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Marta Cuscunà sul palco del teatro Astra in E’ bello vivere liberi”
Bell’esempio di teatro civile all’Astra con l’opera prima di una giovane artista
Con “E’ bello vivere liberi” Marta Cuscunà racconta la storia di Ondina Peteani, prima staffetta partigiana d’Italia, poi deportata
di Alessandra Agosti
Vicenza
Segnatevi questo nome: Marta Cuscunà. Scrivetelo in grande e marcatelo bene con l’evidenziatore. Perché di lei si parlerà, e tanto. A ricordarla saranno di certo gli spettatori che sabato sera, nell’ambito della stagione “Gusti Astrali”, hanno lasciato con il cuore spaccato in due il Teatro Astra di Vicenza, dopo aver assistito a “E’ bello vivere liberi”, così come avevano fatto venerdì gli studenti delle superiori e delle serali.
Opera prima della giovane artista di Monfalcone, testimonianza esemplare di come dovrebbe essere il Teatro Civile, E’ bello vivere liberi è uno spaccato di storia letto attraverso i ricordi della friulana Ondina Peteani, classe 1925, prima staffetta partigiana d’Italia a 18 anni e a 19 deportata ad Auschwitz. Sue le parole scelte come titolo, scritte nel 2003, poco prima di morire, quando un medico le chiese di chiudere gli occhi e di buttare giù la prima frase che le passava per la mente.
Marta Cuscunà ha fatto una scelta e l’ha espressa forte e chiara, infischiandosene di prudenza ed equilibrismi politico-storici e dando un calcio a qualsiasi tentativo di revisionismo. Ha conosciuto la Resistenza come tutti gli under 30: a scuola, magari senza nemmeno approfondire troppo quell’argomento, sempre più delicato e scomodo a mano mano che gli anni passano e il numero dei testimoni diretti si assottiglia. Ma la differenza è qui: ha cominciato a farsi domande, a voler sapere. Ed è questo, più di ogni altro, il messaggio che rivolge al suo pubblico, a quello dei giovani in particolare: prendete una posizione, quella che ritenete più giusta, e non siate passivi. Lo ha ribadito anche al termine dello spettacolo quando, grazie a una bella iniziativa de La Piccionaia, affiancata da Carlo Presotto ha raccontato il suo percorso fino a questa esperienza, tra grandi maestri in ambito teatrale e lucida consapevolezza e impegno in quello umano.
Sotto il profilo artistico, la Cuscunà parte da un’accurata ricerca storica e la declina attraverso i linguaggi più diversi, dal teatro di narrazione a quello di figura. Dal riso al pianto, lo spettacolo segue la vicenda umana di Ondina, nome di battaglia Natalìa. All’inizio ti ritrovi a ridere, e quasi te ne vergogni: ma è giusto così, perché leggero e sorridente era anche l’animo di Ondina all’inizio, quando tutto sembrava un’avventura, vissuta con emozione ed incoscienza. Ma pian piano il sorriso si smorza. Sua sorella Santina, 14 anni, innamorata di un fascista, diviene la causa di rastrellamenti e fucilazioni. Ondina è coinvolta in prima persona nell’uccisione di un traditore, “Blecchi”, e la vicenda è raccontata – come facevano i partigiani – con uno spettacolino di burattini, qui significativamente concluso dal levarsi di una mano insanguinata.
Poi, il tempo esaltante della “Brigata Proletaria”, tragicamente interrotto dalle bombe tedesche. Infine, un carro bestiame porta Ondina, con tante altre donne, ad Auschwitz. Ma c’è ancora spazio per le illusioni: meglio che in risiera, si dicono; senti, c’è anche un’orchestrina… e quell’odore nell’aria sarà immondizia bruciata. A questo punto Marta Cuscunà non racconta più, perché un essere umano non basta a raccontare la disumanità dello sterminio. Una piccola baracca di lamiera diviene anch’essa una sorta di teatrino dove l’attrice, le braccia infilate in guanti di gomma simili a quelli di una macabra incubatrice, muove un pupazzo scheletrico, bianco, dai grandi occhi cerchiati di nero. Un silenzio irreale è rotto solo dal fischiare di un vento gelido che parla di morte, di annientamento fisico e morale, dallo scrocchiare sinistro di quei guanti di gomma, dall’urlo mostruoso di un camino che risucchia le vite.
Il pupazzo è spogliato, rasato, gettato a terra, timbrato. Non è più Ondina, ma il numero 81672. “Resistenza” assume allora un significato al di sopra della politica e della storia. Diviene “continuare a esistere”: magari cantando con un filo di voce un’aria musicale dell’altra vita, quella di prima, quella vera.