Ondina combatte “sul terreno”
27 Gennaio 2019Canto quinto Orlando furioso di Ludovico Ariosto
27 Gennaio 2019Testo integrale della legge n. 211 del 20 luglio 2000 che istituisce per il 27 gennaio di ogni anno il “Giorno della memoria”.
Istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.
La Camera dei deputati e il Senato della Repubblica hanno approvato;
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
PROMULGA
la seguente legge
Art. 1
La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetti i perseguitati.
Art. 2
In occasione del “Giorno della memoria” di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico e oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere.
La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.
Data a Roma, addì 20 luglio 2000
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
CIAMPI
Presidente del Consiglio dei Ministri
AMATO
_________________________
Saluto del Ministro BORDON alla Conferenza triestina del gennaio 2004:
Roma, 26 gennaio 2004
Caro Gianni,
se la situazione politica nazionale, che tu ben conosci,
non mi blocasse a Roma, con le emergenze che incalzano
quotidianamente, questo pomeriggio avrei desiderato essere con
voi nella mia Trieste per onorare chi seppe in epoche assai
più dure e difficili non perdere mai di vista il vero
significato dell’amore per la libertà e per la giustizia
sociale.
Avrei in particolare avuto piacere di ricordare Ondina,
la tua meravigliosa mamma, che, prima staffetta partigiana,
compì per intero un percorso di coraggio e di inaudita
sofferenza rovinando, come lei stessa diceva,
irrimediabilmente il suo fisico, chiudendo orizzonti che per
una giovane donna sarebbero stati naturali e che lei
sintetizzò nella drammatica frase:
“Non so cosa sia il sogno.
Dal ’44 so benissimo cosa sia l’incubo”.
Ma per fortuna, perfino aldilà di quanto fosse
umanamente possibile, non fu così, se è vero come è vero che
lo stesso straordinario impegno di quella giovane staffetta
partigiana lo ritrovammo intatto nel dopoguerra,
nella ricostruzione, nell’ impegno politico, nell’attività
divulgativa ed educativa che coniugò, e non casualmente, la
formazione dei giovanissimi con l’impegno verso la terza età.
Ondina libera e saggia, dinamica ed appassionata.
Presenza costante e continua della militanza sociale,
politica, civile e dell’antifascismo della nostra regione.
Domani sarà la giornata della memoria ed è anche grazie
a persone come Lei, grazie alla Sua caparbia volontà di
ricordare e di far sapere, se questo giorno è un intreccio
presente e forte che non può e non deve venire meno.
Willer Bordon
_________________________
Intervista a Liliana Segre.
L’obiettivo dei nazisti era cancellare dal mondo gli ebrei, uomini o donne che fossero, e tutti, nell’indicibile orrore dello sterminio, seguirono lo stesso percorso di fame, sfruttamento e morte. Tuttavia riflettere sulla peculiarità delle sofferenze e delle sopraffazioni patite da uomini e donne può aiutarci a superare il neutro della testimonianza e a comprendere le differenti traiettorie esistenziali di individui segnati da una diversa educazione, da diversi ruoli sociali, da diversi modi di percepire e affrontare la separazione, l’umiliazione, la perdita. “Nel Lager ho sentito con molta forza il pudore violato, il disprezzo dei nazisti maschi verso donne umiliate. Non credo assolutamente che gli uomini provassero la stessa cosa” dice Liliana Segre, deportata nel Lager femminile di Auschwitz-Birkenau all’età di tredici anni. “Qualunque delinquente comune aveva diritto di vita e di morte su noi donne ebree, generatrici di un popolo odioso. E tuttavia noi di questo, allora, non eravamo consapevoli. Sapevamo la sopraffazione, la vergogna, la brutale umiliazione che ci spogliava della nostra umanità, e con essa anche della nostra femminilità.”
Mi ha sempre colpito l’immagine usata da Primo Levi quando paragona le donne di Auschwitz a rane d’inverno.
Sì, il secondo passo del celebre comando con cui Primo Levi si rivolge ai lettori di Se questo è un uomo: “Considerate se questa è una donna/ senza capelli e senza nome/ Senza più forza di ricordare/ Vuoti gli occhi e freddo il grembo/ Come una rana d’inverno.” Una rana d’inverno fa pensare a una bestiolina che rabbrividisce nuda.
Mettere nudo un uomo davanti a un altro uomo è senz’altro una cosa umiliante e terribile. L’uno è vestito, magari in divisa, con le armi; l’altro è nudo, inerme, in stato di completa debolezza. Eppure mi pare che la donna nuda davanti all’uomo armato sia sottoposta a un oltraggio ancora maggiore. Ti insegnano a stare sempre composta, a vestire accollata, a provare pudore del corpo. Poi, di colpo, nello stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, nello stesso giorno in cui scendi da un treno della deportazione e arrivi in un posto che non conosci, che non sai nemmeno collocare geograficamente su una cartina, ti ritrovi nuda insieme ad altre disgraziate che, come te, non capiscono niente di quello che sta succedendo. Non c’è nulla, lì attorno, che non faccia paura. Sei terrorizzata, e intanto i soldati passano sghignazzando, oppure si mettono in un angolo discosto a osservare la scena di queste donne che vengono rasate, tatuate, già umiliate, torturate per il solo fatto di essere lì, nude.
vedevamo prigioniere scheletrite che dovevano tenere alto un masso per ore
La spoliazione della femminilità, la rasatura, la perdita delle mestruazioni, sono state un percorso comune a tutte le donne.
Sì, ne abbiamo risentito tutte moltissimo. Io soffrivo parecchio per le mestruazioni e ricordo che uno dei primi pensieri arrivando lì dentro era stato: e quando arriveranno le mestruazioni come farò? Non c’è stato questo problema perché, vuoi per lo spavento, vuoi per l’assoluta mancanza di cibo, vuoi perché nell’orribile zuppa mettevano, come si diceva, del bismuto, a quasi nessuna vennero più le mestruazioni, man mano che il corpo perdeva le sue forme originali e si trasformava in uno scheletro di vecchia. D’un tratto, là dove c’era il seno non c’è più niente o, in certe donne, solo un po’ di pelle cascante. Le ossa delle anche ti bucano la pelle, premendo come spunzoni sul tavolaccio dove sei costretta a dormire senza poterti voltare, incuneata nei corpi delle altre. Ti guardi le gambe e ti sembra impossibile che ti possano sorreggere. Hai la testa rasata, non hai uno specchio, non hai nulla. Sei una persona che non ha più nulla. Non possiedi altro che quei pochi stracci che ti metti addosso. Ricordo che avevo una giacca con la fodera mezzo strappata, e quella fodera l’ho usata tutta per andare in gabinetto. Anche queste cose, giorno dopo giorno, vanno tutte a scapito della tua femminilità, del tuo essere una donna che lotta per non abbrutirsi completamente. Quando non hai un fazzoletto, come fai a soffiarti il naso? Erano tutti passaggi che portavano via un pezzo di te.
Come si poteva, in quelle condizioni, tentare di mantenere una sorta di integrità?
Ti racconto di quando mi hanno rasato i capelli. E’ una storia che racconto molto raramente. Come si vede nell’unica fotografia che è rimasta di me a tredici anni, qualche mese prima dell’arresto, avevo una massa enorme di capelli neri, ricci, ribelli, proprio come mia figlia oggi. Quando sono stata deportata ad Auschwitz erano già due mesi che non potevo lavarmi la testa, però avevo un pettine e una spazzola e cercavo di tenerli ravviati. Il giorno del nostro arrivo a Birkenau vedo le altre che venivano rasate, ed ero già pronta con la testa giù, rassegnata al fatto che anche i miei capelli sarebbero caduti lì, su quel pavimento. Passa una sorvegliante SS e dice alla prigioniera addetta alla rasatura di non tagliarmi i capelli, perché erano così belli che sarebbe stato un peccato. Mi danno un fazzoletto da legarmi in testa. Di tutto il gruppetto sceso dal treno, in quel gelo di Birkenau, eravamo rimaste trenta ragazze non mandate a morte; tutte le altre rasate, e io con i miei capelli.
se il masso cadeva, allora raddoppiava il tempo.
Non più un pettine, non più una spazzola, non più una doccia per tutto il tempo della quarantena. Avere i capelli era un segno distintivo. Tutte le kapò, tutte le prigioniere più anziane che evidentemente avevano dei meriti, tutte le politiche avevano i capelli; eravamo noi a non averli. Dopo quindici giorni mi scelgono per lavorare nella fabbrica Union, e intanto la testa mi prudeva sempre di più. Erano due o tre giorni che andavo in fabbrica, e mi grattavo mentre ero al tavolo – mi avevano appena insegnato che cosa dovevo fare con certi pezzi di munizioni – quando mi sento camminare qualcosa sulla faccia, proprio sulla guancia. Tocco, prendo in mano, è un pidocchio, quell’immondo insetto che è il pidocchio e che io non avevo mai visto nella mia vita. La prigioniera vicino a me – non era italiana, non so chi fosse – rapata, come ha visto il pidocchio ha chiamato la kapò e questa mi ha fatto subito uscire, prendendomi il numero. Non sapevo che cosa mi sarebbe successo. La mattina dopo mi hanno mandato in una baracca che si chiamava la Sauna, dove mi hanno rapato a zero. La mia testa completamente glabra era tremenda solo da toccare. Sono stata lì tutto il giorno. Non so se posso dire che sia stato il giorno più brutto della mia vita, perché ce ne sono stati tanti, ma certamente uno dei peggiori. Sono rimasta da sola per ore, nuda, aggrappata a una piccola stufa in quella stanza gelida, enorme, con una finestra rotta. Fuori c’era una tormenta di neve. Era febbraio. Non c’era da sedersi, non c’era da mangiare, nessuno che mi dicesse una parola. Ero veramente a un punto di non ritorno psichico quando è entrata un’altra ragazza, anche lei nella mia stessa situazione, appena rapata, in attesa che le disinfestassero i vestiti. Poteva essere cecoslovacca, o polacca. Certamente non ci capivamo, perché nessuna delle due aveva ancora imparato il tedesco. Poteva avere sedici anni. E volevamo così tanto comunicare, che ci facevamo dei segni, ci salutavamo, ma non sapevamo come rivolgerci l’una all’altra. Alla fine abbiamo trovato il latino. Mea familia pulchra est. Mea patria pulchra est. E poi non so cos’altro ci dicessimo: il mio cuore è triste… bello che tu sia qui… Pochissime frasi imbastite a fatica in quella specie di esperanto dei colti, che abbiamo continuato a ripetere infinite volte, perché dire la mia casa è lontana, la famiglia è bella, il mio cuore è triste, in quel contesto, nella nostra nudità – lì sì, proprio rane, mentre continuavano a passare i soldati che si sganasciavano dalle risate, che ci prendevano in giro – ci dava una grande gioia.
dovevamo ricoprire questi giacigli a suon di bastonate, con un’unica coperta…
Ti sei mai data una spiegazione riguardo a questo episodio? Lasciarti i capelli è stato un semplice arbitrio?
La spiegazione al momento non l’ho capita, ma poi dopo, ripensandoci, era semplice: in quello che avveniva non c’era assolutamente mai una logica, anche se all’apparenza tutto era preordinato. Nei giacigli dove dormivamo in cinque o sei, si agitavano gli insetti più schifosi. Erano sui nostri corpi, nelle cuciture dei vestiti. E nel campo passavano dei topi spaventosi, enormi, che si nutrivano di rifiuti, di morti, di tutto. C’era una sporcizia profonda, incredibile, ma noi dovevamo ricoprire questi giacigli a suon di bastonate, con un’unica coperta in ottimo stato, che doveva avere la piega fatta in un certo modo, perfettamente geometrico. Quando ho capito tutto questo, e cioè che sotto la coperta ci poteva essere qualunque schifezza, ma che sopra tutto doveva avere un aspetto perfetto, ho trovato la risposta a un sacco di cose. Entrando nella baracca, subito all’ingresso, c’era la stanzina della capo baracca, con le tendine con i volant. Dentro si intravedeva il divanoletto coperto di cinz. Poi andavi più avanti e c’era una carriola che di notte si riempiva degli escrementi, e più oltre i giacigli a tre piani, luridi, pieni di gente piagata, malata, urlante. Noi, nelle condizioni psicofisiche in cui eravamo, per andare al lavoro dovevamo marciare cantando, e passare davanti all’orchestrina delle donne violiniste sulla porta del Lager, sia che si andasse a morte, sia che si andasse a lavorare. Vedi che è un po’ tutto la stessa cosa?
Quali strategie di sopravvivenza hai adottato?
Adesso che sono nonna e che mi rivedo lì come ero allora, mi dico: quante scelte ho fatto da sola, come sono stata triste, come sono stata matura, come sono stata ingenua, come ho sfidato determinati pericoli senza neanche capirli. Nessuna mi ha suggerito come comportarmi, ho capito da sola di dover fare tutto quello che stava in me per non farmi notare, soprattutto quando non ho più avuto i capelli e sono diventata molto più uguale alle altre. Anche se avere i capelli era uno status symbol, non averli mi rendeva ancora più invisibile. D’altra parte non avrei avuto alcuna capacità di mantenere uno status symbol, perché non capivo cosa mi dicevano, ed ero così assolutamente giovane… e poi io sono una mite, non avrei mai potuto prevaricare nessuno. Una nullità sono stata sempre, e una nullità sono rimasta, però ho sempre fatto in modo di non essere nessuno. Non piangere, non ridere, non star male. Ho avuto degli ascessi, la febbre, ma non sono mai andata a dire a nessuno che stavo male, e a tredici anni non è stato facile. Qualche anno fa ho incontrato un politico che era stato anche lui ad Auschwitz e mi ha detto, ti ricordi la Vistola? La Vistola? Io non l’ho mai vista, la Vistola. A parte il fatto che noi facevamo un percorso in cui non si andava vicino al fiume, ma se anche ci fossi stata, io la Vistola non l’avrei neanche guardata, perché mi guardavo sempre i piedi. Avevo un’idea perfetta di come erano fatti i miei zoccoli, ma quello che mi circondava era talmente orribile che io non guardavo. Avevo sempre paura di non ritrovare la mia baracca quando uscivo dalla doccia, che era in un’altra baracca un po’ discosta. Andavo dietro a qualcun’altra, perché anche dopo mesi, soprattutto d’inverno, quando c’era la neve, non riconoscevo i posti.
pensavo di essere quella stellina, di non essere lì, di essere libera
Era tutto uguale, baracche uguali, nessuno ti dava una risposta, non si poteva stare in giro. Andavo a testa bassa dietro a un’altra. Era troppo per me, capisci? Volevo mantenere il mio cervello funzionante, pensavo sempre ad altre cose, lungo la strada magari ripercorrevo tutta la trama di un film che avevo visto. Mi toglievo da lì, non so come dirti.
Una volta hai raccontato che immaginavi di essere una stella, e che questo ti ha salvato la vita.
Sì, la stellina è stata importante. Infatti io ho sempre delle stelline, come questo ciondolo che porto al collo, perché me le regalano. Quando c’era sereno la ritrovavo nel cielo, e pensavo di essere quella stellina, di non essere lì, di essere libera. Non avevo certo dei manuali di sopravvivenza, né mai avrei pensato che ne avrei avuto bisogno, però i metodi per sopravvivere mentalmente li ho sperimentati tutti. Quando, molti anni dopo, ho letto Bettelheim, in certe cose non mi sono assolutamente riconosciuta, soprattutto nella violenza che sostiene si sviluppi in chi è passato attraverso queste esperienze. Io sono assolutamente il contrario di una persona violenta. Sono una persona di pace, non ho mai cercato vendette, non sarei mai stata capace di fare nulla di violento neanche contro il mio carnefice. Non ho sviluppato questi meccanismi di autodifesa psicologica, però tanti altri sì. Proibirmi i ricordi, soprattutto. Dopo sì, dopo i ricordi mi hanno aggredito per tutta la vita, ma appena arrivata lì dentro avevo già capito che non potevo permettermeli. La nostalgia era un’arma terribile nei nostri confronti, perché come si fa a ricordare e a sopravvivere senza impazzire?
Vi scambiavate delle ricette.
Spesso i ragazzi delle scuole mi domandano di che cosa parlassimo nel Lager. Credono che tra noi prigioniere facessimo discorsi molto elevati, che analizzassimo la nostra situazione, che cercassimo di capire i meccanismi dell’odio contro gli ebrei, e io mi sono sempre resa conto di deluderli nella mia risposta, ma le prigioniere non facevano discorsi aulici. Ci sarà certamente stata qualcuna che li avrà fatti, ma non quelle disgraziate con cui stavo io. Quello che racconto sempre è che, man mano che i corpi diventavano scheletri, man mano che i crampi si facevano più forti, immaginavamo di mangiare, e facevamo una specie di gara in cui ognuna inventava il pranzo più buono, ed era tutto un immaginarsi, a seconda del luogo di provenienza, montagne di spaghetti, di crauti, di palacinche. Soprattutto i dolci. Nella nostra fantasia creavamo torte ricchissime, piramidi di bigné con la crema, la panna, il cioccolato, ci aggiungevamo qualunque cosa. Oppure dicevamo: se riusciremo a tornare, io ti invito. Questa era una cosa ricorrente: io ti invito a casa mia e ti faccio questo e poi quello e poi quell’altro… Adesso che siamo vecchie, io e Luciana Sacerdote, che sta a Genova e che era con me ad Auschwitz, qualche volta ci incontriamo e andiamo a mangiare al ristorante insieme, e ogni volta ci diciamo: io ti invito, e mangiamo questo e quell’altro. E poi una ha mal di stomaco, l’altra sta attenta a non ingrassare. Siamo vecchie e la fame non è quella di allora, però ce lo ricordiamo sempre.
Quindi, pur nella solitudine di cui parlavi prima, ci sono state delle relazioni significative.
Guarda, lei era con sua sorella, erano un duo autosufficiente. La sorella aveva dieci anni più di me, poverina, è morta subito dopo la liberazione. Certamente, essendo tre ragazze abbastanza giovani che provenivano da famiglie agnostiche, borghesi, tutte e tre con lo stesso tipo di educazione, ci siamo trovate più che con altre, e poi abbiamo lavorato nella stessa fabbrica. Altre italiane che sono arrivate insieme a noi sono state mandate altrove. C’era anche Graziella Cohen, una ragazza di Roma, analfabeta, che veniva da una famiglia di ambulanti. E’ rimasto un discreto legame ma, devo dire la verità, io ero molto più giovane di loro eppure ero estremamente più matura. Loro erano più vaghe, in un certo senso anche più incoscienti, e poi io non mi volevo attaccare. Volevo bene anche a Laura, poverina, che si è ammalata molto presto di cuore, era uno scheletro gonfio, le caviglie gonfie, il collo gonfio… Ma quello era uno dei miei meccanismi di sopravvivenza: i distacchi non li potevo sopportare, e allora temevo i legami stretti. Sicuramente se avessi incontrato una Goti Bauer sarebbe stato diverso… Goti era una spalla su cui piangere. Goti è una persona assolutamente eccezionale in qualunque contesto. Che la si incontri in cima al Monte Bianco o all’inferno – com’era quello – lei è un dono. Le persone assolutamente eccezionali, anche in quella situazione, ti potevano dare, ma gli altri, noi comuni mortali, noi che non abbiamo la ricchezza spirituale che ha una Goti, o che hanno avuto altre, come si capisce da diari come quelli di Etty Hillesum o di Anna Frank… Là dove sei un essere qualunque con altri esseri qualunque a cui capita una cosa di questo genere, pretendere di trovare la grande umanità, la generosità, la disponibilità per l’altro sarebbe chiedere molto. Io non l’ho chiesta, ma neanche l’ho data. Eravamo delle isole, capisci? Proprio delle isole… Sai, quelle isole che ci sono in mezzo agli oceani, attorno alle quali, per paura che le onde spazzino via il faro, si costruiscono delle muraglie, dei contrafforti. Così eravamo noi. Io me l’immagino così la mia mente, la mia anima, com’era allora. Per non farmela portar via, forse.
Parliamo invece delle donne dall’altra parte.
Non so perché, avevo sempre visto l’uomo come carnefice. Mio padre era stato arrestato da uomini. Quando ero stata in prigione, i secondini erano uomini. Solo nel carcere di Varese e di Como era stata una donna carceriera a buttarmi nella cella, ma per il resto nella mia testa erano sempre gli uomini quelli che esercitavano violenza. Invece nel Lager femminile di Birkenau, dove erano rinchiuse sessantamila donne, c’erano tutte le gerarchie femminili. Per me è stato terribile vedere che le efferatezze più straordinarie venivano compiute da donne su altre donne. Erano forse peggio degli uomini, per quello che ho visto. Non per nulla alcune SS donne sono state condannate a morte dopo la guerra.
Le kapò erano prese tra le assassine delle carceri…
Loro me la ricordavo perché l’avevo vista ad Auschwitz. Eravamo le pariah del campo, noi triangoli gialli. Le altre categorie di prigioniere – delinquenti comuni, prostitute, non parliamo delle politiche – avevano qualunque diritto su di noi, potevano farci qualsiasi cosa. Le kapò erano prese tra le assassine delle carceri, tra quelle che avevano fatto le cose più atroci, in modo che potessero tranquillamente bastonare a morte una prigioniera che non obbedisse ciecamente agli ordini. Al di sopra delle kapò c’erano le SS donne, che avevano stivaloni con un puntale di ferro, ufficialmente per non consumare la suola, ma in realtà per sferrare calci più violenti.
Quando tornavamo dal lavoro, vedevamo ai lati della strada principale del campo donne prigioniere scheletrite che dovevano tenere alto un masso, per ore. Questa era tra le punizioni più consuete. E se il masso cadeva, allora raddoppiava il tempo. Venivamo trattate con una violenza infinita. Ho preso tanti schiaffi e pugni senza sapere neanche perché. Passavi e ti tiravano un ceffone da voltarti la faccia. E poi, d’un tratto, queste sorveglianti tedesche si trasformavano davanti ai maschi SS in femmine che sbattevano gli occhi, sorridenti. A quei tempi l’approccio col maschio era assolutamente più sottile, ma inequivocabile, e questa doppia faccia era impressionante. Erano degli studi che non avevo la maturità, la cultura, e neanche il tempo di fare. Non sto parlando del tempo scandito dalle ore, ovviamente. Non avevo il tempo perché dovevo sopravvivere. Eppure erano dei personaggi da studiare a fondo. Nella donna devo dire che questo comportamento mi faceva molto effetto, così come mi ha fatto molto effetto sapere che ci sono state – io non le ho conosciute personalmente, ma Goti sì – anche delle kapò ebree. E Goti, che ha questa nobiltà d’animo eccezionale di cui parlavo prima, diceva, sai, anche condannare una persona è molto difficile, perché quando una invece di stare lì dentro sei mesi, un anno, come siamo state noi, ce ne sta cinque, come si deve trasformare per sopravvivere giorno dopo giorno? Per me è difficile giudicare, perché allora, in un certo senso, anche la prigioniera che rubava i vestiti all’altra, o le scarpe, avendo necessità di scambiarli con una fetta di pane, non era colpevole. E invece era estremamente colpevole. Una che in quella situazione ti ruba una cosa senza la quale non puoi sopravvivere è estremamente colpevole. Andare senza scarpe nella neve poteva significare morire di polmonite. Non lo so, non lo posso neanche immaginare, perché a me non hanno mai rubato nulla.
Ci sono persone che ti tornano in mente?
Quando ero a San Vittore entravano continuamente nuove persone prese con le retate, parlo sempre del quinto raggio in cui c’erano gli ebrei.Un giorno arriva un certo Peppino Levi di Milano, un amico di mio papà. Era un bellissimo uomo, trentottenne. Io non l’avevo mai visto, o perlomeno non me lo ricordavo. Forse lo avevano preso in montagna, perché era abbronzato, il ritratto della salute, muscoloso, sportivo, aitante. Avevo tredici anni, l’età in cui si cominciano a guardare i ragazzi con un occhio diverso. Questo era un uomo, ma sentivo che mi piaceva, anche se in un modo assolutamente infantile. Entra e dice subito a mio papà, Alberto, mica ci faremo portare via da qui come pecore, dobbiamo assolutamente fuggire. Ogni giorno prendeva appunti sugli orari delle sentinelle, calcolava l’altezza del muro, rimuginava su come rompere il vetro e saltare giù dal muro, e ogni giorno veniva con un foglio a spiegare i suoi piani a mio padre, e mio padre rispondeva sempre, ancora ancora fossi solo, lo farei, ma con la bambina… Credo che ci avrebbero sparato sul muro, intendiamoci, ma Peppino Levi rimase tanto male. Arriva il giorno della deportazione e ci portano via. Ci caricano su vagoni diversi. Non l’ho più visto, neanche all’arrivo. Passa un anno. Viene gennaio, l’evacuazione dal Lager, la Marcia della Morte che abbiamo fatto in 56mila. Pochissimi sono arrivati a destinazione e io, non so come, sono stata tra questi. In uno spostamento tra un Lager e un’altro, forse eravamo partite da Ravensbrück, ci fanno entrare in una struttura di passaggio. Eravamo in uno stato di sporcizia inenarrabile e, sempre per quelle cose di cui era incomprensibile il motivo, decidono che tutte dovevamo passare alla disinfestazione prima di entrare nell’altro Lager. Ci fanno entrare in una costruzione molto grande in cui c’erano degli uomini prigionieri, vestiti a righe, con quella pompa del fleet, quella per dare il disinfettante sulle viti. Dovevano disinfettarci la testa, le ascelle e il pube, dove nel frattempo erano cresciuti un po’ di peli. Chi mi ha fatto questo lavoro? Io nuda, scheletro, e lui ridotto da non dire, tanto che poi è morto? Peppino Levi. Peppino Levi era il prigioniero adibito alla fila dove mi trovavo io. Era il febbraio del ’45, era passato più di un anno. Ci siamo riconosciuti. Mi vengono ancora i brividi a pensarci. Mi aveva visto con i miei ricci, vestita ancora normale, e adesso ero uno scheletro con un fagotto penzolante dal braccio. E lui, da quell’uomo muscoloso che era, uno scheletro, anche lui. Obbligato a farmi quel lavoro. Quei tre spruzzi di disinfettante. Ci siamo guardati, solo un attimo. Liliana. Peppino. Sarebbe stato meglio se avessimo saltato quel muro. Tutto qui. Sono passata oltre. Non l’ho più visto. Qualcuno mi ha detto che è morto a Mauthausen.
Figli dell’Olocausto: essere segnati da una ferita non rimarginabile
Ricordo che una volta, dopo pochi giorni, sono uscita con un mio zio, un fratello di mia mamma che si era salvato in Svizzera e che mi accompagnava forse al cinema… Mi ha guardato e mi ha detto come sei conciata? Sei brutta. Stai malissimo. Io volevo essere accettata, bella o brutta che fossi. Il desiderio di essere decente è venuto dopo. Al momento ero viva, ed era già una cosa così straordinaria. Che cosa mi importava di essere mal vestita? Avrei voluto essere morta, veramente. Avevo tanto lottato per essere viva, per tornare, per non essere uccisa, per sperare, sperare, sperare. Tutte le mie difese erano cadute, e niente e nessuno era come me lo immaginavo. Non avevo più la mia casa, non avevo più i miei oggetti, non avevo più quelle persone di cui non posso neanche parlare da quanto la sofferenza è acuta, anche dopo tanti anni. Tutto un mondo che mi doveva accettare. Non avevo neanche il conforto di appartenere a una famiglia che mi avesse trasmesso dei valori religiosi. Ero un essere disgraziato che voleva morire, che riteneva una gran disgrazia non essere morta là. Sono stati degli anni molto duri in cui non so che cosa avrei potuto diventare, forse una disadattata mentale. Poi invece, piano piano, prima di tutto lo studio, e poi la fortuna immensa di incontrare mio marito, che ha dieci anni più di me e che era uno di quei seicentomila soldati che hanno detto no. Un cattolico che era stato preso dopo l’8 settembre in Grecia, portato in Germania dove ha fatto sette campi – che non sono stati di sterminio, sono stati di concentramento – ma sapeva bene che cosa voleva dire, e che è uno di quelli che sono rimasti volontariamente nel campo per non aver aderito alla Repubblica. Ci siamo innamorati, e quando ho avuto vent’anni ci siamo sposati. Ho avuto la fortuna di diventare mamma, non una ma tre volte. Sono diventata all’apparenza una donna normale, e in fondo anche abbastanza nella sostanza, perché io mi sento normale. Sì, ci sono delle cose che anche adesso mi fanno molta impressione, proprio a livello visivo, il fuoco, certi odori, la ciminiera, il treno merci. Ci sono tante cose di questo tipo, però nel complesso faccio una vita normale e la continuo a fare. Adesso poi, da dieci, undici anni sono diventata una donna pubblica, tra virgolette, perché mi sono messa a fare la testimone, ma prima ero una donna normale che lavora, che ha una sua casa, una sua famiglia. Una donna di pace.
Com’è il rapporto con tua figlia?
E’ splendido, perché mia figlia è splendida. Tutti e tre i miei figli hanno molto risentito di avere una madre con questo bagaglio di passato, ma lei che è l’ultima e che, essendo femmina, sta molto più con me, a un certo punto ha molto sofferto della consapevolezza di ciò che ho passato. E’ stata sette anni in analisi, ha dovuto fare un duro lavoro per arginare la sua enorme sensibilità. D’altra parte molti psicanalisti sanno che cosa significhi aiutare i sopravvissuti, i loro figli e anche quelli di terza generazione; sanno benissimo che cosa significhi essere figli dell’Olocausto. Significa essere segnati da una ferita non rimarginabile, anche senza aver vissuto in prima persona lo sterminio. Ci sono tanti modi di rispondere a queste storie familiari: c’è il rifiuto, c’è l’identificazione, c’è il volere a tutti i costi compensare il tuo amato di quello che non ha avuto. Mia figlia mi vorrebbe proteggere anche da un moscerino, è sempre pronta: ci sono io, ci sono io, ci sono io, mi dice sempre.
Hai raccontato ai tuoi figli ciò che ti è accaduto, oppure c’è una trasmissione che passa per altre vie che non sono la parola?
Credevo di non aver mai parlato di questo argomento con loro, però quello che ho vissuto è venuto fuori mille volte, in mille modi, dal mio numero sul braccio al fatto che a tavola non si doveva mai dire questo non mi piace. Ho paura di tante cose, del buio, di stare da sola. Evidentemente le ferite non si trasmettono solo con le parole. Mia figlia è tra i fondatori dell’associazione Figli della Shoah, che ha proprio questo scopo, trasmettere la memoria della Shoah, ma anche dare sostegno alle persone segnate da uno stesso dolore: essere figli di noi sopravvissuti. Tutti e tre i miei figli si sono documentati, hanno approfondito, e sono dei grandi difensori, dei grandi paladini della loro madre, ma con lei c’è questa straordinaria unione. Non che io ami meno i miei figli maschi, ma è che con mia figlia condivido molte più cose. Sì, devo dire che in linea femminile c’è una grande identificazione, una solidarietà, una vicinanza …