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28 Dicembre 2019“Il testamento di Tito” di Fabrizio De André è una riflessione profonda e critica sui Dieci Comandamenti, interpretata dal punto di vista di Tito, uno dei due ladroni crocifissi accanto a Gesù.
Nel brano, Tito analizza ogni comandamento alla luce delle sue esperienze di vita, mettendo in luce le contraddizioni e le difficoltà nell’applicazione di queste leggi divine nella realtà quotidiana.
Analisi del testo
“Non avrai altro Dio all’infuori di me / Spesso mi ha fatto pensare / Genti diverse venute dall’est / Dicevan che in fondo era uguale / Credevano a un altro diverso da te / E non mi hanno fatto del male / Credevano a un altro diverso da te / E non mi hanno fatto del male”
Tito riflette sulla prima delle Dieci Parole, che proibisce l’idolatria. Notando che persone di diverse culture e religioni non gli hanno mai fatto del male, mette in discussione l’assolutezza di questo comandamento, suggerendo che la fede in divinità diverse non implica necessariamente conflitto o malevolenza.
“Non nominare il nome di Dio / Non nominarlo invano / Con un coltello piantato nel fianco / Gridai la mia pena e il suo nome / Ma forse era stanco, forse troppo occupato / E non ascoltò il mio dolore / Ma forse era stanco, forse troppo lontano / Davvero lo nominai invano”
Qui Tito commenta sul secondo comandamento, che proibisce l’uso improprio del nome di Dio. Egli racconta di aver invocato il nome di Dio in un momento di estremo dolore, senza ottenere risposta, suggerendo che l’uso del nome di Dio in situazioni di sofferenza potrebbe essere considerato vano se non si riceve alcun conforto o aiuto divino.
“Onora il padre, onora la madre / E onora anche il loro bastone / Bacia la mano che ruppe il tuo naso / Perché le chiedevi un boccone / Quando a mio padre si fermò il cuore / Non ho provato dolore / Quanto a mio padre si fermò il cuore / Non ho provato dolore”
Tito riflette sul comandamento di onorare i genitori, ma evidenzia le contraddizioni nel dover rispettare anche coloro che abusano di noi. Egli racconta di non aver provato dolore alla morte del padre, suggerendo un rapporto distaccato e forse abusivo, mettendo in dubbio la validità assoluta di questo comandamento.
“Ricorda di santificare le feste / Facile per noi ladroni / Entrare nei templi che rigurgitan salmi / Di schiavi e dei loro padroni / Senza finire legati agli altari / Sgozzati come animali / Senza finire legati agli altari / Sgozzati come animali”
Il quarto comandamento invita a santificare le feste, ma Tito, come ladro, vede questa pratica come ipocrita, osservando come i templi siano pieni di canti di schiavi e padroni, senza che si verifichi una vera redenzione o giustizia.
“Il quinto dice non devi rubare / E forse io l’ho rispettato / Vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie / Di quelli che avevan rubato / Ma io, senza legge, rubai in nome mio / Quegli altri nel nome di Dio / Ma io, senza legge, rubai in nome mio / Quegli altri nel nome di Dio”
Tito riflette sul quinto comandamento, che proibisce il furto. Sottolinea l’ipocrisia di chi ruba nel nome di Dio rispetto a lui che ha rubato per sopravvivenza. Egli si considera meno colpevole di chi commette ingiustizie sotto il mantello della religione.
“Non commettere atti che non siano puri / Cioè non disperdere il seme / Feconda una donna ogni volta che l’ami / Così sarai uomo di fede / Poi la voglia svanisce e il figlio rimane / E tanti ne uccide la fame / Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore / Ma non ho creato dolore”
Qui, il sesto comandamento viene interpretato come una proibizione degli atti impuri, inclusa la promiscuità sessuale. Tito osserva come le conseguenze di tali atti siano spesso la povertà e la fame per i figli non desiderati, riconoscendo di aver forse confuso il piacere con l’amore, ma senza aver causato dolore.
“Il settimo dice non ammazzare / Se del cielo vuoi essere degno / Guardatela oggi, questa legge di Dio / Tre volte inchiodata nel legno / Guardate la fine di quel nazzareno / E un ladro non muore di meno / Guardate la fine di quel nazzareno / E un ladro non muore di meno”
Tito si confronta con il settimo comandamento, che proibisce l’omicidio. Nota come anche Gesù, pur essendo innocente, sia stato giustiziato, sottolineando la brutalità e l’ingiustizia della punizione capitale.
“Non dire falsa testimonianza / E aiutali a uccidere un uomo / Lo sanno a memoria il diritto divino / E scordano sempre il perdono / Ho spergiurato su Dio e sul mio onore / E no, non ne provo dolore / Ho spergiurato su Dio e sul mio onore / E no, non ne provo dolore”
Tito critica l’ottavo comandamento, che proibisce la falsa testimonianza. Egli osserva come la menzogna sia spesso usata per giustificare l’omicidio, sottolineando l’ipocrisia di chi predica la legge divina ma dimentica il perdono.
“Non desiderare la roba degli altri / Non desiderarne la sposa / Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi / Che hanno una donna e qualcosa / Nei letti degli altri già caldi d’amore / Non ho provato dolore / L’invidia di ieri non è già finita / Stasera vi invidio la vita”
Il nono e il decimo comandamento vietano il desiderio delle proprietà e delle mogli altrui. Tito riconosce l’invidia come un sentimento umano, ma sottolinea che questa non ha mai causato dolore ad altri.
“Ma adesso che viene la sera ed il buio / Mi toglie il dolore dagli occhi / E scivola il sole al di là delle dune / A violentare altre notti / Io nel vedere quest’uomo che muore / Madre, io provo dolore / Nella pietà che non cede al rancore / Madre, ho imparato l’amore”
Nell’ultima parte, Tito esprime un sentimento di dolore vedendo la morte di Gesù, e in questo momento di sofferenza trova la pietà e l’amore, imparando ad andare oltre il rancore.
Commento
“Il testamento di Tito” è una potente critica alla rigidità delle leggi divine, evidenziando come le esperienze umane spesso contraddicono le prescrizioni assolute dei comandamenti. De André, attraverso la voce di Tito, mette in luce l’ipocrisia e l’ingiustizia di una morale imposta senza considerare la complessità della vita umana. Tito, come rappresentante degli emarginati e dei reietti, offre una prospettiva unica che sfida la religiosità convenzionale, promuovendo una visione più umana e compassionevole della moralità e della giustizia.