Il gelsomino notturno di Pascoli
28 Dicembre 2019Dante Paradiso XXXIII vv. 67-145
28 Dicembre 2019Il Canto XIII dell’Inferno di Dante Alighieri si svolge nel secondo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro se stessi, cioè i suicidi e gli scialacquatori dei propri beni.
Questo canto è caratterizzato da un’atmosfera cupa e inquietante, poiché i suicidi vengono trasformati in piante e alberi torturati da Arpie e da altri dannati. Il tema centrale del canto è il rapporto tra corpo e anima, con particolare attenzione alla perdita di entrambe da parte dei suicidi, che hanno violato il dono divino della vita.
Analisi del canto
La selva dei suicidi
Dante e Virgilio entrano in una selva intricata e oscura, diversa dalle altre parti dell’Inferno:
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco. (vv. 4-6)
La foresta è desolata, priva di vita e caratterizzata da rami contorti, colori scuri e fronde velenose. Questa descrizione mette in evidenza la sofferenza delle anime che vi sono imprigionate. Le anime dei suicidi non hanno un corpo umano; esse sono diventate parte di questa vegetazione sterile e dolorosa. La loro punizione consiste nel perdere la forma corporea, poiché in vita hanno scelto di distruggere il proprio corpo con il suicidio.
Il dialogo con Pier delle Vigne
Mentre attraversano la selva, Virgilio invita Dante a spezzare un ramo da uno degli alberi. Quando Dante obbedisce, dal ramo spezzato esce sangue e si sente un grido di dolore:
Perché mi schiante?
non hai tu spirto di pietade alcuno? (v. 33)
Da qui inizia il dialogo con l’anima di Pier delle Vigne, un importante ministro dell’imperatore Federico II, che spiega la sua tragica storia. Pier delle Vigne era caduto in disgrazia e, accusato ingiustamente di tradimento, aveva scelto di suicidarsi. Egli è un esempio di una figura che, pur essendo stata vicina al potere, ha ceduto alla disperazione e ha distrutto il dono divino della vita:
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto. (vv. 70-72)
Pier descrive la sua disperazione e il suo atto come un errore nato dal disprezzo per le accuse ricevute. Nel suo discorso emerge anche un tono di rimpianto per la perdita di tutto ciò che aveva costruito nella sua vita.
La punizione dei suicidi
Pier delle Vigne spiega a Dante la legge del contrappasso che regola la punizione dei suicidi. Dopo la morte, la loro anima viene inviata nell’Inferno, dove precipita nella selva e si trasforma in un albero o un cespuglio:
Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’ capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via, (vv. 40-42)
A differenza degli altri dannati che riacquistano i loro corpi nel giorno del Giudizio Universale, i suicidi non riavranno mai pienamente la propria forma fisica. I loro corpi saranno lasciati penzolare sugli alberi ai quali le loro anime sono legate, come ulteriore tormento. Questa condizione rappresenta il fatto che, avendo rifiutato il proprio corpo in vita, ora non potranno più riprenderselo.
Gli scialacquatori
Dante e Virgilio assistono poi a una scena violenta: due anime corrono nella foresta, seguite da cagne infernali. Una di queste anime si getta in un cespuglio per nascondersi, ma viene dilaniata dai cani. Questo episodio introduce la figura degli scialacquatori, coloro che hanno distrutto i propri beni materiali. Sebbene non abbiano commesso suicidio fisico, essi hanno dissipato tutto ciò che avevano, mostrando una simile mancanza di rispetto per i doni divini.
Temi principali
- Il rapporto tra corpo e anima: Il canto esplora il tema della scissione tra corpo e anima e la punizione per coloro che volontariamente distruggono il proprio corpo. I suicidi perdono il loro corpo umano e sono condannati a un’eternità di sofferenza come alberi e cespugli.
- Il contrappasso: La legge del contrappasso regola la punizione dei dannati. I suicidi, avendo distrutto il proprio corpo, sono condannati a vivere senza di esso. Il loro stesso sangue, che fuoriesce quando i loro rami vengono spezzati, rappresenta il dolore per la perdita del proprio corpo.
- Il suicidio e la disperazione: Il suicidio, nella visione di Dante, è un atto di disperazione che nega la possibilità della salvezza. L’idea che la vita sia un dono divino e che sia sacra è centrale nella concezione medievale del peccato. Il suicidio è visto come un rifiuto della speranza, che è uno dei fondamenti della fede cristiana.
- La natura distorta della selva: La selva dei suicidi è un luogo oscuro e innaturale, dove ogni forma di vita è corrotta. Questo rappresenta l’idea che la morte volontaria violi l’ordine naturale stabilito da Dio.
Conclusione
Il Canto XIII dell’Inferno è uno dei canti più potenti della Divina Commedia, in cui Dante esplora le conseguenze spirituali del suicidio e della distruzione dei beni materiali. Attraverso l’incontro con Pier delle Vigne e gli altri dannati, Dante riflette sul valore della vita e sul ruolo della disperazione e del rimpianto nell’eterna punizione infernale.
Solo testo del tredicesimo canto dell’Inferno di Dante
“Oh!”, diss’io lui, “non se’ tu Oderisi,
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch’alluminar chiamata è in Parisi?”. 81
“Frate”, diss’elli, “più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
l’onore è tutto or suo, e mio in parte. 84
Ben non sare’ io stato sì cortese
mentre ch’io vissi, per lo gran disio
de l’eccellenza ove mio core intese. 87
Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio. 90
Oh vana gloria de l’umane posse!
com’ poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l’etati grosse!93
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura. 96
Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido. 99
Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato. 102
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il ’pappo’ e ’l ’dindi’,105
pria che passin mill’anni? ch’è più corto
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto. 108
Colui che del cammin sì poco piglia
dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
e ora a pena in Siena sen pispiglia,111
ond’era sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com’ora è putta. 114
La vostra nominanza è color d’erba,
che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerba”. 117
E io a lui: “Tuo vero dir m’incora
bona umiltà, e gran tumor m’appiani;
ma chi è quei di cui tu parlavi ora?”. 120
“Quelli è”, rispuose, “Provenzan Salvani;
ed è qui perché fu presuntüoso
a recar Siena tutta a le sue mani. 123
Ito è così e va, sanza riposo,
poi che morì; cotal moneta rende
a sodisfar chi è di là troppo oso”. 126
E io: “Se quello spirito ch’attende,
pria che si penta, l’orlo de la vita,
qua giù dimora e qua sù non ascende,129
se buona orazïon lui non aita,
prima che passi tempo quanto visse,
come fu la venuta lui largita?”. 132
“Quando vivea più glorïoso”, disse,
“liberamente nel Campo di Siena,
ogne vergogna diposta, s’affisse;135
e lì, per trar l’amico suo di pena,
ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo,
si condusse a tremar per ogne vena. 138
Più non dirò, e scuro so che parlo;
ma poco tempo andrà, che ’ tuoi vicini
faranno sì che tu potrai chiosarlo. 141
Quest’opera li tolse quei confini”.