Attraverso un sapiente gioco di movimento e orientamento, i due superano Lucifero e passano, con un’inversione di prospettiva, al mondo della luce, salutando così il regno infernale per dirigersi verso la luce del Purgatorio.
Nel brano, Virgilio, dopo aver calmato Dante e spiegato l’origine e l’effetto del cambiamento di orientamento al superamento del centro della Terra, si appresta a trasportarlo lungo la discesa dalle pelose ali di Lucifero. Raggiunta una galleria oscura e stretta (natural burella), i due risalgono senza soste fino a intravedere la luce del cielo. Con i celebri versi finali “E quindi uscimmo a riveder le stelle”, Dante celebra la vittoria sulla discesa nell’abisso e il ritorno alla speranza e alla luce.
Questo finale enfatizza il superamento del male e apre alla speranza e alla luce del Purgatorio, in un simbolismo che unisce la resurrezione spirituale al ritorno alla natura e alla vita.
Solo testo dei versi 70-139 del trentatreesimo canto dell’Inferno di Dante
Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e loco poste,
e quando l’ali fuoro aperte assai, 72
appigliò sé a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia
tra ’l folto pelo e le gelate croste. 75
Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l’anche,
lo duca, con fatica e con angoscia, 78
volse la testa ov’elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com’om che sale,
sì che ’n inferno i’ credea tornar anche. 81
“Attienti ben, ché per cotali scale”,
disse ’l maestro, ansando com’uom lasso,
“conviensi dipartir da tanto male”. 84
Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso
e puose me in su l’orlo a sedere;
appresso porse a me l’accorto passo. 87
Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero com’io l’avea lasciato,
e vidili le gambe in sù tenere; 90
e s’io divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede
qual è quel punto ch’io avea passato. 93
“Lèvati sù”, disse ’l maestro, “in piede:
la via è lunga e ’l cammino è malvagio,
e già il sole a mezza terza riede”. 96
Non era camminata di palagio
là ’v’eravam, ma natural burella
ch’avea mal suolo e di lume disagio. 99
“Prima ch’io de l’abisso mi divella,
maestro mio”, diss’io quando fui dritto,
“a trarmi d’erro un poco mi favella: 102
ov’è la ghiaccia? e questi com’è fitto
sì sottosopra? e come, in sì poc’ora,
da sera a mane ha fatto il sol tragitto?”. 105
Ed elli a me: “Tu imagini ancora
d’esser di là dal centro, ov’io mi presi
al pel del vermo reo che ’l mondo fóra. 108
Di là fosti cotanto quant’io scesi;
quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto
al qual si traggon d’ogne parte i pesi. 111
E se’ or sotto l’emisperio giunto
ch’è contraposto a quel che la gran secca
coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto 114
fu l’uom che nacque e visse sanza pecca;
tu haï i piedi in su picciola spera
che l’altra faccia fa de la Giudecca. 117
Qui è da man, quando di là è sera;
e questi, che ne fé scala col pelo,
fitto è ancora sì come prim’era. 120
Da questa parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fé del mar velo, 123
e venne a l’emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui loco vòto
quella ch’appar di qua, e sù ricorse”. 126
Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto 129
d’un ruscelletto che quivi discende
per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,
col corso ch’elli avvolge, e poco pende. 132
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d’alcun riposo, 135
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’i’ vidi de le cose belle
che porta ’l ciel, per un pertugio tondo. 138
E quindi uscimmo a riveder le stelle.