Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “I ricordi del Capitano d’Arce” (1891)
Novelle di Giovanni Verga
– Badate! Egli sa tutto! –
La signora Ginevra era pallidissima lasciando cadere quelle parole a fior di labbra, rapidamente, mentre fingeva di rispondere con un sorriso al profondo inchino di Alvise Casalengo, allungandogli, nel passare, una stretta di mano breve e confidenziale. Egli, inquieto, cercò cogli occhi il marito di lei nell’altra sala.
Ma non poté chiederle altro. La folla li separò tosto. Ella, sorridente sempre, scollacciata sino al dorso, scintillante di gioie, aggiravasi fra i tavolinetti preparati per la cena, chinandosi a odorare i fiori, ad ammirare tutte quelle graziose ventoline colorate; rispondeva gaiamente ai saluti, agli auguri, alle strette di mano. In fondo alla sala, nel gran specchio inclinato sul caminetto, si mirò un istante ad assicurare la stella di brillanti che le tremolava fra i capelli, pallidissima, quasi la sfumatura livida che le accerchiava i begli occhi si fosse allargata a un tratto per tutto il viso delicato.
– Sola? – esclamò la contessa Maio. – Libera e sola? Che miracolo!
– Sì – rispose Ginevra collo stesso tono allegro. – Una volta ogni fin d’anno almeno!… Ho lasciato Silverio in anticamera… coll’ammiraglio… Sono fuggita… –
Le parole e le labbra ridevano. Ma gli sguardi erravano inquieti, come cercando ancor essi. Alvise, sempre vicino all’uscio, stava a discorrere col suo amico Gustavo, tranquillamente, lisciandosi i baffi tratto tratto per dissimulare una ruga sottile che gli si contraeva di tanto in tanto all’angolo della bocca, e l’ansietà acuta che balenava suo malgrado negli occhi, i quali volgevansi spesso verso il salotto d’ingresso. Dietro a un vecchietto calvo, dinanzi a cui tutti s’inchinavano, entrò il marito della bella Ginevra, col fiore all’occhiello, salutando gli amici, baciando la mano alle signore, solamente un po’ duro e un po’ rigido nel vestito nero, con un lieve aggrottar di sopracciglia appena incontrò lo sguardo fermo e rispettoso di Casalengo, il quale lo aspettava sull’uscio, piantandosi militarmente.
– Ah, lei, tenente?… Ha terminato quel rapporto? –
Casalengo stava per rispondere, quando la signora Gemma, ad una parola dettale rapidamente sottovoce dalla sua amica Ginevra, la quale aveva seguìto ansiosa quell’incontro, con occhi che luccicavano intensi, quasi tutti i suoi lineamenti si alterassero all’improvviso, mentre passava macchinalmente il fazzolettino sulle labbra, attraversò la sala rapidamente, per andare a impadronirsi del Comandante.
Poscia tornando trionfante al braccio di lui, le chiese:
– Ha caldo?
– No… Sì, veramente… Un po’…
– Sei pallida. Fa troppo caldo qui, cara Ginevra.
– No, no… Non importa… –
La buona Gemma, intanto, aveva sequestrato il Comandante nel vano di una finestra, tenendolo a bada con delle chiacchiere, interrompendosi con delle risate argentine che squillavano in mezzo al brusìo della sala, facendo di tutto per sedurre quell’orso, saettando di tempo in tempo alla Ginevra un’occhiata lucente che voleva dire: – Che diavolo è successo? – Indi prese il braccio dell’Ammiraglio e lo condusse verso il canapè, stordendo anche lui col suo cicaleccio allegro, continuando a guardar come distratta, come a caso, la sua amica e il marito di lei ch’era preso adesso nel circolo della contessa, voltandosi più guardinga verso il salotto dov’era andato a cacciarsi Casalengo insieme al suo camerata Gustavo. Infine Gemma abbandonò l’Ammiraglio alle altre signore, e passò nel salotto anche lei. Ginevra li vide che discorrevano animatamente con Casalengo. Egli coll’aria grave, rispondendo a monosillabi, Gemma diventata seria, con un interesse che tradivasi dai minimi gesti, per quanto fosse abituata a padroneggiarsi in pubblico. Gustavo s’era dileguato al par di un’ombra.
Una domanda a lei rivolta la fece trasalire in quel punto: Serravalle che le chiedeva un valzer e insisteva per averne la promessa: – Le fo paura? Non vuol vedermi neppure? E’ ancora in collera, dopo tanto tempo? –
Essa lo guardò un istante come trasognata, battendo le palpebre, col bel sorriso pallido che stentava a rifiorire sui lineamenti disfatti: – Ah, lei?… No! Mai più… Del resto non si ballerà…
– Sì, sì, dopo cena, me l’ha detto la contessa… per cominciare l’anno nuovo… Cominci l’anno con una buona azione, lei!… Non ce n’è un’altra che balli il valzer come lei!… Dica di sì! dica di sì!… un giro solo!… l’ultimo…
– Mai più! mai più!… Sarebbe il primo dell’anno nuovo, se mai… Non voglio passare tutto l’anno a svenirmi nelle sue braccia… Sul serio, lei gira troppo in furia… Mi fa girare il capo… Si rammenta?
– Ah! per l’amor di Dio… Non me lo rammenti, piuttosto! Non me lo faccia perdere il capo, lei!… Ha detto di sì!… Consegno qui la sua promessa!… –
Ella rideva tutta quanta, come una bambina, a scatti, con una fossetta sulla gota, con certi movimenti che facevano sbocciare gli omeri delicati dalla scollatura del vestito. Altri giovanotti le fecero ressa intorno, mentre Serravalle se ne scappava segnando nel taccuino il valzer che le aveva quasi strappato a forza. Ciascuno la supplicava d’accordargli un posto al suo tavol’inetto, nel va e vieni degli invitati che sedevano a cena a piccoli gruppi di tre o quattro, con delle esclamazioni giulive, degli scrosci di risa, dei nomi barattati da un tavolino all’altro, un fruscìo di seta, un luccicare di gemme, delle spalle nude che si chinavano con movimenti graziosi. Ella tenendo testa a tutti quanti, schermendosi col ventaglio, ribattendo i frizzi e le galanterie, spiava sottecchi ogni atto, ogni gesto di suo marito e di Casalengo, il quale stava cercando il suo posto anche lui. I loro sguardi si evitarono d’accordo, non appena s’incontrarono, per caso. Il Comandante, dando il braccio alla contessa, le parlava nel viso, allegro e disinvolto anche lui. La signora Ginevra, ritta dinanzi al posto dove aveva letto il suo nome sul cartoncino litografato, cavava adagio adagio le mani scintillanti di anelli dall’apertura del guanto che le saliva sino al gomito, avvolgendoli mezzi intorno al polso… Gemma, che aveva potuto raggiungerla finalmente senza dar nell’occhio, le chiese sottovoce, brevemente:
– Cos’è stato?
– Nulla… Ti dirò poi… –
Ella così dicendo s’era chinata a leggere i nomi dei suoi compagni di tavola. Ma scorgendo quello di Alvise di faccia a lei, un’attenzione delicata della contessa, che studiavasi di mettere insieme bene i suoi invitati, non seppe reprimere un moto come di sgomento.
– No, no… per carità… –
Gemma colse a volo il significato di quelle poche sillabe: – Casalengo, faccia il piacere… venga qui, con me… Mi liberi da Sansiro, che è una vera persecuzione… –
Sansiro, il quale dovette prendere il posto di Alvise Casalengo, di faccia alla signora Ginevra, fece un inchino troppo profondo, che gli valse un’occhiata fulminante di lei. Però in mezzo all’allegria generale lui solo rimaneva straordinariamente grave e taciturno, senza la più piccola freddura, senza permettersi con la bella Ginevra una sola delle spiritosaggini che facevano scappare le signore, quasi avesse voluto protestare col suo contegno contro l’accusa della signora Gemma. Affettava di volgere le spalle a Casalengo; chinava gli occhi sul piatto se la signora Ginevra volgeva i suoi verso il tavol’inetto vicino. Mostravasi servizievole e premuroso; ma discretamente, con un certo sussiego, parlando poco e di cose serie. Bruni, che era il terzo, faceva lui per tutti e tre.
Nondimeno la festa languiva in quell’angolo della sala, malgrado gli sforzi di Casalengo che stuzzicava e tormentava peggio di Sansiro la signora Gemma. La povera Ginevra s’era fatta seria, quasi sentisse pesare di tanto in tanto sulla sua graziosa testolina gli sguardi acuti del marito, il quale dal canto suo battevasi i fianchi per tener desta l’allegria nel crocchio della contessa. Gli uomini fingevano di essere occupatissimi nel fare onore alla cena, le signore sfioravano appena un’ala di fagiano o accostavano il bicchiere alle labbra. Sembrava che un’invincibile musoneria si propagasse da quel cantuccio per tutta la sala, senza che una parola fosse stata detta, senza che un’indiscrezione fosse sfuggita, senza che un gesto avesse tradito il segreto, quasi l’istinto di tutti quei complici mondani li avesse avvertiti insieme del dramma che celavasi sotto il sorriso. Il Comandante, vuotando l’uno dopo l’altro dei gran bicchieri d’acqua, animava però da solo il circolo della padrona di casa, la quale coll’occhio vigile intorno, col sorriso amabile per tutti quanti, guardava di tratto in tratto l’orologio posto di faccia a lei sul caminetto. A un dato momento, quand’essa toccò il bicchiere del Comandante con un dito di champagne spumante in fondo al suo, gli invitati si alzarono frettolosi. Degli auguri, dei baci, degli accenni, dei saluti s’incrociarono da un punto all’altro, da un tavolino all’altro. Un muovere di seggiole, uno scomporsi di gruppi, una cordialità generale e un po’ chiassosa che voleva essere sincera. Dei sorrisi che si cercavano, e degli sguardi che si spiavano a vicenda. La signora Ginevra aveva chinato i suoi per tornare ad infilarsi i guanti. Gemma, nello scambiare con lei il bacio d’augurio, le disse all’orecchio:
– Bada, Ginevra! Non ti far scorgere. Hai tutti gli occhi addosso!
– Ah, Dio mio! Dio mio! –
Poscia mentre s’avviavano a braccetto verso il pianoforte, dove una folla di signore assediava l’Ammiraglio che sorbiva lentamente il caffè, essa balbettò:
– Tieni a bada mio marito… per carità.. due minuti soli… –
E siccome Gemma insisteva per sapere cosa fosse avvenuto, infine, aggiunse:
– Ti dirò poi… ti dirò poi… –
L’Ammiraglio narrava una storiella allegra, con tutti i punti e le virgole, senza lasciarsi intimidire dal coro delle proteste, dalle esclamazioni di rimprovero, dai ventagli che lo minacciavano. Gemma facendo coro alle sue amiche, coll’indignazione anch’essa nella bocca sorridente, era riuscita ad insinuarsi fra il Comandante e l’uscio del salottino dove si fumava: – Che orrore!… Siete un orrore!… tutti quanti! Anche lei, Silverio! Sì, anche lei che trova da ridere a coteste infamie! – Col busto inarcato, volgendo indietro la testolina accesa, ella seguiva colla coda dell’occhio la sua amica che aveva l’aria di fuggire lei pure Gustavo e Serravalle troppo insistenti dietro di lei. – No, no, Ginevra! non stare ad ascoltarli!… Sono diventati impossibili!… tutti quanti! –
Così dicendo tornò a prendere il braccio dell’amica, giusto sull’uscio del salotto in fondo al quale Casalengo stava fumando una sigaretta, appoggiato alla spalliera della poltrona.
– Che vuoi fare, Ginevra? No, per l’amor di Dio! Sta’ attenta! Tuo marito ha un certo viso questa sera!
– Bisogna ch’io gli parli… assolutamente!… Non ho avuto tempo d’avvertirlo… Se mio marito riesce a trovarsi solo con lui prima che io l’abbia prevenuto nascerà qualche disgrazia!… –
La poveretta era convulsa mentre balbettava quelle parole, sottovoce, coll’aria più indifferente che poteva, nello stesso tempo che accostava il capo ad ammirare la bella croce di brillanti sul petto dell’amica. – Ah, Dio!… –
Suo marito entrava in quel momento nel salottino, diritto, calmo, arrotolando fra le dita una sigaretta. Poi si chinò per accenderla a quella di Casalengo, mentre la moglie in fondo alla sala, sentivasi venir meno, colla visione di quei due uomini che si trovavano faccia a faccia negli occhi stral’unati. La contessa, che vedeva ogni cosa dal suo posto, si mosse subito, e passò immediatamente nella stanza dove fumavasi.
– Ah, Dio mio! – balbettò la povera Ginevra.
– Via, mia cara!… Vedi!… E’ lì la contessa. Non c’è pericolo pel momento… –
Essa, interrottamente, con un soffio di voce, le labbra smorte e convulse, gli sguardi erranti qua e là, disse cosa era stato.
– L’ordinanza l’ha visto venire ieri sera… tardi… Ha detto ogni cosa a mio marito… io non ho avuto tempo di suggerire una scusa a lui… –
Intanto davano mano a sgombrar la sala per far quattro salti. I giovani aiutavano, allo scopo di impietosire la padrona di casa e strapparle un sì. Ma la contessa tappavasi le orecchie per non lasciarsi sedurre, ostinata, inflessibile, tossendo in mezzo al fumo delle sigarette, diceva sempre di no, ridendo e colle lagrime agli occhi.
– No, no… Dite anche di no, voialtri signori mariti!… Aiutatemi!… Lo faccio per voialtri… E’ tardi… Me ne dispiace, miei cari giovinotti, ma questo non era nel programma… Non voglio farmi tanti nemici… – Il Comandante Silverio l’appoggiava ridendo. Anzi, si avvicinò alla moglie, per farle osservare dolcemente ch’erano circa le due, che essa aveva l’aria un po’ stanca, che si sarebbe affaticata troppo e sarebbe stata una vera imprudenza per lei così delicata… così cagionevole… Invano Gemma frapponeva le sue preghiere, il suo ventaglio, l’impegno con Serravalle. La sua amica, in un momento che nessuno poteva udirla, l’aveva supplicata:
– Non mi lasciare andare!… Ho paura!… –
I giovanotti muovevano cielo e terra. Infine, come la vinsero, appena risuonarono le prime battute festanti del valzer, la bella peccatrice si lasciò prendere dal ballo, tutta, diventata tutt’altra donna da un momento all’altro, col viso acceso, gli occhi ebbri, il seno palpitante, spensierata, gaia, una bambina, dimenticando ogni cosa, passando da un ballerino all’altro senza un’esitazione o una preferenza. Quando incontrò la mano di Alvise, febbrile e parlante, nella contraddanza, essa gli porse due dita inguantate, come a tutti gli altri. Casalengo ballava anche lui disperatamente, senza riposarsi un minuto, senza lasciare il tempo a un pensiero o ad una parola molesta di intromettersi fra lui e le ballerine che andava invitando una dopo l’altra, quasi indovinando e obbedendo a una parola d’ordine. A un dato punto, nel bel mezzo d’uno sfrenato galoppo, la signora Gemma gli buttò sul viso poche parole rapide.
Le signore s’accomiatavano infine, ancora anelanti, un po’ rosse, coll’allegria e l’eccitazione nelle parole e nel gesto. Alvise Casalengo, che era venuto a salutare fino in anticamera la signora Ginevra, disse tranquillamente al marito di lei che l’aiutava ad infilare la pelliccia:
– Comandante, per terminare quel rapporto che mi ha ordinato mi occorrono alcuni schiarimenti… Ero venuto a chiederglieli… ieri sera…
– Ah! – rispose Silverio piantandogli gli occhi in faccia. – Va bene. Mi spiegherà poi… –
Alvise vide biancheggiare fugacemente le sottane di lei che montava in carrozza senza neppure osare di volgere il capo, e rimase inquieto sulla porta, lasciando spegnere il sigaro, colpito dallo sguardo del marito, il quale esprimeva chiaramente di non credere alle sue parole, e dal tono brusco di quella risposta che gli faceva immaginare ciò che sarebbe accaduto più tardi in casa Silverio.
Accadde che a quattr’occhi, nel disordine profumato dello spogliatoio, dove la Ginevra, poveretta, s’era lasciata prendere dalle convulsioni, discinta, coi bei capelli sciolti, fra le lagrime calde e le calde parole, e il dottore per giunta, chiamato in fretta e in furia, e ch’era lì sempre fra i piedi, a tastarle polso e ordinare calmanti, il marito dovette convincersi che Casalengo era proprio venuto a cercarlo per un motivo innocentissimo, e il giorno dopo, quando Alvise venne a prendere gli ordini come al solito, in tenuta bianca, un po’ pallido soltanto per la stanchezza della notte, gli disse battendogli sulla spalla:
– Quel benedetto rapporto ci ha dato un gran da fare, a lei e a me! Se ne sbrighi in due parole, e mi dica subito quali schiarimenti le occorrono, senza bisogno di tornare a incomodarsi stasera -.