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4 Febbraio 2022Trentun maggio, i vagoni di quel treno non erano stati chiusi. Non totalmente. C’era una fessura dalla quale filtrava dell’aria. Aria. In quel momento l’unico frangente di libertà che si poteva conoscere era l’aria che si respirava dalla fessura del carro bestiame. Non erano bestie. Ma venivano trattate come bestie e anche peggio. Per le bestie provavano i carnefici forse anche un minimo di pietà. Verso di loro, no.
L’imperdonabile colpa? Essere dalla parte sbagliata della storia di quel momento. Per scelta, per nascita, per convinzione. Chi perché ebreo, chi perché antifascista, chi perché rom, chi perché omosessuale, o Testimone di Geova. Ne partirono una ventina di convogli così da Trieste.
Città violentata nella sua bellezza e identità plurima, latina, slava, germanica in cui la Risiera di San Sabba divenne l’unico lager di sterminio nazista con forno crematorio edificato e messo a regime in Italia e nell’Europa meridionale tutta.
Città mitteleuropea ma diventata il simbolo dell’ecatombe. Dovettero spostare anche la fontana dei Quattro continenti per dar spazio alla cornice del famigerato proclama razzista di Mussolini.
Ci sono voluti 75 anni per commemorare quel lutto della Storia con una piccola targa metallica sul manto di Piazza dell’Unità d’Italia, quel giorno, stridente ossimoro nell’incombere delle leggi razziali, quel maledetto 18 settembre del 1938. Una data. Una data che non puoi dimenticare. Date che segnano il tempo di ciascuno, che incidono la memoria, che cercano di andare oltre l’indifferenza. Date.
Come quel 31 maggio del ’44.
Quando Ondina Peteani, stretta a un’umanità dolente era dentro uno di quei vagoni mentre cercava di respirare un soffio d’aria e a turno sbirciava dalla fessura diventata finestra verso il mondo, di là. Da Trieste a Monaco, alcuni vagoni, quelli con gli uomini, tra cui Mario Candotto di Ronchi, finirono a Dachau, il primo campo di concentramento nazista, aperto il 22 marzo 1933 su iniziativa di Heinrich Himmler. Oggi è un memoriale, importante ma in gran parte snaturato, una ricostruzione di ciò che fu. Il vuoto domina nell’immensità di quella desolazione della periferia tedesca. Ondina, con la sorella di Candotto e le altre donne ad Auschwitz.
In fila per cinque, dopo una viaggio di cinque giorni, estraniarsi, nell’incubo che aveva anche un numero. Uno di quelli che ti porterai dietro per tutta la vita. Non per tua scelta. Perché così doveva essere. Il suo, infertole sulla pelle era il numero 81672.
Numeri. Nella combinazione dei numeri, diciott’anni più tardi, il 31 maggio 1962, conoscerà a modo suo la prima forma di giustizia multimediale, in un mondo diverso. In una nazione di superstiti. In Israele. E non era un film. Era il tempo del processo Eichmann. Passato alla storia come il primo processo a un criminale nazista tenutosi nella terra contesa da Dio.
Era solo un esecutore. Esecutore del male. L’essere esecutore assolve chi è complice dello stesso male di cui è partecipe. Non era questa la banalità del male. Era questa l’essenza del male! Venne impiccato nel passaggio temporale tra il 31 maggio e il 1 giugno del 1962. Il tempo fu ponte di morte e giustizia terrena. A modo suo. Raccolse lo sporco nazista il frutto della sua semina d’odio. Una semina che si diffuse in ogni dove nel corso del suo essere esecutore del male.
Non moriranno per impiccagione nella Strage di Peteano, dieci anni dopo, la frazione che ha preso nome dagli avi di Ondina Peteani. Cadranno sotto il segno di quel male che ha segnato il 31 maggio. Quel male che si è posto in continuità con i crimini del ventennio fascista. Paese che si è auto assolto. Telefonate mute, interferenze, segnali, silenzi, voci sconosciute e poi quella sera, con la TV nei bar che trasmetteva una partita di calcio che rimase impressa nella memoria della comunità intera. Una telefonata da un bar di Monfalcone, bar Nazionale si chiamava. Si ricorderà l’ora esatta, le 23.15 che fermerà il tempo per sempre, almeno per le vittime ed i loro famigliari. La Fiat 500, il chilometro 5, l’ispezione, la mano omicida che in un vile attentato mieteva tre giovani carabinieri, Quindi i depistaggi, gli arresti di innocenti goriziani, la storica difesa degli avvocati Battello e Maniacco, l’odio fascista che come un fiume carsico cercò di celarsi, imponendosi con la complicità di pezzi dello Stato andato a pezzi in quel tempo. Il tempo. Sempre lui. Inesorabile. Storie, ricordi, immagini, luoghi, spazi. Ciò insegna che ci sono binari nel corso della vita a cui tuo malgrado non potrai sfuggire. Sarà il destino, sarà l’effetto delle tue azioni, sarà perché così era stato deciso da qualcuno, per te. E il pensiero ultimo non può che correre al binario che non c’è, il binario 21 di Trieste, il Memoriale Nazionale di Auschwitz che non potrà non sorgere. Lo dobbiamo a questa gente che ha patito le pene dell’inferno e la cui maggioranza maggioranza non ha fatto rientro, perché da Trieste partì oltre il 70% dei convogli di deportati dall’Italia alla volta di Auschwitz, treni del male partiti dalla città di confine e che hanno confinato vite, sogni e spazi in luoghi dove l’umanità non è mai entrata. A partire dal 7 dicembre del 1943, giorno in cui ebbe inizio il primo viaggio della morte Trieste/Auschwitz.
Questo testo nasce su impulso di Gianni Peteani in collaborazione con Marco Barone che si ringraziano per la loro instancabile attività di impegno civile.
Si ricordano Ondina Peteani, prima staffetta partigiana d’Italia, i crimini della deportazione nei lager nazisti e il dovere di contrasto e sbarramento a ogni forma di fascismo e intolleranza.