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di Giosuè Carducci
Odi barbare (1877)
prof. Luigi Gaudio
Corron tra ‘l Celio fósche e l’Aventino
le nubi: il vento dal pian tristo move
umido: in fondo stanno i monti albani
bianchi di neve. 4
A le cineree trecce alzato il velo
verde, nel libro una britanna cerca
queste minacce di romane mura
al cielo e al tempo. 8
Continui, densi, neri, crocidanti
versansi i corvi come fluttuando
contro i due muri ch’a piú ardua sfida
levansi enormi. 12
“Vecchi giganti, – par che insista irato
l’augure stormo – a che tentate il cielo?”
Grave per l’aure vien da Laterano
suon di campane. 16
Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,
grave fischiando tra la folta barba,
passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco,
nume presente. 20
Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti
e de le madri le protese braccia
te deprecanti, o dea, da ‘l reclinato
capo de i figli: 24
se ti fu cara su ‘l Palazio eccelso
l’ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
l’evandrio colle, e veleggiando a sera
tra ‘l Campidoglio 28
e l’Aventino il reduce quirite
guardava in alto la città quadrata
dal sole arrisa, e mormorava un lento
saturnio carme); 32
Febbre, m’ascolta. Gli uomini novelli
quinci respingi e lor picciole cose:
religïoso è questo orror: la dea
Roma qui dorme. 36
Poggiata il capo al Palatino augusto,
tra ‘l Celio aperte e l’Aventin le braccia,
per la Capena i forti ómeri stende
a l’Appia via. 40
Nota d’autore: Giosuè Carducci:
“Fu chi intese che questi versi augurassero la malaria ai buzzurri. Ohimè! Io intendevo imprecare alla speculazione edilizia che già minacciava i monumenti, accarezzata da quella trista amministrazione la quale educò il marciume che serpeggia a questi giorni nella capitale (4 febb. 1893).”