornar con Lucia, né metter piede in paese; e a questo fine, macchinava di fare sparger voci di minacce e d’insidie, che, venendogli all’orecchio, per mezzo di qualche amico, gli facessero passar la voglia di tornar da quelle parti. Pensava però che la più sicura sarebbe se si potesse farlo sfrattar dallo stato: e per riuscire in questo, vedeva che più della forza gli avrebbe potuto servir la giustizia. Si poteva, per esempio, dare un po’ di colore al tentativo fatto nella casa parrocchiale, dipingerlo come un’aggressione, un atto sedizioso, e, per mezzo del dottore, fare intendere al podestà ch’era il caso di spedir contro Renzo una buona cattura. Ma pensò che non conveniva a lui di rimestar quella brutta faccenda; e senza star altro a lambiccarsi il cervello, si risolvette d’aprirsi col dottor Azzecca-garbugli, quanto era necessario per fargli comprendere il suo desiderio. « Le gride son tante! » pensava: « e il dottore non è un’oca: qualcosa che faccia al caso mio saprà trovare, qualche garbuglio da azzeccare a quel villanaccio: altrimenti gli muto nome ». Ma (come vanno alle volte le cose di questo mondo!) intanto che colui pensava al dottore, come all’uomo più abile a servirlo in questo, un altr’uomo, l’uomo che nessuno s’immaginerebbe, Renzo medesimo, per dirla, lavorava di cuore a servirlo, in un modo più certo e più spedito di tutti quelli che il dottore avrebbe mai saputi trovare.
Ho visto più volte un caro fanciullo, vispo, per dire il vero, più del bisogno, ma che, a tutti i segnali, mostra di voler riuscire un galantuomo; l’ho visto, dico, più volte affaccendato sulla sera a mandare al coperto un suo gregge di porcellini d’India, che aveva lasciati scorrer liberi il giorno, in un giardinetto. Avrebbe voluto fargli andar tutti insieme al covile; ma era fatica buttata: uno si sbandava a destra, e mentre il piccolo pastore correva per cacciarlo nel branco, un altro, due, tre ne uscivano a sinistra, da ogni parte. Dimodoché, dopo essersi un po’ impazientito, s’adattava al loro genio, spingeva prima dentro quelli ch’eran più vicini all’uscio, poi andava a prender gli altri, a uno, a due, a tre, come gli riusciva. Un gioco simile ci convien fare co’ nostri personaggi: ricoverata Lucia, siam corsi a don Rodrigo; e ora lo dobbiamo abbandonare, per andar dietro a Renzo, che avevam perduto di vista.
Dopo la separazione dolorosa che abbiam raccontata, camminava Renzo da Monza verso Milano, in quello stato d’animo che ognuno può immaginarsi facilmente. Abbandonar la casa, tralasciare il – mestiere, e quel ch’era più di tutto, allontanarsi da Lucia, trovarsi sur una strada, senza saper dove anderebbe a posarsi; e tutto per causa di quel birbone! Quando si tratteneva col pensiero sull’una o sull’altra di queste cose, s’ingolfava tutto nella rabbia, e nel desiderio della vendetta; ma gli tornava poi in mente quella preghiera che aveva recitata anche lui col suo buon frate, nella chiesa di Pescarenico; e si ravvedeva: gli si risvegliava ancora la stizza; ma vedendo un’immagine sul muro, si levava il cappello, e si fermava un momento a pregar di nuovo: tanto che, in quel viaggio, ebbe ammazzato in cuor suo don Rodrigo, e risuscitatolo, almeno venti volte. La strada era allora tutta sepolta tra due alte rive, fangosa, sassosa, solcata da rotaie profonde, che, dopo una pioggia, divenivan rigagnoli; e in certe parti più basse, s’allagava tutta, che si sarebbe potuto andarci in barca. A que’ passi, un piccol sentiero erto, a scalini, sulla riva, indicava che altri passeggieri s’eran fatta una strada ne’ campi. Renzo, salito per un di que’ valichi sul terreno più elevato, vide quella gran macchina del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava maraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin da bambino. Ma dopo qualche momento, voltandosi indietro, vide all’orizzonte quella cresta frastagliata di montagne, vide distinto e alto tra quelle il suo Resegone, si sentì tutto rimescolare il sangue, stette lì alquanto a guardar tristamente da quella parte, poi tristamente si voltò, e seguitò la sua strada. A poco a poco cominciò poi a scoprir campanili e torri e cupole e tetti; scese allora nella strada, camminò ancora qualche tempo, e quando s’accorse d’esser ben vicino alla città, s’accostò a un viandante, e, inchinatolo, con tutto quel garbo che seppe, gli disse: – di grazia, quel signore. – Che volete, bravo giovine?
– Saprebbe insegnarmi la strada più corta, per andare al convento de’ cappuccini dove sta il padre Bonaventura?
L’uomo a cui Renzo s’indirizzava, era un agiato abitante del contorno, che, andato quella mattina a Milano, per certi suoi affari, se ne tornava, senza aver fatto nulla, in gran fretta, ché non vedeva l’ora di trovarsi a casa, e avrebbe fatto volentieri di meno di quella fermata. Con tutto ciò, senza dar segno d’impazienza, rispose molto gentilmente: – figliuol caro, de’ conventi ce n’è più d’uno: bisognerebbe che mi sapeste dir più chiaro quale è quello che voi cercate -. Renzo allora si levò di seno la lettera del padre Cristoforo, e la fece vedere a quel signore, il quale, lettovi: porta orientale, gliela rendette dicendo: – siete fortunato, bravo giovine; il convento che cercate è poco lontano di qui. Prendete per questa viottola a mancina: è una scorciatoia: in pochi minuti arriverete a una cantonata d’una fabbrica lunga e bassa: è il lazzeretto; costeggiate il fossato che lo circonda, e riuscirete a porta orientale. Entrate, e, dopo tre o quattrocento passi, vedrete una piazzetta con de’ begli olmi: là è il convento: non potete sbagliare. Dio v’assista, bravo giovine -. E, accompagnando l’ultime parole con un gesto grazioso della mano, se n’andò. Renzo rimase stupefatto e edificato della buona maniera de’ cittadini verso la gente di campagna; e non sapeva ch’era un giorno fuor dell’ordinario, un giorno in cui le cappe s’inchinavano ai farsetti. Fece la strada che gli era stata insegnata, e si trovò a porta orientale. Non bisogna però che, a questo nome, il lettore si lasci correre alla fantasia l’immagini che ora vi sono associate. Quando Renzo entrò per quella porta, la strada al di fuori non andava diritta che per tutta la lunghezza del lazzeretto; poi scorreva serpeggiante e stretta, tra due siepi. La porta consisteva in due pilastri, con sopra una tettoia, per riparare i battenti, e da una parte, una casuccia per i gabellini. I bastioni scendevano in pendìo irregolare, e il terreno era una superficie aspra e inuguale di rottami e di cocci buttati là a caso. La strada che s’apriva dinanzi a chi entrava per quella porta, non si paragonerebbe male a quella che ora si presenta a chi entri da porta Tosa. Un fossatello le scorreva nel mezzo, fino a poca distanza dalla porta, e la divideva così in due stradette tortuose, ricoperte di polvere o di fango, secondo la stagione. Al punto dov’era, e dov’è tuttora quella viuzza chiamata di Borghetto, il fossatello si perdeva in una fogna. Lì c’era una colonna, con sopra una croce, detta di san Dionigi: a destra e a sinistra, erano orti cinti di siepe e, ad intervalli, casucce, abitate per lo più da lavandai. Renzo entra, passa; nessuno de’ gabellini gli bada: cosa che gli parve strana, giacché, da que’ pochi del suo paese che potevan vantarsi d’essere stati a Milano, aveva sentito raccontar cose grosse de’ frugamenti e dell’interrogazioni a cui venivan sottoposti quelli che arrivavan dalla campagna. La strada era deserta, dimodoché, se non avesse sentito un ronzìo lontano che indicava un gran movimento, gli sarebbe parso d’entrare in una città disabitata. Andando avanti, senza saper cosa si pensare, vide per terra certe strisce bianche e soffici, come di neve; ma neve non poteva essere; che non viene a strisce, né, per il solito, in quella stagione. Si chinò sur una di quelle, guardò, toccò, e trovò ch’era farina. « Grand’abbondanza », disse tra sé, « ci dev’essere in Milano, se straziano in questa maniera la grazia di Dio. Ci davan poi ad intendere che la carestia è per tutto. Ecco come fanno, per tener quieta la povera gente di campagna ». Ma, dopo pochi altri passi, arrivato a fianco della colonna, vide, appiè di quella, qualcosa di più strano; vide sugli scalini del piedestallo certe cose sparse, che certamente non eran ciottoli, e se fossero state sul banco d’un fornaio, non si sarebbe esitato un momento a chiamarli pani. Ma Renzo non ardiva creder così presto a’ suoi occhi; perché, diamine! non era luogo da pani quello. « Vediamo un po’ che affare è questo », disse ancora tra sé; andò verso la colonna, si chinò, ne raccolse uno: era veramente un pan tondo, bianchissimo, di quelli che Renzo non era solito mangiarne che nelle solennità. – E’ pane davvero! – disse ad alta voce; tanta era la sua maraviglia: – così lo seminano in questo paese? in quest’anno? e non si scomodano neppure per raccoglierlo, quando cade? Che sia il paese di cuccagna questo? – Dopo dieci miglia di strada, all’aria fresca della mattina, quel pane, insieme con la maraviglia, gli risvegliò l’appetito. « Lo piglio? » deliberava tra sé: « poh! l’hanno lasciato qui alla discrezion de’ cani; tant’è che ne goda anche un cristiano. Alla fine, se comparisce il padrone, glielo pagherò ». Così pensando, si mise in una tasca quello che aveva in mano, ne prese un secondo, e lo mise nell’altra; un terzo, e cominciò a mangiare; e si rincamminò, più incerto che mai, e desideroso di chiarirsi che storia fosse quella. Appena mosso, vide spuntar gente che veniva dall’interno della città, e guardò attentamente quelli che apparivano i primi. Erano un uomo, una donna e, qualche passo indietro, un ragazzotto; tutt’e tre con un carico addosso, che pareva superiore alle loro forze, e tutt’e tre in una figura strana. I vestiti o gli stracci infarinati; infarinati i visi, e di più stravolti e accesi; e andavano, non solo curvi, per il peso, ma sopra doglia, come se gli fossero state peste l’ossa. L’uomo reggeva a stento sulle spalle un gran sacco di farina, il quale, bucato qua e là, ne seminava un poco, a ogni intoppo, a ogni mossa disequilibrata. Ma più sconcia era la figura della donna: un pancione smisurato, che pareva tenuto a fatica da due braccia piegate: come una pentolaccia a due manichi; e di sotto a quel pancione uscivan due gambe, nude fin sopra il ginocchio, che venivano innanzi barcollando. Renzo guardò più attentamente, e vide che quel gran corpo era la sottana che la donna teneva per il lembo, con dentro farina quanta ce ne poteva stare, e un po’ di più; dimodoché, quasi a ogni passo, ne volava via una ventata. Il ragazzotto teneva con tutt’e due le mani sul capo una paniera colma di pani; ma, per aver le gambe più corte de’ suoi genitori, rimaneva a poco a poco indietro, e, allungando poi il passo ogni tanto, per raggiungerli, la paniera perdeva l’equilibrio, e qualche pane cadeva.
– Buttane via ancor un altro, buono a niente che sei, – disse la madre, digrignando i denti verso il ragazzo.
– Io non li butto via; cascan da sé: com’ho a fare? – rispose quello.
– Ih! buon per te, che ho le mani impicciate, – riprese la donna, dimenando i pugni, come se desse una buona scossa al povero ragazzo; e, con quel movimento, fece volar via più farina, di quel che ci sarebbe voluto per farne i due pani lasciati cadere allora dal ragazzo. – Via, via, – disse l’uomo: – torneremo indietro a raccoglierli, o qualcheduno li raccoglierà. Si stenta da tanto tempo: ora che viene un po’ d’abbondanza, godiamola in santa pace.
In tanto arrivava altra gente dalla porta; e uno di questi, accostatosi alla donna, le domandò: – dove si va a prendere il pane?
– Più avanti, – rispose quella; e quando furon lontani dieci passi, soggiunse borbottando: – questi contadini birboni verranno a spazzar tutti i forni e tutti i magazzini, e non resterà più niente per noi.
– Un po’ per uno, tormento che sei, – disse il marito: – abbondanza, abbondanza.
Da queste e da altrettali cose che vedeva e sentiva, Renzo cominciò a raccapezzarsi ch’era arrivato in una città sollevata, e che quello era un giorno di conquista, vale a dire che ognuno pigliava, a proporzione della voglia e della forza, dando busse in pagamento. Per quanto noi desideriamo di far fare buona figura al nostro povero montanaro, la sincerità storica ci obbliga a dire che il suo primo sentimento fu di piacere. Aveva così poco da lodarsi dell’andamento ordinario delle cose, che si trovava inclinato ad approvare ciò che lo mutasse in qualunque maniera. E del resto, non essendo punto un uomo superiore al suo secolo, viveva anche lui in quell’opinione o in quella passione comune, che la scarsezza del pane fosse cagionata dagl’incettatori e da’ fornai; ed era disposto a trovar giusto ogni modo di strappar loro dalle mani l’alimento che essi, secondo quell’opinione, negavano crudelmente alla fame di tutto un popolo. Pure, si propose di star fuori del tumulto, e si rallegrò d’esser diretto a un cappuccino, che gli troverebbe ricovero, e gli farebbe da padre. Così pensando, e guardando intanto i nuovi conquistatori che venivano carichi di preda, fece quella po’ di strada che gli rimaneva per arrivare al convento.
Dove ora sorge quel bel palazzo, con quell’alto loggiato, c’era allora, e c’era ancora non son molt’anni, una piazzetta, e in fondo a quella la chiesa e il convento de’ cappuccini, con quattro grand’olmi davanti. Noi ci rallegriamo, non senza invidia, con que’ nostri lettori che non han visto le cose in quello stato: ciò vuol dire che son molto giovani, e non hanno avuto tempo di far molte corbellerie. Renzo andò diritto alla porta, si ripose in seno il mezzo pane che gli rimaneva, levò fuori e tenne preparata in mano la lettera, e tirò il campanello. S’aprì uno sportellino che aveva una grata, e vi comparve la faccia del frate portinaio a domandar chi era.
– Uno di campagna, che porta al padre Bonaventura una lettera pressante del padre Cristoforo.
– Date qui, – disse il portinaio, mettendo una mano alla grata.
– No, no, – disse Renzo: – gliela devo consegnare in proprie mani.
– Non è in convento.
– Mi lasci entrare, che l’aspetterò.
– Fate a mio modo, – rispose il frate: – andate a aspettare in chiesa, che intanto potrete fare un po’ di bene. In convento, per adesso, non s’entra -. E detto questo, richiuse lo sportello. Renzo rimase 1ì, con la sua lettera in mano. Fece dieci passi verso la porta della chiesa, per seguire il consiglio del portinaio; ma poi pensò di dar prima un’altra occhiata al tumulto. Attraversò la piazzetta, si portò sull’orlo della strada, e si fermò, con le braccia incrociate sul petto, a guardare a sinistra, verso l’interno della città, dove il brulichìo era più folto e più rumoroso. Il vortice attrasse lo spettatore. « Andiamo a vedere », disse tra sé; tirò fuori il suo mezzo pane, e sbocconcellando, si mosse verso quella parte. Intanto che s’incammina, noi racconteremo, più brevemente che sia possibile, le cagioni e il principio di quello sconvolgimento.
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