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28 Dicembre 2019La conclusione di “Uno, Nessuno e Centomila” di Luigi Pirandello è nota per essere aperta e ambigua, lasciando spazio a diverse interpretazioni da parte dei lettori.
La storia di Vitangelo Moscarda sembra non avere una risoluzione definitiva, lasciando aperti molti dei dilemmi e dei conflitti interiori affrontati dal protagonista.
Invece di offrire una chiusura netta, Pirandello lascia il finale aperto, invitando i lettori a riflettere sulle tematiche trattate nel romanzo e a trarre le proprie conclusioni riguardo al destino e all’evoluzione del protagonista. Questa mancanza di conclusione definitiva è in linea con lo stile dell’autore, che spesso esplora l’ambiguità e la complessità della condizione umana nelle sue opere.
In questo modo, Pirandello invita i lettori a continuare a riflettere sulle tematiche del romanzo anche dopo aver terminato la lettura, permettendo loro di trovare significati personali e di approfondire le proprie riflessioni sull’identità, la percezione e la ricerca di sé.
“Uno, nessuno e centomila” capitolo finale: “Non conclude”
Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più.
Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero.
Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo. L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’ alba , perché ora voglio serbare lo spirito così, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono, che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli.
Quelle nubi d’acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi , che fanno parere più larga e chiara, nella grana d’ombra ancora notturna, quella verde plaga di cielo . E qua questi fi li d’erba, teneri d’acqua anch’essi, freschezza viva delle prode.
E quell’ asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani cominciando, ma senza stupore, a schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga appena sulle campagne deserte e attonite. E queste carraje qua, tra siepi nere e muricce screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno . E l’aria è nuova.
E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire . Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.
La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro , il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioia nella loro cavità ronzante , in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridio delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aerei.
Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno; perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.