Pascoli si distinse per una poetica innovativa, incentrata sull’osservazione della natura, del quotidiano e delle esperienze intime, attraverso uno sguardo che egli definì “poetica del fanciullino”. Secondo questa concezione, il poeta deve mantenere una sensibilità infantile, capace di cogliere la meraviglia e il mistero del mondo in ogni suo aspetto, anche nelle sue manifestazioni più semplici e apparentemente insignificanti. La natura, i paesaggi rurali e i piccoli dettagli della vita quotidiana diventano quindi simboli di una realtà più vasta e misteriosa, a volte legata alla sofferenza e alla morte.
La sua raccolta più famosa, Myricae (1891), riflette questo approccio: si tratta di una serie di componimenti brevi e intensi, spesso ispirati a scene di vita campestre, dove emerge un costante rapporto tra la bellezza della natura e il dolore esistenziale. Altre opere rilevanti includono I Canti di Castelvecchio (1903) e Poemetti (1897-1904), che consolidano la sua fama di poeta capace di creare una lirica profondamente introspettiva e simbolica.
Dal punto di vista stilistico, Pascoli sperimenta nuove forme e linguaggi, lontani dai modelli classici e dalle convenzioni retoriche del passato. Il suo uso frequente dell’onomatopea, di immagini evocative e di una sintassi frammentata riflette una modernità che lo avvicina alle avanguardie del Novecento. Tuttavia, la sua poesia non è solo una risposta alla crisi del soggetto e ai dilemmi esistenziali della modernità, ma un tentativo di ristabilire un legame con un’umanità universale e con la natura.
In sintesi, Giovanni Pascoli rappresenta un punto di svolta nella poesia italiana, con una produzione che anticipa alcune delle tematiche e delle forme della letteratura del XX secolo, pur rimanendo profondamente radicata nelle esperienze personali e nella tradizione italiana.