Da Costantino a Giuliano l’Apostata
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Capitolo XIV
Dopo che il vicario di provvisione è stato portato via nella carrozza del cancelliere Ferrer, la folla inizia finalmente a disperdersi: la maggior parte delle persone ritorna alle proprie abitazioni, mentre un gruppo dei più facinorosi, insoddisfatti per non essere riusciti a farsi giustizia da soli, rimane davanti alla casa del vicario, aspettando che accada qualcosa di nuovo. Tuttavia, in tutta la città, la gente discute degli eventi della giornata. Alcuni sono soddisfatti di come si è concluso l’assalto alla casa del vicario e credono che il cancelliere farà davvero giustizia, portando il funzionario in prigione. Altri, più scettici, fanno notare che i due potenti li hanno sicuramente ingannati, perché i signori si proteggono a vicenda e “il lupo non mangia la carne del lupo”.
Renzo, esausto e ancora agitato per gli avvenimenti della giornata, è in cerca di una locanda dove poter mangiare e riposare. È infatti ormai troppo tardi per rientrare in convento quella sera.
Mentre cerca un’osteria, si imbatte in un gruppo di persone che discute su ciò che è successo. Si ferma per esprimere la sua opinione, “convinto, dopo tutto quello che aveva visto quel giorno, che ormai, per far succedere qualcosa, bastasse farla entrare in grazia a chi girava per le strade”. Fa notare, quindi, che la mancanza di pane non è certo l’unico problema che affligge i poveri. La povera gente, aggiunge, è sottoposta a continui abusi e le gride non servono a nulla, per quanto “ben fatte, che noi non potremmo trovare di meglio; vi sono elencate le malefatte esattamente come accadono; e a ciascuna, la sua giusta punizione”. La presenza delle gride dimostra che “coloro che comandano vorrebbero che i malfattori fossero puniti; ma non succede nulla, perché c’è una lega”, un’alleanza di potenti che impedisce che gli editti reali vengano davvero applicati e che i criminali siano puniti per i loro delitti. Renzo propone dunque alle persone che si sono radunate ad ascoltarlo di recarsi tutti da Ferrer, che si è dimostrato un uomo giusto, per chiedere il suo aiuto.
Dopo aver terminato il suo discorso, Renzo chiede se qualcuno conosce un’osteria e riceve prontamente una risposta da un uomo che si offre di accompagnarlo. Tuttavia, l’individuo è un poliziotto che, avendo ascoltato le parole del giovane, ha in realtà intenzione di arrestarlo. I due raggiungono la locanda, e Renzo invita l’uomo a bere qualcosa con lui. Si siedono a un tavolo e ordinano cibo e bevande. Alle parole dell’oste, che spiega di poter portare loro dello stufato ma non del pane, Renzo risponde estraendo una delle pagnotte raccolte quel giorno lungo la strada. “Al pane”, esclama, “ci ha pensato la provvidenza!”
Il poliziotto dice all’oste che Renzo ha intenzione di pernottare nella locanda; l’oste quindi gli sottopone un foglio per registrare i suoi dati. Quando Renzo si rifiuta di indicare il suo nome e cognome, l’oste gli mostra una copia della grida che riporta il regolamento. Renzo, ormai al terzo bicchiere di vino, si prende gioco della grida e del sigillo posto al fondo di essa: “Ecco quel bel foglio di messale. Me ne rallegro moltissimo. La conosco quell’arme; so cosa significa quella faccia d’ariano, con la corda al collo”. Aggiunge poi che quella grida non può aiutarlo a ottenere la giustizia a cui avrebbe diritto per le angherie subite da un prepotente che ha voluto far fallire il suo matrimonio e che non intende rivelare il suo nome a nessuno che non sia un frate cappuccino.
Gli altri avventori, attirati dalle grida di Renzo, lo applaudono, e l’oste, sostenuto dal poliziotto, rinuncia e si allontana.
Nel frattempo, il giovane continua a versarsi del vino (dopo aver finito un fiasco ne ordina un secondo) e a inveire contro i potenti che parlano in latino per confondere le persone non istruite e che ricorrono alla scrittura per perpetrare meglio i propri soprusi: “Tutti quelli che governano il mondo vogliono far entrare ovunque carta, penna e calamaio! Sempre la penna in mano! Grande smania hanno quei signori di usare la penna!”
Per ottenere il nome di Renzo, il poliziotto ricorre a uno stratagemma: gli dice che ha un’idea per garantire il pane a tutti, a un prezzo e in quantità adeguati alle loro necessità. Per far ciò, ciascuno dovrebbe scrivere su un foglietto il proprio nome, cognome, professione e numero di bocche da sfamare: “A me, per esempio,” spiega al giovane, “dovrebbero rilasciare un biglietto in questa forma: Ambrogio Fusella, di professione spadaio, con moglie e quattro figli, tutti in età da mangiar pane (notate bene): gli si dia pane tanto, e paghi soldi tanti”. Renzo si lascia ingannare e rivela quindi di chiamarsi Lorenzo Tramaglino. Soddisfatto per aver finalmente ottenuto le informazioni necessarie, il poliziotto lascia la locanda con la scusa che la famiglia lo sta aspettando a casa.
Renzo, ormai completamente stordito dall’alcol che ha bevuto, al quale non è abituato, tenta di raccontare le sue vicende e disgrazie agli altri avventori; fortunatamente, seppure ubriaco, evita di fare i nomi delle persone coinvolte e soprattutto non menziona il nome di Lucia, “ché ci dispiacerebbe troppo”, sottolinea l’autore, “se quel nome, per il quale anche noi proviamo un po’ di affetto e rispetto, fosse stato trascinato in quelle bocche, fosse diventato trastullo di quelle lingue malvagie”. Le sue frasi diventano però sempre più incoerenti e gli altri avventori iniziano a deriderlo, sia quando si indigna contro i potenti che lo hanno oppresso, sia quando si commuove al ricordo della sua amata Lucia.