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27 Gennaio 2019Archivio 2009 su Ondina Peteani
27 Gennaio 2019Nell’atrocità del lager mi sentii annientata: avevo smesso di esistere
da Il piccolo di Trieste – 26 gennaio 2006
GIORNATA DELLA MEMORIA 2006
Arrestata dalla Wehrmacht a 19 anni a Vermegliano, nel Monfalconese
Ricorre domani il Giorno della memoria, ricorrenza voluta al Parlamento italiano per non dimenticare la tragedia della Shoah e la deportazione degli ebrei nei lager nazisti. Pubblichiamo, quale contributo, questa testimonianza della prigioniera politica Ondina Peteani, prima staffetta partigiana d’Italia, catturata diciannovenne, su delazione, da una pattuglia della Wehrmacht l’11 febbraio 1944 a Vermegliano (Ronchi dei Legionari). Ondina aveva iniziato l’attività clandestina di opposizione al regime del fascista con più di un anno di anticipo sulla data ufficiale dell’inizio della Resistenza italiana. Era allora una ragazza di nemmeno 17 anni che piombò direttamente nella pancia dell’Orco. La testimonianza di Ondina è depositata alla direzione nazionale dell’Associazione nazionale ex deportati di Milano.
FORNI CREMATORI
Di notte nelle baracche cera
il riverbero delle fiammate
che uscivano dai camini
ma non dovevamo saperlo
che sterminavano in massa
SOPRAVVIVENZA
Tre regole: imparare subito in
tedesco e in polacco il proprio
numero; non bere mai l’acqua,
ubbidire subito agli ordini
per evitare le botte degli aguzzini
«Si partì dunque il 31 maggio all’alba nei vagoni bestiame. Il convoglio era scortato da carabinieri e da tedeschi. Il comandante doveva aver ancora qualche parvenza di umanità, perché alla prima fermata oltre confine ci permise di tenere i vagoni con le porte in fessura; almeno si respirava un po’. Talvolta si arrivava persino a scambiare qualche parola con gli uomini (se la fermata era di notte, cosicché nessuno ci avrebbe visto e messo nei guai gli scortatori).
In una stazione (credo Monaco) i vagoni con gli uomini vennero staccati (e inviati d Dachau) e noi proseguimmo alla volta di Auschwitz. Al quinto giorno di viaggio, vennero a chiudere i vagoni e a sigillarli: si stava arrivando nella zona dei lager, controllata dalle SS. Se durante il viaggio eravamo state abbastanza allegre (specie noi più giovani) e chiacchierone, in quel momento diventammo serie e cominciammo a parlarci sottovoce: davanti a noi avevamo intravisto una desolata pianura sotto un cielo piatto, appestata da un odore che noi attribuimmo alla bruciatura di immondizie(!).
Mentre il convoglio avanzava lentamente, cominciammo a vedere i primi lager, arrampicandoci fino agli alti finestrini del vagone. Durante il viaggio avevamo intravisto prigionieri al lavoro sulle ferrovie ed erano vestiti con la tipica «zebra» e vedendo nel campo vestiti variopinti, pensammo che ci avrebbero lasciati i nostri. Per giunta (era domenica pomeriggio) sentimmo un’orchestrina che suonava e la cosa ci rallegrò alquanto: «Ragazze, si potrà anche ballare». Il nostro ottimismo crollò ben presto. Appena arrivate alla stazione ci fecero scendere ed in un primo tempo ci dissero di lasciare tutto nei vagoni, poi – visto che non eravamo ebree – ci permisero di riprenderci la nostra roba. Sapemmo successivamente che l’avrebbero catalogata e riposta, mentre per gli ebrei veniva subito requisito tutto.
Poco prima era arrivato un treno di ebrei ungheresi e sulla panchina erano rimasti gli ultimi: i vecchi e i non autosufficienti. C’era lì un camion e questi venivano presi per le braccia e per le gambe e gettati sul camion tra grida di dolore e orribili tonfi. Quello che ci raggelò fu il vedere che questo tremendo compito era affidato a dei prigionieri.
Ci inquadrarono in fila per cinque ed io mi sentivo un po’ strana: avevo la sensazione che non ero io quella cui stavano accadendo quelle cose, mi pareva di viverle dall’esterno. E’ una cosa difficile da comprendere e spiegare. Ci misero in fila per 5 e ci condussero attraverso un intricato dedalo di stradine. Ai lati c’erano montagnole di stampelle, di occhiali, di giocattoli ben divisi secondo il senso dell’ordine teutonico. Poi, arrivate in una baracca, ci ordinarono di spogliarci ed il nostro pudore di farlo davanti ai soldati fu ben presto vinto dalle violente bastonate che cominciarono a volare. Ci distribuirono dei vestiti provvisori. A me toccò un pastrano da uomo con una grande stella gialla e, mettendo le mani in tasca, trovai una pipa con un borsellino di tabacco. Mi sentii rabbrividire pur non conoscendo ancora la sorte del proprietario di quel cappotto. Fummo costrette a lasciare lì la nostra roba. Ci tolsero (a chi l’aveva) ogni monile, orologi, catenine e anche le fedi nuziali delle maritate.
Altro attraversamento di posti strani, che ora, vuoi per la distanza nel tempo, vuoi per la sensazione di incubo che ci pervadeva, non sono in condizioni di descrivere. Ci introdussero in una baracca che sulla soglia aveva una vaschetta piena di liquido disinfettante o disinfestante, nella quale bisognava mettere i piedi prima di entrare. Ora mi suona così ironico quel procedimento, come quello di raderci tutti i peli e di rapare quelle che avevano qualche lendine di pidocchi, quando poi nel campo imperversavano il tifo, la dissenteria, le cimici e i pidocchi! Ci fecero fare la doccia calda ma brevissima tanto che molte di noi uscirono con i capelli ancora pieni di sapone e così rimasero tutto il giorno perché di acqua, fredda o calda che sia, neanche a parlarne. Poi, sempre nude, ci fecero attendere per delle ore, finalmente poi arrivarono i vestiti. Erano vecchie vesti usate passate all’autoclave senza lavarle, un paio di mutandoni a righine (almeno quelli erano nuovi!) e un capo di biancheria che era a volte una sottoveste, a volte una camicia da notte, a volte una maglia (anche queste vecchie e usate). Infine un paio di scarpe (sempre vecchie) o zoccoli. Poi in un’altra baracca per la «timbratura», cioè il tatuaggio del numero e la consegna dello stesso numero che dovevamo cucire sulla manica del vestito, assieme al triangolo, rosso per noi «politiche». Il tutto con brevissime spiegazioni date in lingua tedesca o polacca (quando la spiegazione non era solamente uno spintone): se non capivi, dovevi comunque arrangiarti.
Durante le ore di attesa, alcune prigioniere che erano già da tempo nel lager, riuscirono a parlarci brevemente dalle finestre e a chiederci notizie della nostra città e della situazione in generale. Da loro apprendemmo, in quei rapidi colloqui, l’abc della sopravvivenza: imparare rapidamente il numero in lingua tedesca e polacca; obbedire rapidamente agli ordini, per non essere violentemente pestate; non bere assolutamente l’acqua del campo perché non era potabile, cioè infetta; infine dell’esistenza dei crematori, del loro funzionamento, di cui era proibito parlarne: dovevamo fingere di non sapere niente. (…)
Incominciammo la giornata lavorativa subito. Ci portarono in una parte del lager dove c’era una strada agli inizi di costruzione. Alle più giovani e alte affidarono delle mazze per rompere la pietra, le altre dovevano spalare il terreno e portare le pietre da rompere. La kapò che ci prese in consegna era una tedesca e dal triangolo rosso capimmo che era una prigioniera politica. E da lei ci sentimmo sempre gridare forse degli insulti ma non bastonò mai nessuna di noi, cosa che fece invece una sua aiutante, con particolare accanimento, ma lei non interveniva mai in questi casi. Dico questo per far capire che chi voleva sopravvivere là dentro doveva indurirsi l’animo e non intervenire mai in favore dei prigionieri. Eppure Monika (così si chiamava) aveva mantenuto quel tanto di umanità per sfogarsi urlandoci parolacce (forse lo faceva per farsi sentire dagli altri kapò che era cattiva?) ma aveva cura che le prigioniere del suo «komando» ricevessero il «Zulage». cioè un supplemento settimanale di cibo per il lavoro pesante. che consisteva in un pezzo di pane e salame al giovedì. A mezzogiorno distribuivano il pranzo che consisteva in una ciotola di zuppa e dopo mezz’ora si tornava al lavoro. Per i primi giorni, dovemmo sorbirla senza posate. Dopo sapemmo che bisognava «organizzarci».
Ecco un termine usato molto là dentro: quello che non avevi dovevi «organizzarlo», che poteva dire comprarlo con il tuo pranzo o con un pezzo di pane, oppure, se riuscivi, potevi anche rubarlo, perciò quando riuscivi ad averlo, te lo portavi addosso, ben legato anche a dormire. E legata alla cintura dovevi tenere la tua ciotola, altrimenti addio tè al mattino e zuppa a mezzogiorno! Nel lager c’era di tutto, dovevi comprarlo!: sapone, potevi avere un vestito migliore, pettine. Spazzolino da denti era troppo lussuoso. Potevi comprare forbicine, aghi, fazzoletti ed un sacco di altre cose, ma allora saresti morta di fame, oppure bisognava cercare di rubare.
Comunque, tornando alla giornata in lager, alle cinque di sera si finiva il lavoro e poi in fila alla baracca per l’ulteriore appello, quasi sempre più lungo del mattino. Era esasperante, affrante com’eravamo dal durissimo lavoro della giornata ed affamate, dover stare qualche ora ferme sull’attenti e guai a parlare, altrimenti schiaffoni e calci. Finalmente anche questo finiva e poi c’era la cena: un pane (quella specie di mattone tedesco) e circa 20 grammi di margarina o di salame. Il pane era diviso in quattro parti (più avanti il pane sarà per sei e verso la fine, per otto). Alla sera si riusciva ad avere qualche momento libero. Si andava nelle altre baracche a cercare qualche connazionale, si cercava di lavarsi un po’ con quell’acqua color ruggine, dato che al mattino bisognava far presto per l’appello. La domenica pomeriggio era di riposo, se non venivano a beccarti per qualche lavoro extra che naturalmente non potevi rifiutare di fare.
Ho avuto la sventura di conoscere il «Revier» o infermeria. Vi sono stata accompagnata perché febbricitante (avevo 40°). C’era una specie di accettazione e dentro c’era – fra le altre – una dottoressa polacca che parlava italiano. Mi chiese se conoscevo il motivo della febbre, se provenivo da zone malariche, se avevo diarrea e alle mie risposte negative optò per una febbre di tipo reumatico (la più probabile, dato che Auschwitz era stata costruita in una zona paludosa e quando pioveva, non era un modo di dire lo sprofondare nel fango fino alle ginocchia). Sul momento non c’era posto, ma aspettai poco perché appena morta una ricoverata mi dissero di occupare quel letto (ovviamente senza cambiare materasso e di lenzuola neanche parlarne). Riuscii almeno a girare il materasso, mi diedero una polverina (un antipiretico?) e lì fui lasciata fino all’indomani. Quando vennero le infermiere per misurarmi la febbre approfittai di un loro momento di distrazione, per vedere e, visto che avevo 38°, scossi il termometro fino a 36°. Dissi che ero sfebbrata e che potevo tornare al lavoro. Ero terrorizzata all’idea di trascorrere ancora una notte in quell’allucinante girone infernale, tra urla e lamenti, che avevano poco di umano, ormai. E poi avevo paura di rimanere perché avevo sentito che spesso e volentieri lì dentro si effettuavano vari esperimenti. (…) Ben presto dovemmo abituarci a tutto e cercare solamente di sopravvivere. Da parte mia continuavo ad avere quella sensazione che non ero io a subire quella vita e mi continuavo a vedere dall’esterno. Difatti non soffrivo, né inorridivo di quello che mano a mano venivo a vedere e a sapere; l’orrore è venuto dopo, quando ormai ero a casa. Ricordo che un giorno fui prelevata per andare a trainare la botte che trasportava le fognature del «Revier». Bisognava andare a vuotarla sopra i letamai, sistemati lontano dal campo. Là vidi un gruppo di prigionieri che doveva spargere il letame sopra quello che avevamo portato. Dal numero sul vestito capii che erano ebrei italiani. Anche se ormai la loro età era indefinibile, si capiva ancora che erano giovani ed io, fingendo di raccattare il letame, mi avvicinai e chiesi, stando bassa, a quello che mi era più vicino se erano italiani e da quanto tempo erano là. Lui alzò la testa e guardò dalla mia parte, ma non me, il suo sguardo andò oltre e non mi rispose. Dio, quella faccia! Era ormai in fase terminale e dopo, quando ci allontanammo, mi voltai e vidi che li stavano bastonando e loro continuavano a muoversi come spinti dalla forza d’inerzia e non sentivano più neanche le bastonate. Non fui più destinata a quel lavoro, ma sono certa che se fossi tornata dopo pochi giorni, avrei trovato degli altri su quel letamaio.
Poi le infami selezioni. Mettevano in fila quelle da esaminare e il medico (non sempre era un dottore, a volte anche un semplice SS) con un cenno le ridistribuiva in due file ed era chiaro quale era la fila da eliminare! Le donne destinate a quelle file non si davano a smaniare o a disperarsi. Quasi tutte vi andavano come inebetite, in silenzio e quel silenzio era più tremendo di qualunque pianto. Gli aguzzini avevano raggiunto il loro scopo: era bestiame da macello, vi andava senza protestare. Talvolta alla sera c’era il «Lagersperrer», cioè l’ordine di ritiro nelle baracche. Lo facevano quando avevano da eliminare le occupanti di una intera baracca e noi non dovevamo vedere quelle donne attraversare il campo ed uscire dalla parte dei crematori. Alla notte avevi il riverbero sulle finestre delle enormi fiammate che si sprigionavano dai camini. Così fu eliminato un intero campo di zingari. In una notte furono uccisi centinaia di nomadi. Di questi si parla pochissimo e ciò mi indigna, c’è del razzismo nel fatto di ignorare che anche queste popolazioni sono state perseguitate e che fanno parte dell’olocausto. (…)
Dopo poche settimane del nostro arrivo cominciò a farsi sentire in modo cronico la fame fino al punto che eri già disposta a prenderti qualche bastonatura per arrivare a ripulire i mastelli della zuppa. C’erano già i segni di indebolimento nelle compagne che erano meno forti; cercavamo di sostenerci, infondendoci la certezza che ormai i tedeschi erano prossimi a cedere e che tutto sarebbe finito ben presto, ci esortavamo perciò a tener duro ancora per poco, altrimenti c’era il pericolo di ridursi a larve come ne vedevamo in giro: non avevano un etto di carne addosso, camminavano lentamente e parlavano con una vocina appena udibile, con le gambe rigate dai loro escrementi che ormai non potevano trattenere. Forse mi ripeterò, ma anche qui quando nell’autunno corse la voce che ci avrebbero trasferite in un altro campo, ne fui contenta: peggio di così era impossibile! Purtroppo non tutte partirono con noi e di loro non ebbi più notizie. Per il viaggio ci distribuirono i vestiti a zebra, ben puliti e caldi (c’era rischio che per strada qualcuno ci vedesse) che ci fecero regolarmente restituire all’arrivo a Rawensbruck. Da qualche indiscrezione sapemmo che stavano lentamente evacuando il campo di Auschwitz perché il fronte sovietico stava avanzando e questo ci rese anche ottimiste. Uscendo dalla stazione, mi voltai e vidi l’infame portone con la scritta «Arbeit macht frei». Bene, mi dissi, forse ora ce la faremo».
(Trieste, aprile 1989)