Testo descrittivo
27 Gennaio 2019Dipinti di Antonello da Messina
27 Gennaio 2019Riflessioni e commenti sui testi di Anassimandro, Eraclito, Parmenide, Melisso e Simplicio, di Alissa Peron
Secondo modulo di filosofia antica: sullo studio del pensiero da una prospettiva diversa
1) Introduzione
E’ difficile dimostrare i cambi di prospettiva di una stessa persona nel tempo. Il periodo iniziale della storia occidentale è complicato perché il linguaggio è confuso, soggetto a interpretazioni differenti, difficoltà a capire gli antichi che sorge da un problema comunicativo: è necessario scoprire cosa voleva dire l’autore per comprenderne i contenuti, lo stesso Platone scrive dialoghi aporetici in cui si pone un problema e non si risolve, perché? Ci impiega anche ragionamenti complessi per non arrivare alla soluzione! Queste faticose domande senza risposta possono avere uno scopo diverso da quello di comunicare la verità: in quei dialoghi la non risposta che dà Platone è una non risposta al problema ma è la comunicazione del metodo che usa per affrontare il problema. Se per rispondere ad una domanda qualsiasi di teoresi si insegna il metodo, si dà una soluzione valida per un maggior numero di problemi, cioè il modo per arrivare alla soluzione; la risposta alla domanda può sembrare meno idonea ma più significativa e teoreticamente utile. La seconda strada è meglio della prima, più faticosa ma più efficace. La comunicazione di 2300 anni fa era più complessa di adesso, dunque era potenzialmente più intelligente chi ascoltava; ora la comunicazione è semplificata, per immagini. Ciò che si nota nelle risposte antiche è la confusione, almeno nei primi secoli fino a Platone escluso, risposta ambigua ovvero una parola ha due o più significati; ma questa ambiguità non è necessariamente errore o fallacia di chi parla, è espressione di un modo diverso di vedere le cose e questo è lo scopo, scoprire pensatori che avevano forma mentis diversa. L’ambiguità è un campo, un luogo in cui vale una regola; l’ambiguità che troviamo quasi sempre nei primi filosofi crea un campo, luogo in cui valgono certe regole e se si cambiano non è lo stesso. Esiste una forma mentis che non spezza i concetti perché non interessa l’analisi ma la sintesi; noi siamo nella fase analitica e dunque non ci siamo abituati, con Platone e Aristotele si è passati alla fase analitica in cui finisce l’ambiguità; è vero però che la soluzione risolutiva che più somiglia a noi è quella di Aristotele, Platone ha ancora trattati aporetici. Aristotele inventa la definizione, i presocratici non hanno definizioni: ogni trattato perì physeos non ha una definizione di natura. In Aristotele capiamo e capiamo quando non capiamo, nei presocratici il discorso ci turba. Il campo ambiguo va quando nello studio umano non c’è l’uomo, era utilizzato per la conoscenza della natura; con Socrate esso esplode. Noi cerchiamo una forma mentis, come appaia il mondo a chi come Parmenide lavora sull’ambiguità degli oggetti; sarà un mondo di capacità sintetica straordinaria.
E’ necessaria un’esperienza di pensiero diversa dalla nostra, i concetti sono una cosa sola ma attendono di differenziarsi come i semi di una pianta, concetti embrionali, l’inizio di un processo che porterà a sviluppi. Manca nel corpus dei presocratici una definizione di natura fatta da genere prossimo e differenza specifica, quella che sarà la definizione aristotelica; un simile discorso richiederebbe analisi, smontare il termine più ampio per dare categorie più ristrette, non confacente ai primi filosofi che non avevano l’esigenza di dividere. Per loro l’ambiguità aveva come corrispettivo la capacità di sintesi, perdeva nella precisione e capacità definitoria ma acquistava in quella di collegare le realtà in una nozione densa in cui stava il mondo. Ma qual è una nozione da cui è possibile dedurre la conoscenza del mondo? Abbiamo descrizioni filosofiche della natura, per descrivere non bisogna trascendere ma tradurre dati che cadono sotto i sensi in termini razionali.
Frammento di Anassimandro, la più significativa definizione della natura (in questo contesto definizione è sinonimo di descrizione): le cose devono trovare la loro distruzione dove traggono la loro nascita, secondo quanto decreta la necessità, perché soggiacciono al castigo e alla vendetta le une alle altre, a causa delle loro ingiustizie, secondo l’ordine del tempo. Questi filosofi dicono con termini ambigui ma filosofici quello che vedono. La prima è indicazione di metodo universale per i filosofi della natura: tutte le cose nascono e finiscono in modo diverso, mentre la natura o il sostrato dell’esperienza naturale è l’unica cosa che non nasce in un modo e muore in un altro, la materia è uguale all’inizio e alla fine dei processi che appaiono. Il filosofo cataloga le cose che nascono e muoiono in modo diverso, la totalità delle cose esistenti, dividendole da quella cosa, l’arché, che nasce e muore allo stesso modo. Questo principio per Aristotele è il sostrato, noi chiamiamo questa la causa alfa omega, non più esistente da quando Aristotele propone le quattro cause che sono quelle che noi oggi adottiamo se pensiamo al mondo. Per trovare la causa alfa omega è necessario osservare la fase iniziale e fase finale dei processi per arrivare a ciò che permane. Bisogna tener conto della necessità (chreon) e l’ordine del tempo (tou chronou taxis); o potremmo dire del destino. La necessità è la regola che ha il sostrato, ma per avere la physis nella sua completezza serve il dato del castigo e della vendetta, agente che muove, causa motrice: abbiamo sostrato, regola, causa motrice; le cose pagano con il castigo la loro ingiustizia che consiste nel voler appartenere a se stesse, separarsi da un’unità iniziale in cui permanevano uguali dall’inizio alla fine, e a causa di questo subiscono la vendetta; ciò mette in moto il processo dinamico della natura. In sintesi la causa alfa omega porta al concetto di arché o di sostrato, ciò di cui è fatto il mondo che è sempre uguale ma cambia forma; è uguale a quella regola che si chiama della necessità o ordine del tempo, l’arché è allo stesso tempo regola; c’è poi una causa che costringe a pagare il fio del volersi appartenere, è costretto a morire cioè rientrare nel magma generale da cui è uscito. La natura è uguale alla compresenza di un arché, un’aitia e un logos; la causa funziona come ragione, la ragione funziona come principio, è questa una formula ma non una risoluzione filosofica: l’arché può essere aria apeiron numeri ecc., ma devo poi modificare aitia e logos.
Eraclito non distingue arché aitia e logos perché non li sente diversi, nella natura non si distinguono; non distingue tra enti fisici e mentali e neppure realtà individuale o universale; la realtà viene infatti fusa al momento della conoscenza, la causa con cui la si interpreta non è quella quadripartita aristotelica nostra ma è alfa omega che rimane identica dall’inizio alla fine.
Il frammento prospetta situazione inusitata: l’idea è che la ragione sia l’aria che ci circonda e non attività propria dell’uomo, diffusa per tutto l’universo a cui l’uomo partecipa quando respira a pieni polmoni; spiegato il fatto che quando uno dorme non ragiona e quando si sveglia torna a ragionare e ricorda quello che è successo prima: attraverso i pori del corpo e dell’anima non differenziati penetra questa intelligenza. Questi filosofi non distinguevano ragione di persona consapevole e quella che esprime un corpo quando cade: esso conosce la forza di gravità, è intelligente come quando un uomo dalla presenza del sole e del vento prevede che ci sarà un incendio. Questo frammento spiega che l’uomo con la ragione riesce a fare deduzioni anche sul mondo, la ragione dell’uomo è una parte della ragione della natura che assorbiamo dal mondo circostante. L’arché di Eraclito è il fuoco ragione, non il fuoco fisico (fr 31); questo fuoco che si trasforma in tutte le cose è ad un tempo la sostanza e la logica e il motore di tutte le cose, non è mai fermo perché conferisce calore a tutte le cose e un movimento che è la guerra degli opposti e l’armonia dell’insieme. Tutto ciò che avviene è necessario, non esiste libertà se il fuoco è sostanza e regola; se tutto avviene per necessità come si costruisce un’etica? Questo discorso è implicito in Eraclito ed esplosivo negli stoici; se siamo condizionati dagli elementi fisici che sono meccanicamente condizionati dalla matematica, la nostra scelta sarà prevedibile (conseguenze degli stoici, Eraclito si occupò poco di antropologia e molto di cosmologia perché era un naturalista e, come quasi tutti, quando guardava il mondo non ci vedeva l’uomo come distinto dal cosmo). Poiché l’uomo era un pezzo della natura, per Eraclito non avevano senso i tipi fisiognomici, nessuna differenza tra soggetto umano e naturale perché sono entrambi dentro la natura. Il fuoco non ha bisogno di essere mosso ordinato perché è movimento ordine, la relazione con il combustibile è sintomo di quell’ordine, la natura non ha bisogno di spiegazione ma di comprensione e di descrizione. Tuttavia anche il naturalista doveva rendersi conto della sua alterità rispetto al mondo, di essere diverso da ciò che lo osservava, doveva aver formulato un pensiero sulla specificità del proprio essere. In questo discorso ebbe grande influenza l’orfismo che influenzò anche Talete; non si capisce in che misura influenzò Eraclito ma egli lo conosceva, influenzò anche Empedocle e i pitagorici; è una religione formatasi in Tracia nel VII secolo a. C., erano religioni derivate dallo sciamanesimo in cui coloro che celebravano i riti erano posseduti da divinità e acquistavano una coscienza che prima non avevano e non gli competeva, come in una trance in cui il corpo è abitato da un’entità altra. Probabilmente Eraclito combatteva gli orfici e come Platone forse li disprezzava pur prendendo da essi molti concetti. Gli orfici esageravano la diversità dell’uomo e i primi filosofi trassero il concetto di corpo abitato da un’anima che non vorrebbe esserci, nella natura si vede solo il corpo che non è l’uomo, il vero uomo è altrove; non vedono la diversità perché l’uomo nella natura non c’è. Tra embrioni dell’uomo e dei pesci per Anassimandro non c’è differenza, anch’egli è influenzato da quel pensiero che l’uomo non fosse lì e che il corpo fosse un involucro. Non è semplice definire il rapporto tra questi primi filosofi e l’orfismo, alcuni frammenti di Eraclito sono orfici altri antiorfici e così per gli altri. Zenone riduce l’anima a elemento materiale che evapora e questo è contro l’orfismo. Per Eraclito non è necessario attribuire a un dio ciò che si spiega con le leggi della fisica; subito dopo dice che il solo saggio vuole e non vuole essere chiamato con il nome di Zeus, gli dei sono espressione di una serie di concetti, la teologia non era una storia di fatti e persone ma di simboli filosofici vestiti da uomini; vuole essere chiamato Zeus perché questa è la religione universale, non vuole perché il saggio riesce a trovare il concetto che sta sotto. Dunque del principio devono parlare sacerdoti o filosofi, chi tiene i rapporti tra potente e onnipotente? Se Zeus è l’arché se ne occupa il filosofo, se è un dio se ne occupa il sacerdote; è un problema atavico ancora non risolto, anche il testo rivelato pone questo problema, testo simbolico o storico. Ai primi filosofi non faceva differenza, non cera il concetto di allegoria. Cleante scrive un inno a Zeus ma afferma che è il logos, si introduce il concetto della pregabilità; se Zeus è la ragione non si può pregare. Cleante faceva quindi confusione tra dio e simboleggiato di dio e immagine stessa che lo rappresenta, in questo non trovavano contraddizioni perché non avevano le categorie, non cera contrapposizione tra pensiero e pensato; a noi scandalizza ma è logico, concezione estremamente fisica (l’anima muore quando è umida); commistione di frammenti antiorfici (quelli radicalmente fisici) e orfici (c’è un aldilà). Eraclito in quanto presocratico non si può analizzare perché verrebbe distrutto come una bolla di sapone; Eraclito l’oscuro per questo insieme di frammenti orfici e antiorfici, forse è uno che ammira degli orfici la valorizzazione della psyché, ma combatteva contro la ritualità degli orfici: sosteneva che ciò che si cercava di ottenere mediante la religione potesse essere meglio ottenuto grazie allo studio dell’arché, il filosofo demolisce la ritualità e non il nucleo concettuale dell’orfismo. Il sacerdote non media né impersona il divino, chi porta l’anima alla salvezza è il filosofo che conosce Dio.
Interpretazione di Parmenide come naturista che funziona solo nel campo ambiguo in cui ci muoviamo, naturista = che studia la natura nella natura. Ricordiamo le tre vie, la verità = l’essere è e conseguenze; la falsità = il non essere non è, vicolo cieco; via delle opinioni plausibili = ciò che si vede non è diverso dall’essere. Aristotele fa notare che la terza via non ha ragion d’essere, non esiste nemmeno l’opinione sbagliata perché se il movimento non c’è non si capisce la genealogia dell’errore, da dove si sia potuto pensare che c’è il movimento. L’interpretazione ontologica è quella classica, oltre ad Aristotele gli stessi seguaci di Parmenide lo considerarono inventore dell’ontologia. Posto che la terza via non ha senso, la soluzione è che la verità è la regola della ragione, la terza è quella del vivere; non è possibile perché non possono esserci due regole una della mente una delle cose, il contenuto del pensiero è un essere e la regola è una sola, tripartizione svanita.
Sostituiamo allora alla frase L’essere è la frase La natura è, via della verità, via della falsità = la natura non è, affermazioni naturiste. I frammenti sulla terza via vengono da un contesto più ampio e ci fanno pensare che il filosofo stia costruendo un sistema fisico: il giorno e la notte, movimento delle stelle influente sul mondo, alternanza stagionale. In primavera estate autunno la natura c’è, d’inverno si vede che la natura non c’è più ma la primavera successiva torna; l’inverno è una stagione filosofica, d’inverno la natura non si vede ma si pensa, non c’è ma ricomincia e non si vede, quindi è vero che si pensa. Il filosofo si chiede: dove va la natura d’inverno, c’è o non c’è? Qui vediamo il Parmenide naturista: la natura muore o lo spirito vitale si nasconde? Ha più senso in questa prospettiva il titolo Sulla natura o sull’essere, ci si occupa dell’essere o non essere della natura; se l’uomo è così pienamente inserito nella natura non può non vivere le stagioni e diventare filosofo. Via della verità: la natura si nasconde ma c’è; via della falsità: la natura non c’è più e rinasce. La prima è una via che si intraprende con strumenti logici e interpretativi, sono in grado di fondere tutte le cose nell’essere, le differenze sono riassorbite. Tripartizione: sentiero dell’ignoranza la natura muore; verità la filosofia d’inverno, la natura esiste anche quando non si vede; terza via dello scienziato che ammette la molteplicità dei fenomeni e riconduce la realtà ad una legge. Per far ciò devo partire dal presupposto di una natura stabile. Questo modello risolve tutti i problemi tranne il motivo per cui i discepoli interpretarono Parmenide come ontologo e non come naturista. I pluralisti in questo modello non furono mediatori o traditori ma applicavano la stessa regola del maestro in un modo che ritenevano più preciso.
Spieghiamo questo modello a partire dai testi: il poema parmenideo sulla natura ha un proemio, discusso per il fatto che è parso pomposo e perché vi compare una dea e non gli dei; sembra essere allegoria o simbolo, la filosofia qui non si desume da un contesto letterario quindi non è una vera allegoria. Poesia quella del proemio volta a catturare il sentimento prima della ragione degli ascoltatori. In questo proemio le cavalle portano per tutti i luoghi l’uomo che sa attraverso la via che dice molte cose, non è un rapimento estatico, l’uomo che sa decide la meta, le fanciulle indicano la via. Lettura allegorica di Sesto Empirico: le fanciulle sono le sensazioni. Parmenide vuole trovare la verità, questo è il luogo in cui vuole andare, le cavalle non sanno dove si trova e hanno bisogno di indicazioni dalle fanciulle. Se è vero che le fanciulle, guida alla verità, sono le sensazioni che lasciano la notte e vanno verso la luce, siamo già in perfetto naturismo; esse si sono tolte il velo dunque vedono, siamo nella terza via tant’è vero che torna il discorso di luce e notte. Le fanciulle conducono alla porta del giorno e della notte, due vie confluiscono, c’è una porta con i battenti e l’architrave; da lì parte una via sola, la via che c’è. Dalla porta passano solo quelli che sanno, la dea che custodisce il luogo si chiama Giustizia che molto punisce e ha le chiavi che aprono e chiudono la porta dell’essere. La Giustizia è quella di Anassimandro ed ha origine orfica, anche se il filosofo poco subì l’influenza dell’orfismo la dea della giustizia deve giudicare chi ha diritto di entrare, non solo di stabilire ciò che è vero o falso. Il proemio si fa interpretare non alla luce dell’ontologia ma della fisica, la parte della luce e della notte.
Da come le cose che appaiono bisognava che veramente fossero a come bisognava che veramente fossero le cose che appaiono; le vie del giorno e della notte.
Fr 2, la via della verità: Parmenide esprime la verità in sintesi in che è”. Si arriva dopo tutto questo viaggio a un che è”, il ragazzo ha barato e non ha messo il soggetto; per colmare la lacuna si è messo il verbo eìnai, storicamente e non da Parmenide, lo stesso eìnai nella falsità non è, versione ontologica in senso forte. Ma così la seconda via non si può menzionare perché non esiste all’origine, non la si conosce e non si può nemmeno sbagliare su questo, non essere è un rumore e non il nome di qualcosa, non ha nome né esprimibilità.
Fr 3, lo stesso è essere e pensare, il non essere si dovrebbe esprimere in un non pensiero, impossibile. La stessa cosa sono pensiero ed essere, condanna a una non esprimibilità delle cose. Gorgia sviluppa ciò che Parmenide negava, nulla è non conoscibile o non dicibile.
Fr 4, nella mente si può tener presenti cose già morte; non si può recidere l’essere dal suo essere congiunto con l’essere, ma non è compresso né disperso, non è raccolto insieme né disperso, è in serie.
Parmenide riflette sulla natura e scopre ciò che tutti scoprono, oggi c’è domani non c’è e si pone la domanda dove va a finire la natura, cosa è successo nel frattempo. La filosofia d’inverno è del non essere (la natura rinasce) o dell’essere (non rinasce)? Qui interviene la dimensione ontologica, noi la inseriamo in questo contesto naturista e rigettiamo quella assoluta; l’ontologia è la filosofia d’inverno, e la risposta di Parmenide è la via della verità, la natura continua a esserci perché viene pensata.
La totalità delle cose è discontinua, in parte percepibile in parte solo comprensibile, non è dato all’uomo di toccare né pensare tutto. Secondo il Parmenide naturista deve esserci collaborazione tra ciò che si vive e ciò che si pensa, l’essere non può essere rescisso dal suo essere e deve essere congiunto con l’essere. L’essere che non può essere rescisso è tò eòn, ciò che è; non potrai rescindere ciò che è dal suo essere congiunto da ciò che è. Dalla prima alla seconda lettura cambia che tò eòn è il singolo fenomeno, eìnai l’insieme degli individui; se i singoli fenomeni devono essere congiunti con i singoli fenomeni, le esperienze che ho nella primavera sono uguali a quelle che avrò in autunno, non si separa tà eònta da tà eònta; esiste una continuità fra ciò che avviene in natura anche se in inverno avviene una frattura che impedisce di collegarne gli eventi a quelli della primavera. Il fr 4 denuncia continuità dell’esperienza naturale nonostante l’inverno. Avvicendamento stagionale non è cronologia, l’ipotesi di Parmenide naturista permette di entrare in una mentalità diversa dalla nostra, è un gioco sul modo di vita dovuto alle condizioni climatiche, la vita dei Greci era regolata dal clima ed erano convinti che il clima influenzasse la mentalità dell’uomo. Si tratta di un’esperienza realistica per allora di dipendenza dell’uomo dalla natura, la mentalità moderna dà l’abitudine al dominio e ad una estraneità della natura (finché non arriva uno tsunami). L’estraneità fa sì che l’uomo non si prenda cura della natura, il dominio può essere caritatevole ma anche strumentale che implica estraneità rispetto all’oggetto dominato. Lasciare eìnai significa presumibilmente ragionare in modo diverso da una persona che si sente parte della natura.
Cosa significa che il pensiero garantisce continuità e unità dell’essere, tra lo stato di questa primavera e quello della prossima? Trad lett fr 6: è necessario dire e pensare che ciò che è esiste; infatti l’essere c’è, il nulla non c’è, questo ti esorto a considerare. Questo fr accosta eòn a eìnai, ente ed essere, noi siamo enti particolari come i fenomeni naturali e le nostre esperienze; l’essere eìnai è una categoria comune a tutti gli enti (Platone, Parmenide). Proprio dell’essere è non finire nel niente, deve valere anche per ciascun ente; ci esorta a considerare che questa è la via giusta. Interpretazione ontologica: ciascuno di noi non muore e non nasce perché non c’è il non essere, va contro l’esperienza che abbiamo perché noi andiamo nel non essere; dice invece che tutto l’insieme degli eventi naturali tà eonta, quello che è cioè tutte le cose che partecipano dell’individualità, nel suo complesso non può andare perso, si parla sempre della natura, talora come tutto il ciclo delle stagioni, talora di quello che si presenta in ciascuna scadenza della natura. Se la natura muore d’inverno l’anno dopo rinascono enti diversi, tutto va perduto e gli enti non permangono; Parmenide dirà che la natura si nasconde, quindi tà eònta si mantengono. L’unità che manca dopo il periodo di distacco è garantita dal pensiero, il non morire dell’eòn non significa che l’eòn continua a esistere ma che da quel momento va nell’inverno e si segue solo col pensiero dopo la sua morte. Parmenide tiene lontani i mortali dalla via che nega la permanenza dell’essere, chi crede che d’inverno la natura muoia e rinasca l’anno dopo, quindi il nulla è; sono uomini a due teste perché spezzano l’unità e credono che il mondo sia morto e risorto. Essi si contraddicono, credono che essere e non essere siano e non siano la stessa cosa; passaggio dal non essere all’essere nel suo insieme, quella forza che fa girare il mondo che si lascia cogliere solo dalla ragione. Sono considerati tautòn il non essere e il venir fuori, sono qui, pèlein; gente senza giudizio, la medesima cosa è e non è, qualcosa all’improvviso compare dal non essere. La primavera per chi ragiona non viene dal nulla, ci doveva essere qualcosa anche nell’inverno; i sensi ingannano, la sensazione, se non corretta e completata dal giudizio, è ingannevole perché è questa che fa credere che le cose nascano dal nulla, impossibile al ragionamento.
Quanto al fr 7 i traduttori rendono tà eonta con le cose che sono, il senso che noi sempre cerchiamo di dare in presenza del participio tò eòn; secondo la nostra interpretazione il frammento afferma che non potrà mai imporsi né sarebbe pensabile che la natura muoia e sparisca in inverno (lett. non siano le cose che sono) e ricompaia in primavera, nella lettura ontologica significa affermare l’univocità dell’essere, negare che esista la possibilità che l’essere finisca nel nulla, negare la possibilità del cambiamento, contrario all’esperienza. Noi diamo come assioma la presenza del movimento, nell’interpretazione ontologica in senso forte e stretto viene negata questa possibilità.
Verso II del 7: favorevole alla nostra interpretazione, si raccomanda al discepolo di tenersi lontano da alcuni pericoli: il primo e maggiore è l’abitudine greco ethos, l’abitudine dettata dalle molte esperienze o dal ripetersi sempre delle stesse esperienze. Ma come è possibile l’abitudine dettata da molte esperienze se si presuppone che non esista la molteplicità? In senso naturistico questa abitudine che nasce da molte esperienze che ci forza e ci obbliga a un consenso è l’esperienza della nascita e della morte della natura, che non hanno bisogno di alcuna mediazione culturale perché basta che uno viva per capire che la primavera è diversa dall’inverno e in che cosa è diversa. Parmenide parla di occhio che non vede, orecchio che rimbomba e lingua perché questi sono i sensi; quello che l’occhio fa vedere non corrisponde alla realtà, l’occhio guarda ma non vede, e così l’orecchio rimbomba perché non fa sentire quello che veramente è. Si introduce questa condanna dei sensi perché essi fondano l’abitudine nata da numerose esperienze che è decettiva, infatti Parmenide tiene lontano da questa via che il ragionamento non deve seguire. L’esperienza del ciclo delle stagioni non può essere affidata alle cose che si vedono e si toccano ma al pensiero, i sensi sono motivi di scandalo perché fanno credere che d’inverno ci sia la fine.
Il passaggio successivo comanda a giudicare con la ragione, il giudice dei sensi è la ragione che qui è il logos, dunque sia ragione che giudica sia ragione insita nelle cose. Parmenide invita i discepoli a tener conto della ragione della prova molto discussa che fornisce, usa qui il termine èlegchos = confutazione, lett. il discorso di Parmenide è una confutazione ma non si può confutare il nulla, si confuta ciò che trasmettono i sensi, scontro al vertice fra sensi e ragione che dal nostro punto di vista non è generico e universale, nessuno di noi infatti può confutare i sensi in toto (anche per dirlo e per sentirlo ci vogliono i sensi), ma c’è un limite alla contraddizione. La filosofia d’inverno è un cambiamento di giudizio, l’occhio inganna ma non sempre, l’orecchio non può rimbombare sempre ma nel momento in cui improvvisamente la scena diventa muta e scura, nell’inverno; è necessario coprire col pensiero la parte oscurata, che non è sparita ma si è nascosta e verrà di nuovo rivelata.
Dell’opera parmenidea è rimasto a noi circa il 30%, tanto della prima parte e poco della seconda, la prima riguarda essere e non essere, la seconda la luce e la notte e insomma la terza via. Questo perché chi ci conserva i frammenti sono platonici o aristotelici o addirittura Platone e Aristotele che considerano la parte che maggiormente interessa per la loro filosofia. Infatti essi avevano prefigurazioni e precomprensioni filosofiche che filtravano il discorso, quando Platone parla di Parmenide parla di se stesso e privilegia la parte sull’essere e il non essere. Il problema dell’interpretazione non si pone con Platone e Aristotele ma con Melisso che sposta l’attenzione sull’uno e sull’essere. E’ vero però che la maggior parte di ciò che abbiamo di Melisso viene da Aristotele, il filtro è sempre quello dell’ontologia; la domanda è se è possibile che Melisso avesse scritto un poema che come quello di Parmenide constava di più parti e ci sia arrivata solo quella che interessava ai filosofi successivi. Tra l’altro il poema di Parmenide perì fuseos non parla che per pochi accenni della natura. La Fisica forse è stata cancellata perché ritenuta ridondante e mal fatta, mentre è stata conservata la parte ontologica che ricordiamo non rappresentava la totalità del sistema.
Come abbiamo detto la frase hos Estin, che è, manca del soggetto, invece che eìnai inseriamo physis e dunque Resta solo un discorso da fare, che la natura è, questa è la via della verità. Ma cosa significa che la natura è? L’essere è è affermazione tautologica, inconfutabile, che non dà informazione; Zenone ha capito che l’espressione non è vera né falsa ma è inconfutabile, non è vera perché non è verificabile in quanto molto generica, non corrisponde a definizione, non incrementa il sapere. Il frammento prosegue dicendo l’essere è ingenerato e imperituro, ma il soggetto è tò eòn, dunque ciò che è è ingenerato e imperituro. La prima affermazione è conseguenza tautologica del fatto che l’essere è, dire che ciò che è è ingenerato e imperituro è dato sperimentale: il complesso delle cose che cadono sotto i sensi, cioè la natura, non può generarsi e non può morire, incrementa il sapere. Da un lato si prende la via logica dall’altro fenomenologica, le cose che sono non si sono generate in questo inverno e non moriranno il successivo; ricorda che non si parla mai dell’individuo ma della totalità dei fatti naturali. Rivelativa su questo punto è la frase è un intero nel suo insieme; interpretazione logica = l’essere è tutto uguale; via naturista = la natura è un intero nel suo insieme cioè un sistema, ingenerato e imperituro perché nel sistema tutto si tiene. La parola greca che traduce Intero nel suo insieme è oulomelès, intero formato da membra, nella nostra interpretazione questo è il tò eòn. Ciò quadra alla perfezione con il fatto che il ciclo delle stagioni forma l’unità della natura, è una parte che ha un intero che è imperituro. La natura è significa che continua ad essere, ha un’esistenza non interrotta, non è tautologia inconfutabile ma non vera, è espressione invece della quale si può avere la prova contro i sensi che fanno capire un’altra cosa. I segni indicatori ovvero le argomentazioni che tengono insieme l’espressione La natura è sono che nel suo insieme deve intendersi ingenerata, imperitura, immobile e senza fine, espressione che sembra far crollare il discorso ma in realtà si inserisce bene a condizione che si lavori sul complesso: non cambia infatti la sua sostanza se la considero come un tutto. Applichiamo al ciclo stagionale: è senza fine perché si ripete sempre, è immobile perché è sempre la stessa alternanza. Egli gioca sia al livello del tutto sia al livello delle parti. La Natura né una volta era né sarà, non è mai finita nel non essere, non smetterà mai di essere identica a se stessa, è ora insieme e tutto. Il sistema che Parmenide costruisce che per noi è quello della natura è intuito secondo la ragione e non secondo i sensi. Né una volta era Né sarà non significa infatti che non ha sviluppo, ma che la natura come tutto rimane identica mentre cambiano le sue parti, c’è continuità di essenza e di esistenza tra natura d’inverno e natura destate contro quella concezione degli uomini a due teste che si fidano dei sensi che attestano falsamente. Tutto uno continuo vuol dire che si tiene insieme, ha un’identità e continua a vivere anche quando sembra che non ci sia.
Quale origine si potrebbe cercare dell’eòn? Non può essere nato dal non essere o meglio dal mè eòntos, dunque noi diciamo dal non ente, da qualcosa che non c’è; la natura non è venuta da qualcosa che non c’è, non ti concedo di pensarlo perché non è possibile né dire né pensare che la natura non sia d’inverno, il momento in cui sembra che non ci sia. In inverno di prosegue soltanto a lume di pensiero, il filosofo inizia a pensare quando i sensi non trasmettono più nulla e il pensiero diventa la sola fonte. Quale necessità avrebbe costretto l’essere a nascere dal non essere o dopo o prima? Questa frase è ripresa anche da Aristotele, dopo o prima sono categorie cronologiche, presuppongono uno sviluppo, fanno parte dell’essere. E’ questa la versione ontologica, secondo quella naturista non è possibile pensare che la natura non ci sia o che sia nata dal nulla perché non ci sarebbe motivo perché sia nata dopo o prima, più sensato. Per la natura non è inessenziale che la primavera cominci in una certa data, se la natura sparisce sparisce anche la sua logica e non si capisce perché l’anno dopo dovrebbe ancora nascere il 21 marzo se è vero che nel non essere non c’è logica. Il termine necessità qui usato è chreos, katà chreon è quello usato da Anassimandro in quel frammento in cui si indicava la ragione insita nelle cose, nella natura, l’arché della natura è ragione di sviluppo. Il riferimento implicito ad Anassimandro risulta più chiaro osservando il punto dello stesso frammento in cui si parla di giustizia, dike; è possibile che il riferimento sia reale ed Anassimandro non era ontologo, si troverà anche riferimento ad Eraclito. Sappiamo che Parmenide si fondava per la sua cultura sui filosofi della physis che l’avevano preceduto e partiva da essi. E’ quindi necessario che la natura sia per intero o che non sia, in ogni caso è da considerare un tutto, o è tutto o non è niente. La natura come tutto non può neanche derivare da una cosa che c’è se è diversa da sé, neppure la forza di una certezza concederà che la natura venga da qualcosa che è a condizione che si presenti come una cosa accanto alla cosa che viene. Non è lecito considerare la natura come un tutto che ad un certo punto passi da una forma di essere ad un’altra, non possiamo pensare che si moltiplichi, il soggetto è il tutto ed è sempre lo stesso. Questa frase è corretta anche per l’interpretazione ontologica, l’essere non può venire né dal non essere né dall’essere. I primi 12 versi del fr 8 spostano l’attenzione sulla natura come tutto, è necessario pensarla come insieme nel periodo dell’inverno; se la natura non c’è d’inverno non c’è mai. Leòn smette di essere individuale nel momento in cui lo affronto con il pensiero nella filosofia d’inverno, se penso non penso una cosa come individuale perché devo dare dei concetti, l’individuo diventa universale e regge la prova dell’esperienza e della logica: il sensibile individualizza, il pensiero rende universale.
Dando questa lettura l’insieme del poema di Parmenide sulla natura sembra risultare più coerente; resta il fatto che la motivazione più forte per cui affrontiamo l’impresa di reinterpretare un filosofo che la storia ha già interpretato è la forte incongruenza che esiste tra la prima e la seconda parte del poema; inoltre non si capisce perché chiamare perì physeos un poema che non parla quasi della natura.
Senza l’essere, il quale è espresso, non troverai il pensare, cioè il pensiero non crea i suoi oggetti ma registra le cose che sono e le registra se hanno un nome. Se la via del non essere è anonima non la si può pensare e tanto meno la si può descrivere, neanche per dire che non c’è o che bisogna tenersene lontani. L’ontologia radicale non è sostenibile perché non riesce neppure ad essere espressa. Infatti nient’altro o è o sarà al di fuori dell’essere poiché la sorte lo ha vincolato ad essere un intero immobile. Questo richiamo alla Sorte è come Ananche una delle forme poetiche personalizzate della logica ferrea che noi riteniamo essere quella della natura. L’essere non può essere nient’altro al di fuori del fatto che c’è perché il passato il presente e il futuro sono forme di non essere. La sorte, personificazione del vincolo della natura, costringe l’essere a rimanere identico, un intero e immobile; ricordiamo che l’immobilità è della natura in quanto tutto e comprende anche il fatto che sia un ciclo continuo di cambiamenti. Intero = non comprende il non essere, immobile in quanto tutto. Tutte le cose che sono nella loro singolarità sono considerate come parti del tutto; quelle cose che i mortali pensano vere come il nascere il perire il mutare di luogo ecc. sono solo nomi perché sono insignificanti, ciò vuol dire che ciascuno di essi può essere vero ma l’alternativa fra di essi è non vera: la contrapposizione tra nascere e perire è non vera e così tra essere e non essere. Sono falsi e dunque impronunciabili: il nascere che dal punto di vista radicalmente ontologico non esiste perché implica il non essere; il perire per lo stesso motivo; l’essere però dal punto di vista ontologico esiste eccome, quindi non può essere incluso separatamente nel novero dei nomi impronunciabili, l’essere è vero; il non essere deve essere inserito nella categoria delle cose false; il cambiare luogo e colore si devono inserire in questa categoria perché implicano forme di non essere, passaggio da essere a non essere. Parmenide dunque qui parla di coppie di concetti, egli secondo la nostra interpretazione, poiché crede nella natura nella sua completezza, considererà nomi le coppie di concetti in contrapposizione: in verità tutte queste cose sono parti di un insieme, ci sono ma non esistono nella forma separata in cui i mortali a due teste le intendono, nascere e perire fanno capo a un’unica realtà, la natura non perisce mai.
Passo sulla massa di ben rotonda sfera: anche per chi lo legge in chiave ontologica è troppo, non c’è un limite estremo: si ha una raffigurazione metaforica che lo rappresenta come strutturalmente finito, con la forma che maggiormente esprime la perfezione, dicendo al tempo stesso che non ha limiti cioè che non ha interruzioni e non esiste un punto che abbia meno essere di un altro al suo interno; sarà su questo la critica di Melisso che dirà che l’essere è infinito. Secondo la lettura naturista non ha più significato metaforico perché il cielo è sferico, il limite estremo è il cielo compiuto in ogni sua parte e al suo interno non ci sono vuoti né dal punto di vista spaziale né cronologico, è uniforme e omogeneo e non è una forza vitale che aumenta e si indebolisce. Nel cielo non c’è un non essere che gli possa impedire di giungere all’uguale, è un tutto inviolabile. Traduzione: è impossibile che ciò che è sia più da una parte e meno dall’altra, questo garantisce assenza di frattura e nella natura non esiste un non essere che rompe l’armonia.
Nei frammenti analizzati fino a questo punto non compare mai il termine physis, ma rendono ben conto della nostra interpretazione. La pietra dello scandalo riguarda la seconda/terza via dove finisce la verità della quale tratta il filosofo. Si parla invece delle opinioni dei mortali che hanno dato il nome a due forme l’unità delle quali non è necessaria e il loro errore non sta nell’imposizione del nome ma nel non averle riportate all’unità e ritenerle separate, non si dice infatti che le due forme siano false. La visione ontologica forte impedisce che si colga la diversità, ma come detto il problema non sta nel coglierla ma nel non riportarla all’unità, ritennero quelle realtà non solo diverse ma opposte e con nomi distinti. La diversità si coglie con i sensi (natura in primavera dinamica), in inverno si ha un momento di frattura in cui è necessario l’uso della ragione ma per i mortali gli enti che vedono la primavera successiva perdono la loro unità a causa di questa frattura e li vedono divisi perché i sensi non permettono di cogliere l’unione.
Sembra che le frasi sul leggero fuoco della fiamma non siano dello stesso autore che parlava di essere individuale senza nascita e senza morte, questa opinione non può essere accanto alla verità se non fosse che sono entrambe verità, una è la verità del concetto filosofico e dell’arché, l’altra di quello che si vede, dei sensi che si fondano sull’idea che la natura non muore mai, dunque anche ciò che appare opposto deve avere una conciliazione nella natura. Da un lato posero l’etereo fuoco della fiamma cioè gli astri, in ogni parte identici e uguali a se medesimi; all’opposto misero la notte oscura, la luna e le stelle sono sempre identiche ma nel buio, i principi sono quelli del buio e della luce. L’ordinamento fondato su questi principi è veritiero in tutto e permetterà al discepolo di non essere fuorviato dalle convinzioni dei mortali; esistono quindi due verità, la verità dell’inverno che è la filosofia in cui appaiono le ragioni per cui tutto deve essere unità; la verità dei sensi che, poiché esiste l’inverno che impedisce la frattura e riporta a unità le cose, mi obbliga a unificare anche quello che vedo, a non considerare ogni primavera diversa dall’altra. Questa via non è della falsità perché durante l’esposizione viene tolto l’errore che facevano i mortali a due teste e dunque è del tutto veritiero quello che si dice; si dà quindi in un certo senso una giustificazione della natura. La via dell’errore è quella delle persone ingenue che non unificano le realtà, vede la luce e la notte e dice che sono due opposti, ontologicamente diversi. Non c’è dunque sostanziale differenza tra via della doxa e della verità ma sono entrambe vere. Dire che la filosofia d’inverno è la filosofia non è falso, ma è incompleto e porta allo scambio della natura con l’essere e questo conduce ad aporie. La via della doxa, via degli uomini, è l’interpretazione del mondo sensibile sulla base della via della verità, l’interpretazione del filosofo sulla base della verità. La storia che ha messo Parmenide tra gli ontologi radicali, coinvolgendolo in una serie di problemi, non è falsa ma riduttiva perché ha preso solo una parte della sua filosofia e non ha considerato la parte riguardante il giorno e la notte. Pare che in quella seconda parte di cui poco ci è rimasto abbia iniziato a studiare la physis, ma in realtà non avrebbe mai lasciato la physis per studiare l’essere. Il frammento 9 ribadisce che luce e notte sono principi archetipi, tutto è pieno di giorno e notte, la natura è piena ugualmente di luce e di notte che sono sempre e comunque presenti. Non c’è mescolanza dell’una e dell’altra, ma dovunque c’è natura ci saranno sempre luce e notte, ed una volta compare l’una una volta l’altra o compaiono nello stesso tempo per esempio nel cielo stellato Luce e notte non vanno contrapposte perché da esse dipendono vita e morte degli esseri, quello che è un concetto astratto nell’inverno ha un corrispettivo straordinario perché il cielo influenza la situazione della natura. Il frammento continua con le premesse di una lezione di astronomia, annuncia di studiare il movimento degli astri e l’etere, la verità ben rotonda è il cielo che mette in moto il sole e lo mette in correlazione con la luna; il filosofo che studia così da vicino la natura sa che c’è una logica nel movimento degli astri e così gli fa pensare quello che vede (apparire e scomparire del sole e delle stelle). Guardando il cielo il filosofo spiega la Terra e le creature che la abitano, si occupa di fisica e dell’uomo dentro la natura, indaga l’origine delle cose e dell’uomo, il loro sviluppo e la fine; questa è probabilmente la parte conclusiva dell’intero poema (Reale). In questi versi conclusivi si parla della forza coibente della realtà che è il primo degli dei cioè Eros, la forza dell’amore che tiene insieme la luce e la notte in una congiunzione armonica che fa sì che il sole ci sia ma non sia tutto, così la notte ma non sia sempre, ci sia la Luna ma in posti diversi organizzati insieme a quelli del sole, quando c’è uno non c’è l’altro. La filosofia della congiunzione dei componenti del mondo è la stessa che regola l’unione degli esseri umani. La via della doxa è quindi la via dell’apparire, concetto molto diverso dal dire la via dell’opinione incerta: secondo quello che appare (cioè è evidente) queste cose sono state generate e ora ci sono, poi cresceranno e finiranno (le parti, il tutto è la sempre presenza dei principi). Così osservato il sistema di Parmenide è ordinato e non contiene come pensava Aristotele i sintomi di una malattia mentale: non c’è parte della natura in cui non sia caratterizzata dall’alternanza di luce e notte sia cronologica sia spaziale; è una legge che dà armonia e unità al cosmo e il principio armonizzatore è la congiunzione. La forza coibente non si può cogliere con lo sguardo, perciò Parmenide introduce la differenza tra il mondo che può essere visto e il mondo che può essere solo pensato; dopo di lui Platone distingue tra mondo delle cose e mondo delle idee, ecco perché chiama Parmenide padre. La similitudine sta nel fatto che il mondo è in parte visibile in parte comprensibile solo con il pensiero e bisogna servirsi di entrambi gli strumenti, la differenza è che il mondo pensato da Parmenide non è trascendente, non è ontologicamente diverso da quello visibile, non è una metafisica ma una iperfisica, parte della physis superiore all’altra; quella platonica è metafisica. La presenza di un mondo fisico che non sia percepito con i sensi non ci appare assurda se pensiamo allo studio per esempio dei buchi neri nella nostra astrofisica: non si vedono perché la luce non ci arriva, ma ne postuliamo l’esistenza guardando alle anomalie che essi creano nel sistema delle realtà visibili. Parmenide quindi non era fuori strada quando dipingeva un mondo iperfisico, cioè della fisica a tutti i titoli ma che non si vede, si può pensare ma la cui esistenza è postulata a partire dal movimento e dal ciclo delle cose che sono: è questa la filosofia dell’unione che con ogni probabilità sta all’origine dell’unione degli uomini, della generazione, del tramandarsi della specie umana ma anche dell’unione dei cieli e della terra rispetto al cielo.
Melisso introduce i caratteri dell’essere che è tutto: eterno, legato alla semantica del tutto, anche l’unità dell’essere è possibile perché c’è unità del tutto; concetto di unità in Melisso più sviluppato che in Parmenide perché ha più convinzione del maestro nel considerare essere tutto. Il tutto è immobile perché se si muovesse ci sarebbe qualcosa che lo aspetta, incompleto. Parmenide istante atemporale, Melisso sempre era e sempre sarà, che implica una durata, differenza cronologica tra passato presente e futuro. In Melisso c’è il tempo ma è sempre uguale, in Parmenide non c’è il tempo, Parmenide sincronia Melisso diacronia. La durata calza con la nostra tesi, ci sarà sempre la primavera, ci saranno sempre le stagioni sempre uguali. Ontologia melissiana olologia, consideriamo la natura come realtà universale, le connotazioni che attribuiva all’essere si adattano ad essa: la natura è una, è uguale come un attore che cambia l’abito o va dietro le quinte dove lo sentiamo, ciò salva la continuità; la durata indica qualcosa che continua ad essere anche quando non lo vediamo. L’essere non deve avere corpo per essere uno, frammento problematico per la nostra tesi. Dobbiamo immaginare la natura formata da parti sempre uguali, non avere corpo vuol dire non essere un blocco, non avere limite esterno, e un corpo non è uno perché è formato dalle membra, se fosse un corpo fisico avrebbe parti fisiche. Forse si vuole intendere la divisione non come empirica ma come ontologica, non esiste il corpo unico fuori dal quale c’è il non essere, comunque frammenti incompatibili con la tesi.
Simplicio commentatore di Aristotele: Melisso e Parmenide non scrissero solo su cose hypèr ton physikòn, al di sopra della natura, ma anche perì tòn physikòn, riguardo alla natura, perciò i titoli delle opere Sulla natura. Metà tà physikà: non per forza sopra, solo al di là; hyper è iperfisica, al di sopra ma simile e incerte parti uguale. Il frammento simpliciano quindi parla di iperfisica, Parmenide e Melisso si occuparono anche di fisica. Iperfisica: principi occulti della fisica, passaggio all’iperfisica dovuto all’atto del pensiero, natura d’inverno, e così abbiamo conosciuto la verità, che la natura non muore e unifica la notte e il giorno, abbiamo conosciuto nell’iperfisica il senso di quello che compare, la fisica si vede l’iperfisica si pensa. Anche Platone deve abbandonare la prima navigazione per la seconda, ma il viaggio lo conduce a un mondo nuovo, il mondo delle idee; entrambi hanno dovuto lasciare la comoda visione delle cose che l’esperienza attesta e servirsi del pensiero. Nella filosofia di Parmenide si giustifica e si descrive la natura razionalmente, questa è l’iperfisica; la metafisica di Platone aveva dei precedenti, Senofane e Parmenide così interpretato e stando a Simplicio anche Melisso.
Perché Parmenide e Melisso furono interpretati come ontologi e di loro ci è arrivata solo la parte invernale iperfisica? Per il castello di Platone. Molti suoi dialoghi sono aporetici o perché chi parla non sa dare la soluzione a un problema o perché se ne danno più di una, modo per non darla. I dialoghi aporetici spesso hanno lo scopo di insegnare un metodo, alcuni come Parmenide e sofista sono del tutto fuori tema. Il metodo è quello logico che è universale, per tutti i problemi, Platone impone questa logica nel Sofista e nel Parmenide: tutte le cose che esistono sono binarie, concetto universale applicabile ad ogni ente mentale o fisico perché al di sopra di tutto ci sono i principi uno e diade che sono sempre presenti insieme in ogni tipo di realtà, quindi per fare un buon ragionamento bisogna dividere.
Secondo concetto: cosa significa che tutto è duplice? Uno e diade sono paragonabili ad energia, uno forza che accorpa, diade forza dissolutrice che stanno insieme ogni volta che c’è un equilibrio, se una forza è maggiore il sistema si indebolisce, ciò emerge dalle dottrine non scritte: la forza dell’essere è l’armonia delle energie contrarie come l’onda del mare. Rispondendo alle domande con la formula dell’armonia non risponde direttamente ma mette in condizioni di farlo e non solo per quella domanda specifica.
Chi è l’iniziatore dellontologia? Melisso che sistematizza e consolida il discorso del maestro che sembra però anche parlare del movimento, è tagliato su misura per essere preso come ontologo ma con l’implicito suggerimento che ci fosse altro, un po’ come nella terza via parmenidea appena accennata; forse si tratta di questioni di taglio e non di esegesi, si è salvata solo la parte che si presta all’interpretazione ontologica, non quella del giorno e della notte. In Platone il parricidio avviene nel sofista, ma sappiamo che non era quel Parmenide che egli uccide, il movente è l’essere, l’essere di Parmenide non è lo stesso di Platone il quale è molteplice; ma perché avviene nel Sofista che è l’esatto opposto di Parmenide e in modo così strano? Il Sofista parla solo delle diairesi = divisioni, il Parmenide di ipotesi ma plurali, in entrambi i casi c’è diairesi una volta di persona e una come divisione di ipotesi; le diairesi servono per le definizioni, le ipotesi per dire se una cosa esiste o no. Tutto questo perché le cose sono frutto di una composizione ma non mereologica bensì la definizione polare uno/diade, ogni ente è formato da un principio coagulante e uno disgregante. In questa metafisica le parti non sono definite, la diade di grande e piccolo è già una molteplicità che tende a sfuggire e l’uno è una forza armonica che dà regolarità alla diade, sono entrambi principi dinamici; quello che vale è l’ordine delle cose, l’onda ne è la sintesi, quando la guardi è già acqua; è il principio delle idee che appunto hanno carattere dialettico, sono organizzate gerarchicamente: l’idea di vegetale esiste perché esiste quella di vivente e si distingue da quella di animale che che esiste perché esiste quella di felino, non si può più spaccare il mondo, varia l’ordine variano i concetti. Con queste premesse si può comprendere il nucleo del Sofista, che viene fuori dalla pesca con la lenza. Per Platone il pescatore e il sofista hanno in comune che sono, quello della pesca alla lenza che parte dall’arte e procede per divisioni è un modello, il mondo è fatto tutto così tanto che studia il sofista partendo da qualcosa di lontanissimo, la pesca è un modello della realtà. Il risultato è sempre che la realtà è divisa, ovvero partecipa di quella polarità armonia-disarmonia, il processo diairetico è un metodo per indagare qualunque soggetto, da un’idea si tirano fuori tutte le altre per l’interconnessione infinita, il formarsi di infinite serie (tappeto persiano). Questa è la diairesi prototipica, Platone procede applicandola al sofista e lo definisce come un’arte acquisitiva caccia di denaro ad animali domestici. Alla fine delle cinque diairesi il sofista è definito come uno che dice il falso; ma come è possibile dire una cosa che non c’è, che nome avrebbe se non ne ho la conoscenza? Problema ontologico, anomalia, compare Parmenide, non puoi dividere qualcosa che finisce nel nulla.
Definire significa dare una posizione tra le cose che conosco a qualcosa che già so cos’è e dargli un contesto per mezzo della divisione. Sbagliato è il criterio con cui valutiamo essere o non essere secondo quello che per Platone era Parmenide, si sta parlando delle idee che sono vero essere, il sofista è stato definito dividendo le idee e non le cose ma funziona perché le cose sono copie delle idee. Ogni idea, se vuole essere se stessa, deve non essere le altre idee, in questo caso la negazione definisce come l’affermazione e così è per la definizione di un essere. Ecco che nel tempio dell’essere, il mondo delle idee, è implicito un genere di non essere che è il diverso, Parmenide è stato ucciso; senza il non essere così inteso neppure l’essere può esistere, è una metaidea senza la quale non esisterebbe nulla. Cosa è cambiato? Parmenide parla del tutto, Platone delle idee che sono parti del tutto ma individue, caratterizzate da unità semantica. Questo non centrava con il Parmenide naturista perché per lui non esisteva una sola cosa, ma diceva che in un momento della sua storia la natura non doveva morire ma essere un che di ininterrotto e unitario che permetteva la continuità del mondo e obbligava l’uomo a studiare le cose che compongono il mondo come se fossero ridotte ad unità ma di fatto non sono ridotte. Le idee sono di una molteplicità organica, collegata, armonica, l’idea di uomo è una ma divisibile in due fino ad una catena che la rende organica con tutto, principio uno molti: l’uomo è individuo ma è animale vivente ecc. L’uso che di Parmenide fa Platone può essere funzionale alla sua dottrina, insistendo sul fatto che fosse monista per meglio qualificare la sua filosofia e con più profondità e con un diverso senso di prospettiva storica. Il Parmenide ontologo potrebbe nascere da forzatura del perì physeos che mette in evidenza solo la filosofia d’inverno.
Parmenide e Melisso sono stati tagliati da Platone e Aristotele ma in buona fede, ritenevano che le cose interessanti fossero nella prima parte dei testi. La reinterpretazione di Platone regge ma lascia al di fuori il problema, è Platone che ha inventato l’idea di Parmenide ontologo, egli tratta il problema in maniera specifica nel Sofista. Platone ha considerato Parmenide padre perché ha preso parte dell’essere parmenideo per produrre le idee, ma poi Parmenide non è più tale. Il problema è come è possibile l’errore in Parmenide, il falso se esiste non è falso e se non esiste non si può nominare; ma secondo la nostra interpretazione Parmenide non è interessato a questi problemi, la natura d’inverno deve avere un fondamento assoluto che permane e non va nel non essere. L’idea non è un mattone del muro ma un mattone che ne tiene su un altro altrimenti crollerebbe l’edificio, si dà la definizione attraverso la relazione con quelle che le stanno intorno; in Parmenide si parla invece dell’esistenza e non secondo definizioni, secondo le ipotesi. Si può fare ipotesi dell’uno senza definirlo, cosa succede se c’è e cosa se non c’è all’uno stesso o agli altri oggetti attorno, sempre importante il rapporto tra un’idea e le altre, non si può pensare niente da solo. Se l’uno è che cosa ne viene all’uno e cosa succede a quello che è altro da lui? Questa è la domanda del Parmenide, metodo ipotetico. Anche la presenza o assenza porta a un legame tra le idee perché ci sono conseguenze in rapporto ad altro, si ha una tesi: potrebbe succedere così o così, alla fine si approfondisce e si arriva alle affermazioni definitive. Fra le ipotesi possibili una è vera le altre sono false, Platone espone tutto senza dire quale è vera perché sta esponendo un metodo. Platone nasconde dietro le parole di Parmenide le dottrine non scritte, quella che considerava la via vera; non lo dice perché non è in oggetto la verità e perché i principi non possono essere scritti, vanno esposti oralmente e dialogicamente perché gli scritti hanno bisogno dell’aiuto dell’autore, il padre che li ha generati, che li sorregga e dia loro la giusta interpretazione. Platone era come Radio Londra, dava delle comunicazioni che chi era preavvertito capiva, per chi non era a conoscenza delle sue lezioni sull’uno e sulla diade erano incomprensibili. Le frasi del Parmenide rimandano alla concezione polare dell’uno, se c’è l’uno ci sono i molti, se ci sono i molti ci deve essere il grande e il piccolo. La logica fra le idee è la stessa logica che c’è fra le cose, le idee sono i prototipi delle cose quindi non è pura dottrina del ragionamento; la dottrina delle idee era griffata Platone e tutti lo sapevano. Parmenide è il veicolo di quella parte aperta a tutti che è la logica di Platone utile a muoversi fra le idee e le cose. Il Parmenide è dialogo aporetico, l’uno significa cose tra loro contraddittorie intollerabili dal punto di vista della ragione, letto alla lettera porta allo scetticismo; l’uno non può essere cancellato dal sistema perché ciò vorrebbe dire cancellare il sistema, se l’ipotesi è che l’uno è essa non coinvolge solo l’uno, è possibile che sia non partecipando dell’essere? L’essere viene qui considerato staccato dall’uno, diverso (risultato del sofista); essere e uno hanno significati diversi, ogni volta che evoco l’uno lo distruggo, conseguenza del considerarlo altro dall’essere, l’uno è e non è: se gli tolgo l’essere cancello l’esistenza dell’uno, se lo mantengo non è più uno. L’uno che è diventa identico al tutto, alla somma delle sue parti e questa operazione muove il discorso di Parmenide, ma il tutto non è sinonimo dell’uno, concettualmente diverso; ma questa equiparazione dell’uno col tutto è presente nella concezione naturistica di Parmenide. L’uno sarebbe un tutto di cui siano parti l’uno e l’essere, è l’unico modo per farlo essere; è la somma di due cose, il tutto e la parte, l’uno che è si chiama tutto. Ciò che è uno è un tutto e siccome è un tutto ha parti, la natura è un tutto che ha parti. Luno sempre implica l’essere e l’essere l’uno, l’uno si sdoppia di continuo, per esaminare l’uno sono costretto ad affermarlo come essere e quindi a sdoppiarlo, o meglio dicendo che è tutto lo diversifico, polivocità della natura: essa si diversifica in primavera e ritorna unitaria in inverno. Le categorie sono quindi l’uno l’essere e il diverso, le stesse dello studio della natura. Il Parmenide è un encefalogramma da sforzo, leggi dal punto di vista delle dottrine non scritte che dicono subito che l’uno c’è e non c’è allo stesso tempo, esiste l’uno che continuamente si moltiplica quando è in contatto con la diade, la diversità è il risultato dell’uno sulla diade, il principio di tutte le cose è polare e c’è perché c’è la diade. L’uno deve essere in se stesso e nelle parti perché altrimenti si dissolvono; ogni ente si sdoppia di continuo, dunque non c’è pensiero e tutto si polverizza ma se prevale la diade, se c’è equilibrio pur instabile tutto tende a polverizzarsi e tende a unificarsi, arrivo a stati sempre meno organizzati ma senza arrivare al niente, sarà sempre un principio armonico, più o meno ma armonico. Parmenide ha trasformato uno e essere in mereologia in questo dialogo, ha fatto dell’uno il tutto e la sua logica è paradossale, sembra non avere che questa nozione e la seconda tesi è retta dalla logica delle parti. In Platone nella dottrina delle idee c’è la compartecipazione delle idee, secondo la concezione mereologica diventa da condivisione a suddivisione. La condivisione è forma di partecipazione e non consuma la partecipazione, tutti i viventi partecipano dell’idea di vivente che però non viene meno ma si rafforza; la suddivisione che appartiene alla concezione materialistica della realtà muove in senso inverso, dividendosi diminuisce la quantità residua. Trasformare l’essere da uno a tutto sconvolge i risultati ma storicamente è l’interpretazione più corretta, aporetica globale assoluta, l’uno si polverizza di continuo diventando i molti, i numeri, il paragone, il grande e il piccolo. Parmenide risulta la descrizione in termini materiali o iperfisici di un discorso metafisico, ci sono campi di pensiero che non hanno corrispondenza biunivoca e la traduzione del mondo di Parmenide nel mondo di Platone crea aporie tali da non permettermi di parlare, c’è stata una rottura che rende Parmenide incomprensibile a Platone. Il passato è chiuso, la rivoluzione è avvenuta e non è molto comprensibile, è necessario calarsi nella bolla di quel modo di pensare ormai perso.
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