Introduzione a Omero
28 Dicembre 2019Poetica classicista e poetica romantica
28 Dicembre 2019
Testo del racconto Osservando una selce lavorata di Daniel Rops
Quando d’estate mi metto a lavorare all’aria aperta, il fermacarte, sul mio tavolo, che impedisce al vento del lago di rubarmi il foglio su cui scrivo, è un’ascia di pietra. Nel suo genere è un bell’oggetto: dell’epoca delle caverne, a quanto mi dicono. Il suo costruttore lo ha fatto evidentemente con molta cura, anche con arte. Ha una forma armoniosa, larga a un’estremità, affilata
all’altra. Le schegge sono state staccate con una regolarità tanto perfetta da far supporre molta pazienza ed abilità. Al tatto questa pietra sembra di seta, da quanto si è levigata al contatto delle palme.
Mi capita spesso di pensare a quell’antenato che in tempi immemorabili tenne fra le sue mani quest’oggetto che io tengo oggi fra le mie: era un uomo, un uomo come me, un uomo e non soltanto in virtù di una certa conformazione delle membra e di una certa struttura dello scheletro, ma anche per quella forza misteriosa, inesplicabile, che gli permise di fabbricare un’arma simile –
che nessuna scimmia superiore aveva mai saputo fare – la stessa forza che suscita intorno a me le più strabilianti meraviglie della tecnica, certo la stessa che fa correre la mia penna sulla carta.
Donde veniva quella forza? Da cosa promanava quel potere che centinaia di migliaia di anni fa causò invenzioni portentose, più portentose di tutte le nostre, perché partivano dal nulla, come il primo utensile e il primo fuoco?
Quando sulle rive della Dordogna o del Vézère un cacciatore di belve tagliava, un colpo dopo l’altro, un masso di selce per trarne la mia arma, già da molto tempo l’umanità esisteva, già da molto tempo un animale simile in apparenza agli altri, era stato trasformato da un misterioso potere in questo essere capace di riflettere, di legare insieme le idee, di creare, l’artefice dell’opera che è oggi sul mio tavolino. Perché e come era accaduto questo cambiamento? Perché e come l’uomo divenne uomo? Questa selce lavorata m’interroga, ripropone la domanda nella notte dei tempi.
Si vorrebbe poter risalire – attraverso la tenebra impenetrabile – fino al momento sublime, che durò forse qualche migliaio di anni, in cui si operò la prodigiosa metamorfosi. Avvenne forse per una repentina comparsa dell’intelligenza e della coscienza? Avvenne secondo la legge spontanea di una lenta maturazione, di una fioritura? Chi può saperlo? Che forma aveva, in realtà, la mano che Dio Padre tende al primo uomo sul soffitto della Sistina?
Di qual natura era il soffio che immise un’anima nell’organismo umano?
Domande senza risposta. Sappiamo e possiamo dire soltanto che fu un avvenimento senza pari, lo spostamento su un nuovo piano, un abisso varcato. Nessun processo evolutivo riesce a spiegarlo in modo soddisfacente: fu un vero atto di creazione.
Lo capiva, quel remoto antenato? Si rendeva conto di ciò che differenziava lui e tutti i suoi simili dalle bestie fra cui viveva, ora cacciatore ora cacciato, lottando come loro, per garantirsi la possibilità di sopravvivere e di riprodursi? Sapeva lui, così debole, il più nudo e inerme di tutti gli animali, di possedere un’arma invisibile, più efficace di tutte, l’intelligenza, che gli
avrebbe permesso di affermare il suo dominio sul mondo vivente e sulla materia inorganica? Fino a che punto giungeva in quel cervello ancora confuso e ottenebrato la coscienza della sua condizione, dei suoi rischi e delle sue possibilità? Un portentoso avvenire era in lui, ed egli non lo sapeva.
Forse è così anche per noi. Proprio quando osserviamo con angoscia lo spettacolo di un’umanità straziata, sopraffatta dal dolore e dalle miserie, inconscia dei pericoli cui va incontro e da questi stessi affascinata, non ci accade forse talora di avere il presentimento, per indefinibili segni interiori, per indefinibili richiami segreti, di un’altra umanità che si cela nel futuro e
vuol nascere, un’umanità più chiaroveggente, più giusta, più perfetta, più fedele insomma alla forza che è in lei e che fin dalla preistoria la spinge sempre verso l’alto?
“Noi siamo gli ultimi neolitici”, disse l’abate Breuil. Chi sa che nel profondo della sua anima ancora incerta il cacciatore di belve che fece la mia ascia di selce non presentisse l’umanità futura, in attesa di nascere, solo per il fatto che pensando, operando, lavorando egli ubbidiva alla forza creatrice, alla divina potenza che era stata messa in lui?
Mistero, domanda senza risposta. Senza risposta? Forse non del tutto: forse le scoperte degli studiosi di preistoria e degli archeologi contengono i germi di una soluzione. Se è vero che le figure di animali, di un realismo impressionante, che si trovano sulle pareti di grotte che fanno pensare piuttosto a templi che ad abitazioni, furono eseguite con un intento simbolico, se è vero che dovevano esercitare un’azione occulta sulla selvaggina a cui si dava la caccia, non abbiamo forse la prova che i loro autori credevano già ad una realtà ultra-sensoriale, che ammettevano letteralmente
un soprannaturale, non importa se ancora grossolano, elementare? E quei resti di tombe, quegli scheletri a cui evidentemente si era data sepoltura nella terra, quegli oggetti familiari messi accanto ai morti, non significano forse che già per quegli uomini la vita non cessava completamente con la morte, ma che una sopravvivenza, anche questa elementare e rudimentale, doveva essere ammessa, un presentimento dell’esistenza dell’anima esisteva già in quelle coscienze ancora tanto annebbiate?
Difficile immaginare cosa rappresentò quella terribile scoperta. Dall’istante in cui fu uomo, cioè da quando ebbe un’intelligenza e una coscienza, l’uomo dovette trovarsi di fronte a due grandi leggi fondamentali della vita: che la libertà umana è limitata, e che si nasce per morire. Quando fu divenuto lui solo, “l’animale che sa di dover morire”, l’uomo cominciò a portare in sé un dolore senza rimedio. Quale fu la sua reazione? Ira, ribellione, acquiescenza, fede? La risposta è nei fatti. Nonostante tutti gli errori e i brancolamenti, questa umanità che scopriva davanti a sé la morte seppe vivere. Non ha sradicato l’angoscia, ma l’ha dominata: ne ha fatto il suo più potente impulso di vita. La forza di creazione, d’invenzione, di progresso, di continua realizzazione, è stata infine più decisiva di tutte le sollecitazioni di morte.
Doveva davvero essere opera di Dio.
Nelle sere di estate, in quelle ore immote in cui gli uomini provano in cuore un’angoscia segreta per l’avvicinarsi della fine di un bel giorno, penso talvolta al cacciatore antichissimo che fabbricò la mia ascia, e lo immagino in un momento simile.
Ha interrotto il lavoro. L’eco delle rocce non rimanda più il batter dei colpi di selce. L’uomo ha alzato la testa, medita, pensa, sogna: certo in modo confuso, ma forse più del mio? Si domanda che cosa significhi il mondo che lo circonda; il fatto di vivere; la morte che lo attende. Sa formulare una risposta?
E io, la so formulare?