Testo descrittivo
27 Gennaio 2019Dipinti di Antonello da Messina
27 Gennaio 2019di Francesco Leone Grotti
dal Corriere dei ciechi
Fino all’anno scorso Alissa si vedeva come un moderno Don Chisciotte: da sola a combattere contro un mondo ostile e ottuso. Con la differenza che al posto di Sancho Panza, al suo fianco c’erano i genitori e una grande passione per la letteratura greca e latina; e invece dei mulini a vento, la burocrazia degli atenei e le abitudini consolidate e spigolose, difficili da smussare, dei professori universitari.
“Quando ti ritrovi a girare per mezz’ora come una trottola lungo i corridoi della Cattolica perché devi andare a lezione, ma le aule non sono indicate in Braille, ti senti letteralmente tagliata fuori. E quando chiedi di aggiungere la dicitura per ciechi fuori dalle porte e ti senti rispondere “no, sarebbe antiestetico”, ti fa proprio… Ci siamo capiti?”.
Alissa, non vedente fin dalla nascita, si fa capire benissimo ed è per questo che ascoltando il tono della voce squillante con cui racconta la sua storia, a tratti con indignazione, a tratti in modo ironico e divertito, non si può non notare che qualcosa è cambiato da quei momenti pieni di sconforto. Alissa ha 21 anni, frequenta il terzo anno di università, vive da un mese in un appartamento con sei amiche e sta preparando la tesi su Trifiodoro. L’idea, “sempre che vada tutto bene”, è quella di laurearsi a dicembre prossimo e iscriversi alla specialistica di Lettere classiche.
Le battaglie con i professori per essere messa in condizione di lavorare come i suoi compagni di corso, i mesi di studio per imparare la strada da piazzale Cadorna a largo Gemelli, le ricerche per trovare qualcuno che trascrivesse i testi universitari in Braille a un prezzo ragionevole e un milione circa di altre prove e fatiche quotidiane da affrontare, non l’hanno resa né cinica e delusa né un supereroe. Al contrario, hanno contribuito alla crescita di una ragazza che, come tante durante il periodo universitario, comincia a farsi strada nel mondo con il sostegno dei genitori, degli amici e della fede.
“Non è scontato che un cieco faccia l’università” racconta Alissa, in attesa che alla grande tavola quadrata del suo appartamento in Porta Ticinese vengano servite le trofiette al pesto cucinate da Aurora, studentessa di lettere moderne e genovese doc. “Vent’anni fa era una cosa dell’altro mondo e non poteva succedere se non in casi rarissimi. Purtroppo, ci sono ancora delle impostazioni che risalgono a quell’epoca”. Ad esempio, la stampa dei testi di studio in Braille, che denota il persistere di una mentalità: “L’Istituto dei Ciechi di via Vivaio stampa gratuitamente tutti i libri dall’asilo alle superiori. Poi quando arrivi all’università, basta. Fortunatamente entra in campo la Biblioteca nazionale di Monza che se fai delle richieste, ti aiuta. Anche perché se dovessi pagare per ogni libro, sarebbe davvero caro. Mi sono fatta fare il preventivo per la Retorica di Aristotele: per un libro che costa nove euro, avrei dovuto pagarne 1900”.
La ricerca dei testi, e la conseguente organizzazione della sessione di esami in base a quelli che si riescono a trovare, è solo uno dei problemi che Alissa affronta quando decide di iscriversi all’università. Una scelta di cui i genitori erano sicuri da sempre, lei un po’ meno: “All’inizio ero dubbiosa. I miei poi volevano che studiassi giurisprudenza o economia. Io invece mi sono resa conto solo negli ultimi anni delle superiori di avere attitudine per le materie umanistiche e ho deciso di lanciarmi”. La scelta ricade sull’Università Cattolica del Sacro Cuore, un ateneo semplice da vivere rispetto a molti altri: “La Cattolica ha sedi distaccate molto vicine. Già questo per me è un bel vantaggio. Tutto ruota intorno a largo Gemelli e Santa Agnese. Una volta che hai imparato la strada che le unisce, puoi girare tutta l’università”.
Una volta che hai imparato la strada, però. Alissa è di Senago, comune a una decina di chilometri da Milano, e per raggiungere i famosi chiostri del Bramante deve compiere diversi passaggi: “Prima di entrare in appartamento, ho fatto avanti e indietro per due anni da casa mia all’università. I miei mi accompagnavano in macchina fino a Bollate, da lì prendevo il treno e da Cadorna via a piedi”. Ma la stazione non è quello che si definisce un posto tranquillo, specie la mattina all’ora di punta, quando il viavai delle persone non guarda in faccia nessuno, tanto meno un cieco. Così, per diversi mesi, Alissa si ritrova a Cadorna con un istruttore, che le insegna strada e orientamento allo stesso tempo: “Ho imparato tantissimo. Il mio istruttore mi ha abituata a ragionare sugli ambienti spiegandomi il percorso e mi ha fatto capire che la cosa più importante non sono i punti di riferimento, che possono cambiare e fuorviarti, ma la direzione. Quando ne hai una, bisogna proseguire e aggirare gli ostacoli. Si può anche sbagliare, ma si fa sempre a tempo a rimettersi in carreggiata”.
Alissa a settembre prende decisa la direzione della laurea e gli ostacoli, più che gli esami, sono i docenti: “Affrontarli è difficile. Nel senso che molte volte non hanno voglia di imparare cose nuove o adattare i propri metodi a un cieco. Una volta, a un test di ingresso mi hanno buttata fuori; un’altra, la prof. di greco non voleva darmi le esercitazioni. Ora, in certi casi bisogna essere ragionevoli. Io non pretendo di avere in anticipo la versione da tradurre all’esame. Però, disporre qualche giorno in anticipo dei testi che usiamo in classe per esercitarci, quello sì. Mi serve perché io, prima di tradurre, devo farmi dettare al computer il testo in greco”.
Alissa non vuole l’assistenzialismo, ma neanche che si chiudano gli occhi davanti alle differenze: “Quando la prof. mi ha risposto che non potevo avere le esercitazioni perché gli altri studenti non le avrebbero avute, avrei voluto ricordarle che non siamo tutti uguali, non è possibile uniformare tutto”. Neanche i docenti però sono tutti uguali e c’è chi accetta la sfida di lavorare a stretto contatto con una non vedente. Ad esempio, per la tesi: “Una prof. si è mostrata contenta di iniziare un percorso con me, mi ha visto come una risorsa e adesso studio Trifiodoro. Mi attira l’idea di poter dialogare con i grandi autori del passato, di poter ascoltare la loro voce nella lingua originale. Mi affascina e mi trovo a mio agio con i testi”.
Non solo con quelli. Alissa vive in appartamento con sei amiche da appena un mese e non è per nulla pentita di aver fatto un salto che i suoi genitori non hanno ostacolato: “Io sto benissimo a casa, senza i miei genitori non avrei mai potuto fare niente. Non volevo fuggire, però sentivo il bisogno di avere spazi diversi, volevo più libertà. I vent’anni si fanno sentire per tutti, e anche mia mamma alla lunga l’ha capito. Andare ad abitare lontano dalle mura di casa per me è stato un passo incredibile, non facile perché mi rendo conto che devo imparare tantissimo. Io certe cose non le ho mai fatte. Le pulizie, ad esempio, o tenere in ordine l’appartamento: i miei genitori non mi hanno mai fatto fare nessun lavoro di casa, volevano che studiassi e basta. Io invece voglio imparare”.
“E lo sta facendo” interviene Benedetta, mentre le aggiusta nel piatto, senza farsi notare, un pezzo di salsiccia che Alissa stava per far cadere inavvertitamente sulla tovaglia. “Noi le facciamo fare le pulizie: passa lo straccio in sala, toglie la polvere e lava anche i piatti”.
“Mi ha insegnato lei” ribatte Alissa, “e mi piace molto”.
Benedetta le versa l’acqua nel bicchiere, mentre Aurora spiega: “Certo, non abbiamo accettato che una cieca venisse a vivere con noi a cuor leggero. Però devo ammettere che le difficoltà che mi immaginavo all’inizio, poi si sono risolte senza troppi traumi. Io mi chiedevo, ad esempio, come avremmo fatto per i turni in cucina, per quelli della spesa. Noi mangiamo assieme e facciamo uno spesone ogni settimana. Alla fine abbiamo risolto così: quando si va al supermercato, lei e Teresa tengono i conti mentre noi prendiamo le cose”.
Per quanto possa sembrare strano, per le sue amiche ci sono anche dei vantaggi a vivere con lei: “Io all’inizio lasciavo sempre tutto in giro, facevo un gran disordine” racconta Martina. “Oddio, non che adesso le cose siano cambiate chissà quanto, però ci sto molto più attenta”. Nessuno ha voglia di nascondere le difficoltà che la convivenza presenta e la stessa Alissa ammette: “Mi rendo conto di essere una rompiscatole. Chiedo sempre che cosa c’è da fare, come posso dare una mano, perché non vedendo non me lo posso inventare. E quindi scoccio tutti e chiedo in continuazione, ma lo faccio perché voglio essere parte di questa casa e non voglio avere sconti perché sono cieca, sarebbe un di meno per me”.
Alissa non entra in un appartamento qualunque. Anche se non conosceva tutte le ragazze che avrebbero abitato con lei, sapeva a che cosa andava incontro: “L’anno scorso avevo appena cominciato a girare da sola in università, non mi facevo più aiutare da quelli del servizio integrazione, e avevo riscontrato le prime difficoltà. Facevo una fatica dell’accidente a rintracciare le aule, non trovavo collaborazione nei professori, mi sentivo tagliata fuori, svantaggiata in partenza rispetto a tutti gli altri. La passione per lo studio e gli esami che andavano bene e i miei genitori, mi hanno sempre sostenuto nei momenti di difficoltà, ma ho capito che le lettere classiche non mi potevano realizzare totalmente”.
E’in questo periodo che a lezione conosce degli amici ed entra a far parte di un coro composto da studenti: “A me piace cantare, ma quando sono entrata nel coro ero furiosa con il mondo. Lì ho incontrato una prospettiva diversa e ho smesso di vedermi da sola contro tutti: il fatto di ascoltare tanto gli altri, di uniformare il timbro della voce a quello del coro, di cercare di formare una voce unica e cantare consapevole della bellezza che si porta a tutti. Questo mi ha aiutato. Poi ho scoperto la fede quell’anno, ho cominciato a capire meglio il perché di alcune cose che mi sono successe, e quando alcune mie amiche mi hanno raccontato della vita che facevano in appartamento, dove condividevano tutto e non solo uno spazio, ci sono andata anch’io. E adesso sto davvero bene: ogni sera c’è qualche ospite e anch’io invito i miei amici: questo spazio inizia a diventare anche mio”.
Alissa riordina le posate sul tavolo e si sistema gli occhiali da vista sul naso. Sembra un paradosso, ma porta lenti graduate da quando ha tre anni perché, anche se non può vedere, i suoi occhi sono sani: “L’ultima visita che ho fatto a luglio è stata positiva. La mia retina è abbastanza spessa per trapiantarci quella proteina che è codificata male e che non mi permette di vedere, anche se tutte le componenti del mio occhio sono sane. Il vero problema è sintetizzare questa proteina, ci vuole un lavoro di ingegneria genetica, a cui una ricercatrice di Parma sta lavorando. Per questo vale la pena di tenere gli occhi in allenamento”.
Alissa non parla mai di acquisire la vista, forse per scaramanzia. Intanto però continua a studiare: “Dopo la laurea vorrei fare la specialistica. E un giorno, chissà, non mi dispiacerebbe insegnare”.
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