Decadentismo e novecento
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28 Dicembre 2019Emilio Praga è uno dei principali esponenti della Scapigliatura, un movimento letterario e artistico italiano che rifiutava i valori borghesi e celebrava il disincanto e l’anticonformismo.
Nella poesia “Preludio”, si percepisce appieno il senso di disillusione e decadenza tipico di questo movimento.
Praga rappresenta con forza il disagio esistenziale della sua generazione, afflitta dalla perdita di ideali e da una crisi morale e culturale che permea tutta la sua opera.
Introduzione
La poesia di Emilio Praga che analizziamo è un lamento amaro e desolato, che riflette la frattura tra la generazione moderna e i valori del passato. Praga esprime la crisi spirituale del suo tempo, in cui i vecchi ideali sembrano ormai irrecuperabili e l’uomo moderno vaga privo di certezze. I riferimenti religiosi e iconografici, come il Calvario, il Sudario, Cristo, vengono qui utilizzati per rappresentare la perdita del sacro e dell’ispirazione divina. L’ultimo verso della poesia rivela il cuore del messaggio di Praga: la verità, per quanto dolorosa e amara, è l’unico valore che il poeta si sente in dovere di cantare.
Analisi
La poesia inizia con una dichiarazione devastante: “Noi siamo i figli dei padri ammalati”. I “padri ammalati” rappresentano la generazione precedente, coloro che hanno trasmesso alla generazione di Praga una cultura e una morale in crisi. L’immagine delle “aquile al tempo di mutar le piume” rafforza l’idea di una forza che sta perdendo il suo vigore, di una grandezza che ormai è solo un ricordo. Queste aquile, simbolo tradizionale di nobiltà e potere, non volano più alte e fiere, ma “svolazzano mute”, spente e affamate, sopra l’agonia di un “nume” (un dio morente, simbolo dell’antica autorità morale e culturale).
Il riferimento all’”arca” e all’idolo d’oro richiama la storia biblica dell’Antico Testamento: l’arca dell’alleanza, simbolo del patto tra Dio e gli uomini, è ora solo un ricordo lontano, una “nebbia remota”. Il patriarca che aspetta invano rappresenta la figura religiosa o morale che non riceve più il segno del divino: la società ha ormai voltato le spalle ai valori trascendenti, e l’uomo ha sostituito Dio con nuovi idoli.
Praga prosegue parlando della “musa bianca”, simbolo della purezza e dell’ispirazione poetica legata a una dimensione sacra, che ha abitato per venti secoli il “Calvario”, il luogo del sacrificio di Cristo. Ora, però, questa musa non ha più alcuna forza, e la vergine (l’ispirazione poetica stessa) si aggrappa invano al Sudario di Cristo, simbolo di una fede morente.
I versi successivi, “Cristo è rimorto!”, segnano la sconfitta definitiva degli ideali cristiani e morali che hanno guidato l’umanità per secoli. Il poeta si rivolge a un “casto poeta”, forse un simbolo degli artisti del passato, dicendogli che può morire, poiché ormai il mondo è dominato dagli “antecristi”, le forze del male, e Cristo è morto per la seconda volta, nel senso che gli ideali cristiani non hanno più alcuna presa sull’anima moderna.
Nella seconda parte della poesia, il poeta si rivolge direttamente al “nemico lettore”, con un tono provocatorio e dissacrante, dichiarando che canta la “Noja”, l’eredità del dubbio e dell’ignoto. Questo verso introduce la “noia” esistenziale, uno dei temi centrali del decadentismo e della scapigliatura, il senso di vuoto e disillusione che caratterizza la vita moderna. Praga, in un atto di sfida, si definisce il cantore della decadenza e della sofferenza, mescolando immagini di religione e perdizione. Egli canta le “litane di martire e d’empio”, riconoscendo in se stesso sia il peccatore che il martire, mentre celebra i “sette peccati” che albergherebbero nel suo cuore come in un tempio.
Il poeta è combattuto tra un anelito verso l’ideale e il riconoscimento della caduta nell’abisso. Egli canta le “ebbrezze dei bagni d’azzurro”, ossia il desiderio di sublimazione e di elevazione, ma subito confessa che l’ideale “annega nel fango”. Qui si intravede il conflitto tra il sogno romantico di bellezza e purezza e la realtà degradata e corrotta in cui l’artista si trova.
L’ultima parte della poesia vede il poeta rivolgersi al lettore con un appello quasi disperato. Nonostante il suo disincanto, il poeta canta il “vero”, perché, per quanto possa essere “una misera canzone”, rimane il compito morale e autentico dell’artista. Praga disprezza il “minio” (cioè l’ostentazione e la superficialità) e la “maschera al pensiero”, rivendicando la sincerità brutale della sua espressione artistica.
Commento
Questa poesia è un manifesto della Scapigliatura, una corrente letteraria che, in opposizione al romanticismo idealistico, esprime un profondo pessimismo e rifiuta i valori tradizionali. Praga si inserisce perfettamente in questo movimento, rappresentando una generazione di poeti e artisti disillusi, che rifiutano i canoni morali e sociali del loro tempo. La poesia è permeata da un senso di decadenza e di perdita, ma anche da una tensione interna tra la ricerca di un ideale e la consapevolezza della sua impossibilità.
L’immagine delle “aquile al tempo di mutar le piume” è particolarmente potente: rappresenta una generazione che si sente senza forze, incapace di volare alta e di raggiungere quelle vette spirituali e artistiche a cui aspirava. Il richiamo alla tradizione cristiana, con riferimenti al Calvario, al Sudario e alla figura di Cristo, viene utilizzato per esprimere il senso di una crisi irreversibile: i valori sacri sono ormai privi di significato per la società moderna.
Praga non si limita a lamentarsi della situazione, ma accetta questa condizione di decadenza, facendone il soggetto della sua arte. Il suo “canto” è una denuncia della noia, del dubbio e dell’ignoto che affliggono l’uomo moderno, e allo stesso tempo una sfida provocatoria ai lettori che si trovano nella stessa condizione esistenziale. Il poeta non si nasconde dietro “maschere” o falsità, ma si assume il compito di dire la verità, per quanto dolorosa e scomoda possa essere.
Parafrasi
Noi siamo i figli dei padri ammalati;
Acquile al tempo di mutar le piume,
Svolazziam muti, attoniti, affamati,
Sull’agonia di un nume.
Siamo i figli di una generazione decadente e malata; come aquile che stanno perdendo le piume, voliamo in silenzio, smarriti e affamati, sopra l’agonia di una divinità morente.
Nebbia remota è lo splendor dell’arca,
E già all’idolo d’or torna l’umano,
E dal vertice sacro il patriarca
S’attende invano;
Il fulgore dell’arca (il simbolo del divino) è ormai un ricordo lontano, e l’uomo ritorna a idolatrare l’oro. Dalla cima sacra, il patriarca (guida spirituale) attende invano un segno divino.
S’attende invano dalla musa bianca
che abitò venti secoli il Calvario,
E invan l’esausta vergine s’abbranca
Ai lembi del Sudario…
Si attende invano dall’ispirazione pura (la musa bianca) che per venti secoli ha vissuto nel sacrificio di Cristo, e invano la vergine esausta (la fede) si aggrappa ai lembi del Sudario.
Casto poeta che l’Italia adora,
Vegliardo in sante visioni assorto,
Tu puoi morir!… Degli antecristi è l’ora!
Cristo è rimorto! —
Poeta puro, venerato dall’Italia, vecchio immerso in sacre visioni, puoi morire! È l’ora degli anticristi, Cristo è morto di nuovo!
O nemico lettor, canto la Noja,
L’eredità del dubbio e dell’ignoto,
Il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boja,
Il tuo cielo, e il tuo loto!
O lettore ostile, io canto la Noia, l’eredità del dubbio e dell’ignoto, il tuo re, il tuo papa, il tuo carnefice, il tuo cielo e il tuo fiore di loto (simbolo di purezza e decadenza).
Canto litane di martire e d’empio;
Canto gli amori dei sette peccati
Che mi stanno nel cor, come in un tempio,
Inginocchiati.
Canto preghiere di martiri e peccatori; canto gli amori dei sette peccati capitali, che abitano il mio cuore come in un tempio, inginocchiati in adorazione.
Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro,
E l’Ideale che annega nel fango…
Non irrider, fratello, al mio sussurro,
Se qualche volta piango:
Canto le estasi dei bagni d’azzurro (il desiderio di purezza) e l’Ideale che affonda nel fango… Non ridere di me, fratello, se talvolta piango.
Giacchè più del mio pallido demone,
Odio il minio e la maschera al pensiero,
Giacchè canto una misera canzone,
Ma canto il vero!
Perché, più del mio pallido demone (l’ispirazione decadente), odio la superficialità e la falsità nel pensiero, perché canto una canzone misera, ma canto la verità!
Solo testo della poesia:
Noi siamo i figli dei padri ammalati;
Acquile al tempo di mutar le piume,
Svolazziam muti, attoniti, affamati,
Sull’agonia di un nume.4
Nebbia remota è lo splendor dell’arca,
E già all’idolo d’or torna l’umano,
E dal vertice sacro il patriarca
S’attende invano;8
S’attende invano dalla musa bianca
che abitò venti secoli il Calvario,
E invan l’esausta vergine s’abbranca
Ai lembi del Sudario…12
Casto poeta che l’Italia adora,
Vegliardo in sante visioni assorto,
Tu puoi morir!… Degli antecristi è l’ora!
Cristo è rimorto! —
O nemico lettor, canto la Noja,
L’eredità del dubbio e dell’ignoto,
Il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boja,
Il tuo cielo, e il tuo loto!20
Canto litane di martire e d’empio;
Canto gli amori dei sette peccati
Che mi stanno nel cor, come in un tempio,
Inginocchiati.24
Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro,
E l’Ideale che annega nel fango…
Non irrider, fratello, al mio sussurro,
Se qualche volta piango:28
Giacchè più del mio pallido demone,
Odio il minio e la maschera al pensiero,
Giacchè canto una misera canzone,
Ma canto il vero! 32