Medardo Rosso
2 Agosto 2022Le monarchie feudali di Francia e Inghilterra nel XII secolo
2 Agosto 2022Non è un dialogo come il Secretum. Siamo nell’ambito di quella che potremmo definire una trattatistica di carattere morale e anche religioso, per i temi petrarcheschi. Infatti questo testo di Petrarca si apparenta non casualmente con quello che si pone parallelamente ad esso e che è il De Otio Religioso.
Quest’ultimo è molto più specificamente ascetico, ma entrambi corrispondono ad una medesima esigenza di ripiegamento interiore e meditazione religiosa; rispetto ad altre precedenti opere di Petrarca molto più insistente è anche la serie di richiami scritturali e i riferimenti ai padri della chiesa.
Il contesto delle scritture trattatistiche
Rispetto a Dante. La scrittura petrarchesca è molto vistosamente diversa anche in un primo confronto, che è interessante. Ci muoviamo in una tematica del tutto diversa per quello che riguarda questa scrittura del Petrarca, nella scrittura trattatistica il rapporto con la materia non è secondario: quando Dante scrive il suo trattato universale Dante ha presente i modi di scrittura della trattatistica politica.
La riflessione morale e religiosa. Qui invece siamo nell’ambito di quella che potremmo definire una trattatistica di carattere morale e anche religioso, per i temi petrarcheschi. Infatti questo testo di Petrarca si apparenta non casualmente con quello che si pone parallelamente ad esso e che è il De Otio Religioso. Quest’ultimo è molto più specificamente ascetico, ma entrambi corrispondono ad una medesima esigenza di ripiegamento interiore e meditazione religiosa; rispetto ad altre precedenti opere di Petrarca molto più insistente è anche la serie di richiami scritturali e i riferimenti ai padri della chiesa.
Precedente biografico. Teniamo presente il fatto che si pone come il precedente dal punto di vista biografico, e cioè l’entrata nel monastero del fratello Gherardo; nel 1343 comincia anche il modo di ripiegamento interiore da parte del Petrarca di cui documento notissimo è di fatto il Secretum.
Il Secretum. Il Secretum si pone in termini interessanti e innovativi sul piano di un rinnovamento del dialogo di matrice platonico ciceroniana: si potrebbe anche dire che nel Secretum si combinano elementi propri di una ripresa di uno degli autori per eccellenza tanto amato da Petrarca che è Sant’Agostino (meditazioni, soliloqui, ecc) in una forma, in una rappresentazione dialettica proprio perché rappresentata attraverso il dialogo nel Secretum: dialogo come sappiamo tra Francesco, Sant’Agostino e La Verità.
Nel De vita solitaria non siamo in un dialogo e l’intento è quello di trattare il tema della vita solitaria, possiamo ascrivere il de vita solitaria alla scrittura trattatistica.
Datazione e dedica
D’altra parte c’è un problema di non facile soluzione come sempre per quello che riguarda la datazione: se noi stiamo alle affermazioni di Petrarca noi potremmo supporre il de vita solitaria come antecedente rispetto al Secretum perché secondo l’autore il de vita solitaria sarebbe stato scritto interamente a partire dalla Quaresima del 1346; Probabilmente anche la datazione del Secretum è molto discussa, se ci atteniamo alla tesi molto accreditata di Francisco Rico, la prima fase di scrittura del Secretum risalirebbe al 1347 quindi avremmo tre fasi del Secretum 1347, 1349 1353; se cosi è, e così pare, il de vita solitaria si pone come una sorta di premessa di quanto sarà posto nel Secretum; in ogni caso si tratta di testi vicini cronologicamente.
Interventi successivi. Come nelle sue altre opere cosi Petrarca interviene comunque anche nella stesura del De vita solitaria e interviene a più riprese, alcune di queste fasi sono abbastanza documentate: le riprese sono sul testo tra il 1353 e il 1356 e poi interviene ancora in anni successivi. Addirittura interviene anche quando questa sua opera era gia stata data ad amici, come se la richiamasse a se per fare delle correzioni.
Il dedicatario. Al dedicatario che qui è indicato, Filippo di Cabassoles (Cabassòl) questo trattato fu mandato tardi rispetto alla scrittura come è dichiarato da Petrarca: noi abbiamo un’epistola senile del 1366 in cui Petrarca giustifica il ritardo dell’invio (che è avvenuto appunto nel 66); questo personaggio a cui è inviata l’opera ha dei legami col Petrarca ed appartiene ad un mondo, dal punto di vista sociale e di prestigio, superiore rispetto a Petrarca. Tutto ciò che riguarda le fasi della vita di questo personaggio sono in nota a pagina 50, per il rapporto stringente con il Petrarca quello che conta è il fatto è che egli era vescovo di Cavaillon, una piccola diocesi non lontana da Avignone, quindi c’è un legame proprio che viene anche messo in evidenza in questa dedicatoria con quello che è la funzione vescovile esercitata in relazione alla presenza di Petrarca in Valchiusa (dal 1453 Petrarca lascia Valchiusa e si stabilisce definitivamente in Italia). Il tempo dichiarato della scrittura dell’opera non era tuttavia cosi.
Rapporto Petrarca – Cabassoles. Quindi questo rapporto con la figura del dedicatario, è importante e viene ribadito anche attraverso l’invio dell’epistola senile, non solo dalla dedicatoria. E un rapporto prospettato da parte del Petrarca come significativo ed importante anche per la buona disposizione che ha questo personaggio nei suoi confronti che di ciò gli è grato, nell’amicizia, seppur tra persone tra classi diverse, e anche per una comunanza che viene ad istituirsi da un punto di vista morale: celebrando le doti e le qualità morali del dedicatario il Petrarca si riflette in esse come in una sorta di specchio, vedendo nel proprio pensiero, anche il pensiero del dedicatario. Sono infatti entrambi accomunati dalla assoluta preferenza accordata alla Solitudo: come poi si verrà chiarendo nel contesto dello svolgimento dell’opera stessa del trattato questa solitudine non è soltanto lo scegliere luoghi solitari, ma è una solitudine interiore: la capacità di una intima concentrazione e meditazione interiore, un ripiegamento interiore anche quando si è in mezzo alla folla. Questa decisa scelta della vita solitaria accomuna dedicatario e dedicante. Questo è uno dei motivi ampiamente svolti a partire dalla dedica. Vedremo alcuni aspetti di questa dedica e l’inizio del trattato.
Struttura dell’opera
? Primo libro. Il trattato è in due libri molto diversi tra loro anche nella scrittura: il primo libro vorrebbe porre in evidenza da un punto di vista teorico i temi relativi all’eccellenza della solitudine e della vita solitaria, intesa come un otium tutto dedicato allo studio, alla riflessione, alla meditazione dove si combinano in modo stringente due aspetti fondamentali nell’ambito della riflessione dell’opera petrarchesca: da un lato quello che è proprio il portato dello studio delle humanae litterae, cioè della nuova cultura umanistica del Petrarca, ma d’altra parte questo illuminato e rivisto alla luce di un ispirazione crstiana, quindi mettendo insieme entrambi gli ambiti. Le humanae litterae rischiarate da un impegno, una meditazione assidua e devota sotto il profilo eminentemente cristiano. Questo si svolge da un punto di vista teorico attraverso fonti sapienziali (molti sono i rimandi a fonti scritturali) ma d’altra parte anche attraverso il portato della cultura classica.
Secondo libro. Quello che è trattato su un piano teorico nel primo libro sarebbe inverato sul piano storico nel secondo libro. Il secondo libro infatti ha una struttura molto diversa: è ricchissimo, una sorta di galleria di exempla che sono relativi a il mondo in primo luogo cristiano, sia vetero testamentario che neotestamentario, e sia anche per quello che guarda il mondo pagano in alcune punte d’eccellenza. C’è una prevalenza del primo mondo sul secondo, con tutto quello che ne consegue: dunque la galleria si allarga anche ad asceti, santi, padri della chiesa; ma anche persone eccellenti del mondo pagano: filosofi, poeti ecc. C’è nella sostanza un procedimento per accumulazione erudita nella seconda parte, che di fatto modifica l’assetto della scrittura trattatistica.
La dedicatoria. Quello che qui ci interessa vedere in primo luogo, è quello che riguarda l’assetto in cui si presenta il trattato: cioè in un’ampia lettera dedicatoria iniziale, dove emerge un rapporto privilegiato con il dedicatario, poi l’apertura che si fonda in primo luogo sulla dimensione autobiografica. La dimensione autobiografica che inevitabilmente è ben presente nelle lettere dedicatorie, è anche quella su cui si fonda direttamente anche la scrittura del trattato, come si può notare fin dall’inizio stesso, quando aprendo il trattato noi ci troviamo di fronte all’io dell’autore che inizia con «credo» (pag. 60).
La lettera dedicatoria
La specularità dedicante-dedicatario. Vediamo alcuni punti focali che riguardano la dedicatoria. Innanzitutto questa dedicatoria è tutta giocata su un rapporto di focalizzazione che si intreccia su due piani spostandosi dall’io dello scrivente al tu del ricevente e viceversa. Questi due piani sono continuamente intrecciati e, come già vi avevo detto, c’è la volontà di stabilire un rapporto di specularità tra lui e il destinatario e mettere in chiara evidenza attraverso il dedicatario quella che sia la destinazione del suo scritto. Dedicatario che al tempo stesso è il destinatario, e la destinazione non è tanto per il presente quanto, in una dimensione esemplare, per i posteri.
Un discorso per pochi. Comincia con una serie di considerazioni morali per quello che riguarda la natura del dedicatario e per la sua dimensione essenziale, che è una dimensione morale, della verità contro la simulazione; quindi, quello che risulta di gradimento al dedicatario di ciò che è proprio del Petrarca che scrive, quello che il dedicatario manifesta dei suoi rapporti personali con l’autore è visto nei termini di una dimostrazione di verità non di una simulazione. Per questa ragione, ciò posto cioè che le parole del dedicatario corrispondono effettivamente ai suoi pensieri, il Petrarca ne ricava che da questi argomenti è indotto a credere una cosa che il Petrarca molto desidera, cioè che a lui possano tornare graditi i suoi scritti, perché gli scritti che egli rivolge siano graditi. E qual è il pubblico a cui si rivolge perché gli scritti siano graditi? Di che cosa si compiace il Petrarca? Qui ci troviamo in una prospettiva antitetica rispetto a quello che abbiamo visto in Dante, qui quello che desidera il Petrarca è che i suoi scritti piacciano a pochi: anche perché Petrarca esprime un giudizio assolutamente negativo su molte parti di coloro che per conoscenza potrebbero leggere i suoi scritti; lo scritto del Petrarca è in latino, ed è evidente che facendo così si rivolge ai letterati.
Gli ignoranti. Qui però il discorso è in primo luogo fatto in termini generali, dice: «mi adopero a che piacciano a pochi, e infatti come tu vedi mi occupo spesso di argomenti nuovi difficili e seri, di concetti non comuni, lontani dalla mentalità e dal giudizio del volgo». Quindi una dichiarazione di selezione «aristocratica» dal punto di vista intellettuale; ma che può essere una dichiarazione di distacco da ciò che è proprio della corruzione morale che egli riconosce nel suo tempo. Dunque il Petrarca non può piacere all’ignorante, e di ciò non si lamenta, anzi, il fatto di non piacere agli ignoranti è una buona prova del suo ingegno, perché se piacesse agli ignoranti significherebbe che le sue opere non valgono.
I dotti. Ma se da un lato ci sono gli ignoranti, dall’altro ci sono le persone dotte: «se poi non piaccio nemmeno alle persone dotte, dice, ho di che dolermi, lo confesso, non di che meravigliarmi», si dispiace ma non si meraviglia: e perché non si meraviglia? Dunque, qui si introduce una dichiarazione di modestia, ma in questo caso è una dichiarazione molto temperata” per gli esempi che vengono fatti, è una «falsa» dichiarazione di modestia. Dice: «chi sono io? E che ragione ho di lusingare me stesso, specialmente fra tanta varietà di giudizi, o di arrogarmi cosa che non è toccata nemmeno a Marco Tullio, nonostante quella sua famosissima e divina eloquenza?».
Le ricerche di Petrarca. Dunque il paragone è in realtà tra sé e Cicerone, ed è in relazione a quello che Cicerone ebbe a lamentare sui giudizi negativi verso il suo Orator, e quindi Petrarca nella lettera non lascia alcun dubbio ne sottintende le sue fonti ma lo dichiara nettamente, e in fatti fa subito riferimento ad un passo delle Epistulae, interessante perché accredita da parte del Petrarca la conoscenza di quanto egli stesso aveva scoperto poco prima nella biblioteca capitolare di Verona: le Epistulae ad Atticum (ed il riferimento appena fatto è preso proprio da una di quelle) era proprio stata scoperta da Petrarca proprio là, a Verona. D’altra parte fa riferimento ad altri passi di Cicerone che fu criticato in relazione al suo stile, alla sua eloquenza, e dunque: «chi dunque respingerebbe una accusa mossa al proprio stile, se tale accusa egli avesse in comune con Tullio?»: in breve: può essere certamente criticato, ma fu criticato anche il maestro dell’elocutio romana, cioè Cicerone.
L’indulgenza dell’interlocutore. D’altra da parte questo discorso che riguarda lo scrittore di passa nuovamente ad intrecciare il piano che riguarda l’interlocutore: non ha da temere questo, Petrarca, nei confronti dell’interlocutore-dedicatario che è animato da uno straordinario particolare affetto nei suoi confronti; quindi certamente l’interlocutore ha un indulgenza nei suoi confronti, in questo. Dunque se l’interlocutore per indulgenza nei suoi confronti non lo critica, questo comunque gli fa piacere, resta comunque un motivo di vanto per lui che l’interlocutore lo apprezzi e non lo critichi, resta una cosa piacevole, per l’interlocutore, e ciò non è dannoso per nessuno. Però qui si introduce l’annotazione che sposta il piano da quello che poteva sembrare un topos modestiae, e invece accredita il giudizio dell’interlocutore, che potrebbe anche non sbagliarsi per indulgenza, e dice: «ma se per avventura tu non sbagli, io certo lo desidero piuttosto che sperarlo, perché mai non dovrei io più e più goderne e rallegrarmene, ed essere per tal giudizio più caro e più degno di stima a me stesso? Nel dubbio non sarei dunque un cattivo amministratore del mio ozio, se non tenessi conti di colui che considero come primo ammiratore del mio stile e del mio ingegno?».
La garanzia del destinatario. E qui fa di nuovo un esempio classico mutuato sempre da Cicerone da un Orazione per Plancio, che riguarda l’affermazione di Catone, quello che Catone cioè aveva scritto all’inizio della sua opera. Allora questo gli dà conforto, autorizzazione per quello che riguarda il mettere a frutto il suo ozio letterario; e allora, che cosa dovrebbe sforzarsi di ottenere se non questo? «tenere lontana l’inerzia distruggitrice dei nomi illustri?». Quindi, la presenza del dedicatario è una garanzia ed un conforto anche per l’invito alla scrittura e la fama, e al tempo stesso è una difesa della scrittura in sé, nonché un riconoscimento che tramite il dedicatario egli riesce ad ottenere. E evidente che l’intera dedica costituisce una captatio benevolentiae nei confronti dell’interlocutore che viene a sua volta celebrato.
Fama / Tempo. Il tema della gloria, il tema della fama delle scritture e il tema del tempo, cioè come il tempo sia nemico in sé e tenda a far obliare e distruggere l’opera dello scrittore che invece aspira a superare il limite del tempo: questi temi della gloria insidiata dal tempo sono temi fondamentali in tutta l’opera petrarchesca.
Il dono. C’è di nuovo un ritornare come se stesse rappresentandoci sulla pagina non un discorso costruito in tutte le sue parti, ma le sue stesse meditazioni. Infatti, come se l’onda del suo pensiero ci presentasse i diversi pensieri che gli sono venuti in mente e che ora dice al lettore: «mentre vado facendo tali considerazioni, assai spesso alla mia mente si affaccia il nome tuo», e poi d’altra parte il nome tuo” è collegato ad un altro elemento della dedicatoria, elemento costante nelle dedicatorie rivolte ad un personaggio illustre, da cui si viene a costituire un rapporto per qualche aspetto di dipendenza, dipendenza che può essere nei fatti, dipendenza che può essere nella natura dell’opera stessa: il tema del dono, un dono, questa opera, che è messa alla stregua di quello che è dovuto dal momento che si trova nelle sue terre: ecco, un paragone a quello che sono i doni che vengono fatti concretamente al vescovo anche da parte di chi fa dei poveri doni; paragone in relazione a quel dono che altri fanno delle messi che quindi paragonati a questo sono le decime del suo ozio e le primizie delle sue veglie: quindi l’ottica del dono è quella che mette ancora di più in una correlazione il dedicatario con colui che dedica nei termini di un dono dato da un rapporto di fedeltà, nei termini del dovuto e al tempo stesso al dono dato corrisponde la protezione di colui a cui il dono è rivolto. Questo è reso in parte esplicito, in parte è mantenuto implicito.
I giudizi dei detrattori. C’è però un problema: se si esponesse al pubblico, e dunque scrivendo al sua opera manifestasse ciò che è proprio del frutto dei suoi ozi letterari, trasmetterebbe dunque questo ai posteri, e potrebbe venire giudicato: e c’è una sorta di ambivalenza: perché se da un lato si afferma quello che è proprio della gloria e della fama a cui si aspira e alle insidie del tempo, dall’altra parte c’è la consapevolezza che l’opera scritta è quella che dà testimonianza del’autore che non c’è più: che cosa può rimanere ai posteri se non l’opera dello scrittore? E dunque attraverso le parole scritte non sarebbe valutata solo l’opera dell’autore, ma anche la vita dell’autore stesso: quindi egli si espone in toto al giudizio che sarà dato di lui. Dunque questo lo potrebbe trattenere dalla scrittura, l’avrebbe potuto trattenere, ma Petrarca dice che ciò non è possibile, non è possibile perché nella condizione in cui si trova è troppo tardi, non lo può più fare (fine di pag. 55): « gli avrei forse persuasi mi tocca mettermi in mostra». Ormai ha scritto tanto, non può più sfuggire al giudizio altrui anche stando zitto: tanto vale scrivere.
Questa è una dichiarazione, e si capisce alla luce della data in cui viene mandata la lettera della dichiarata consapevolezza della posizione di prestigio come intellettuale e della sua notorietà acquistata.
Sintesi
Dedicatoria del de vita solitaria del Petrarca. I punti focali fin ora considerati:
Diretta al vescovo di Cavallon;
E stata consegnata successivamente al dedicatario, abbiamo una lettera senile dell’invio da parte del Petrarca nel 1366; se stiamo a quello che ci dice, sarebbe stata composta nella quaresima del 1346;
al dedicatario l’opera, inviata insieme al De otio religioso, piacque e ci fu una lettera di ringraziamento da parte del vescovo stesso.
Il primo aspetto da considerare della lettera dedicatoria è il rapporto personale che lega lo scrittore Petrarca e il dedicatario che è l’interlocutore privilegiato che è affermato come conoscitore della stessa experientia del Petrarca, cioè l’esperienza di vita solitaria.
Tutto il discorso della lettera dedicatoria si pone tra questi due poli: la voce che dice io e il riferimento da parte di essa al tu dell’interlocutore.
è un discorso svolto, come sempre in Petrarca, in forma raffinata che simula una sorta di conversazione. E simula dunque il seguire un onda di pensieri, una meditazione che si svolge nel suo animo.
in questo movimento circolare dall’io al tu i punti salienti sono relativi a quello che è proprio della personalità del dedicatario, di cui si afferma fin dall’inizio l’integrità e la sincerità del giudizio espresso. E in relazione a questo si afferma di credere che sia assolutamente vero e sincero il giudizio di gradimento espresso dal Dedicatario. Ciò riguarda sia gli argomenti scelti dal Petrarca sia lo stile proprio di scrivere.
Subito il Petrarca allontana da sé un gradimento e una sintonia con i molti: c’è una scelta di carattere elitario, aristocratico, di una aristocrazia affermata in termini morali innanzitutto. D’altra parte se piacessero a molti, piacerebbero anche agli ignoranti, e non è di certo quello che Petrarca cerca.
Anche per quello che riguarda i dotti, potrebbero questi suoi scritti non piacere: di questo Petrarca può rammaricarsi, d’altra parte non si meraviglierebbe: introduce in questo senso attraverso quello che potrebbe essere inteso come un topos modestiae, in realtà un paragone eccellente tra sé e Cicerone: se anche a colui che è il grande maestro dell’eloquenza antica capitò di avere dei giudizi negativi sul suo stile, tanto più potrà accadere a lui Petrarca.
Il collegamento è più diretto di quanto potremmo pensare: oltre che in relazione alla citazione di una lettera di Cicerone che fa parte delle stesse epistulae che Petrarca l’anno prima aveva scoperto nelle biblioteca capitolare di Verona, c’è anche da dire che questo rilievo negativo fu relativo a Cicerone da parte del dedicatario dell’orator. Quindi si viene a stabilire un rapporto scrittore-dedicatario in termini di risoluzione opposta: questo non teme nei confronti del proprio dedicatario il Petrarca, perché sa che il vescovo Filippo ha sempre guardato con benevolenza e amicizia quello che egli scrive.
A questa considerazione se ne aggancia un’altra e introduce la speranza che il dedicatario dia un giudizio positivo non solo per benevolenza e amicizia ma proprio perché possa essere meritato: e questo è ciò che spera Petrarca perché in questo modo si può affermare la grandezza della sua scrittura evidentemente.
Questo dà lo spunto ad introdurre il motivo del fatto che valga la pena dedicare il suo otium (un tempo che è dedicato a quelle occupazioni che non sono quelle dei negotia, ovvero faccende che possono essere diversamente articolate). Quindi quello che è il suo tempo libero lo può dedicare alla scrittura; in realtà il Petrarca tende a richiamare a sé il tempo come otium; alla scrittura vale la pena che egli occupi questo suo tempo. Se dunque gli può essere dato di scrivere cosa destinata a non morire, dunque qualcosa di eccellente, che possa durare nel tempo, che cos’altro dovrebbe cercare di fare se non di rendere partecipe della fama e della gloria di un così illustre destinatario; perché la fama e la gloria dell’illustre destinatario sarebbe una garanzia che la sua opera ottenga la gloria e la fama vincendo il tempo, quella corruzione, quella decadenza di tutte le cose portata a sé dal tempo.
Ricordiamo che il motivo della fama, della gloria, e il senso del tempo che trascorre insidiando tutte le cose, sono temi profondamente petrarcheschi.
A tutto questo si aggiunge il fatto che egli dà un tributo al vescovo: abbiamo visto che il vescovo di fatto esercitava il suo magistero vescovile sulla diocesi presso la quale si trovava la dimora del Petrarca, a Valchiusa. Il vescovo ce l’ha sia dal punto di vista spirituale sia come feudatario: quindi il discorso del tributo reso al vescovo si pone anche nei termini di una fedeltà. E questo è un aspetto che vedremo anche in un contesto più avanzato cronologicamente da un punto di vista cortigiano, cioè uno scarto da parte di chi riconosce chi è gerarchicamente superiore a se e gli rende il tributo dovuto in termini di fedeltà e dall’altra parte il signore che a sua volta concede e dà in cambio il proprio aiuto e la propria protezione; qui il motivo è accennato soltanto, ma è un motivo significativo.
D’altra parte c’è un nuovo moto di pensiero prodotto con una avversativa: se si espone al pubblico scrivendo, si espone anche alle critiche dei detrattori, per evitare le quali bisognerebbe restare nel silenzio. Ma le critiche dei detrattori , che non riguardano tanto, e soltanto il tempo presente ma riguardano i posteri: come rimane la memoria di chi scrive?: attraverso la parola scritta. E qui il rischio è un rischio gravoso: non riguarda solo il suo stile, ovvero un giudizio dato su di lui come letterato, ma riguarda la sua stessa condotta di vita: molto ampiamente Petrarca parla entro la sua opera anche di sé.
A questo punto dovrebbe richiamare a sé quello che è proprio dell’opera dell’animo, della spinta datagli dall’animo e non dalla penna, alla scrittura dell’opera, ma dice che è troppo tardi: perché il Petrarca è un uomo che è già noto, è pubblicamente conosciuto: «sono ormai conosciuto, letto e giudicato, non ho ormai speranza alcuna di sfuggire i discorsi degli uomini e di nascondere il mio ingegno sia uscendo in pubblico, sia rimanendo in casa mi tocca mettermi in mostra».
L’argomento vero e proprio dell’opera
Persuadere chi è già persuaso. Fatte queste premesse, viene introdotto l’argomento, che è l’elogio della vita solitaria e tranquilla. Un elogio che non soltanto il Petrarca stesso ha sperimentato, ma che anche l’illustre interlocutore conosce e d’altra parte ha sperimentato per un cero tempo anche insieme allo stesso Petrarca; in quello che il Petrarca scrive non c’è un istanza diretta di persuasione dell’interlocutore, perché questi è già convito: ed è facile dunque convincere chi è già convito: quindi sotto questo profilo l’opera del Petrarca è facile, sarebbe impossibile se volesse convincere di questo il volgo: ciò sarebbe vana fatica; non soltanto il volgo ignorante ma anche molti dei letterati e dei letteratissimi.
Polemica verso i letterati. E qui si inserisce una forte polemica nei confronti di molti letterati, una forte polemica in relazione a quello che è il rapporto tra le loro conoscenze e il loro modo di vivere. L’unire da parte loro il sapere ad una condotta vergognosa. E d’altra parte uno degli obiettivi del Petrarca sono gli aristotelici: è uno dei motivi che ricorre anche nelle invettive petrarchesche e che qui dà occasione anche per la presentazione di un quadro ironico; dove dice ad un certo punto (pag. 57): «sventagliando un Aristotele che se ne starebbe volentieri tranquillo avanzano compatti tra l’ammirazione del volgo»; ora vediamo che proprio individua in questi i nemici della vita solitaria, che sono quelli che «riversandosi per le strade e per i portici, vanno contando torri e cavalli e quadrighe», cioè tutto quello che è più evidente in termini esteriori; «che vanno misurando piazza e mura, e restano meravigliati a bocca spalancata davanti ai femminili ornamenti, di cui nulla è più effimero, nulla è più vano; né rimangono incantati solo davanti ai vivi, ma anche davanti a figure di marmo: si fermano attoniti come per parlare ogni volta che si trovano davanti ad una statua, e si dilettano della folla e del fracasso». Tutto ciò c’è all’esterno da sé, il non rimanere all’interno di sé stessi ma essere attirati da tutto ciò che c’è fuori; soprattutto da tutto ciò che appare nella sua veste esteriore, non a caso si sottolinea ciò che è effimero in riferimento agli ornamenti delle donne. Definisce il dilettarsi della folla e del fracasso come «forme di pazzia». «Essi» continua, «portano in giro come cose da vendere la loro letterata stoltezza, sono questi gli avversari della solitudine, ma anche i nemici della propria casa, che usciti di prima mattina solo allora tarda riconduce finalmente all’odioso limitare, sono questi coloro per cui è diventato proverbiale: ‘è bello ritrovarsi con le persone».
Qui la contrapposizione che viene fatta è molto netta: ci viene data un immagine dell’uomo nel suo stato di ferinità: meglio ritrovarsi tra boschi e tigri dirà poco dopo: se l’uomo non si spoglia della ferinitas ed acquisisce quella humanitas che lo distingue come uomo, tanto meglio starsene lontani e non praticare nulla. E per diventare appunto coloro che sono uomini che sono rivestiti della humanitas e non della ferinitas bisogna acquisire ciò che è proprio dell’uomo e quindi quella cultura che si traduce in sapienza. E d’altra parte se si domanda a questi uomini perché stanno così volentieri in mezzo alla gente, fanno una confessione cruciale: lo fanno perché non possono stare con sé stessi! Tra l’altro questo, e non è il solo, è uno dei motivi che possono ricordare, a chi ha una qualche familiarità con Seneca, alcuni tratti della riflessione di Seneca nel rapporto tra il cercare di allontanarsi da sé stando in mezzo alla folla e lo stare con sé stessi, anche se come giustamente è stato detto, e tra gli altri da un grande studioso del Petrarca che è marco pastore Stocchi, in effetti poi i motivi tratti da Seneca che sono presenti qui nell’ambito del trattato, sono rivisti e ripresi in un clima in un tono che risente molto più direttamente della confessione, del soliloquio, della meditazione intima che ha come matrice per Petrarca quella agostiniana. Di questo argomento parlerà più a lungo a suo tempo, adesso si limita a dire che non c’è nulla di più difficile che cercare di estirpare gli errori radicati. Infatti in questo modo, proprio riferendosi a coloro che egli esclude da quanti possono conoscere ed apprezzare quello che è proprio di una vita che abbia nel ripiegamento interiore e dunque nella solitudine il suo punto di forza, egli mette in evidenza come questi non sono il suo pubblico: come già avevamo visto in relazione a Dante: nel momento in cui si identifica un pubblico, se ne esclude un altro. Quindi ritorna su questo punto del pubblico: a) i molti ignoranti, e, b) tra quelli che sono dotti, quelli qui identificati.
Qual è il suo pubblico? Non viene specificato in termini ampi, viene detto: mi rivolgo ad altri ingegni. Ma qual è di fatto il pubblico prescelto? Quello che si rispecchia all’interno dell’interlocutore, e questo bene lo si intende, in relazione al quale il Petrarca ha un rapporto di rispecchiamento in una sorta di rapporto come alter ego. Torna in questo modo, per chiudere circolarmente la lettera, sulla figura dell’interlocutore. E di nuovo ripete che non scrive queste cose per persuaderlo, perché lui è già persuaso, ma perché gli risultino più evidenti: quindi per mostrare in modo più evidente ciò che, sia a lui, sia al’interlocutore risulta una cosa già da entrambi condivisa.
Il topos: la richiesta di ascolto. A questo punto si deve stabilire un rapporto di ascolto, e dunque l’interlocutore, il quale per le sue stesse ragioni di ufficio è un vescovo, e quindi è un uomo che ha più occupazioni, allora deve fare una sorta di patto stesso e con le proprie occupazioni: così come è utile alternare anche per chi come il vescovo ha queste serie e gravi occupazioni, alternare momenti di occupazioni e momenti in cui c’è questa disponibilità dell’animo, che è un allontanare da sé anche gli affanni e le sollecitudini di chi come il vescovo, ripeto, ha occupazioni importanti, e dedicarsi alla meditazione alla riflessione interiore; tra questa alternanza di momenti faccia dunque spazio all’ascolto: e questo è un altro degli aspetti ricorrenti nelle dedicatorie, ovvero la richiesta di ascolto per chi scrive. Infatti così finisce: «ascoltami dunque e sentirà quali sono le mie opinioni su questo vivere solitario». Una matrice che viene dichiarata dallo stesso scrittore come profondamente radicata in relazione al suo io, una matrice altamente autobiografica dichiarata; questo non vuol dire che non la dobbiamo intendere come un effettivo documento dell’anima del Petrarca: questa è una autobiografia di meditazione di carattere letterario quant’altre mai, questo in relazione a tutta l’opera del Petrarca lo sappiamo benissimo.
Libro Primo
Per dare almeno l’idea di come è svolto questo trattato, ho scelto di vedere l’inizio del primo libro. Sono due libri, diversi nell’impianto tra di loro, qui leggiamo il primo.
La prima parte di questo primo libro è costituita ancora da una formula proemiale: si riprendono alcuni temi già detti nella lettera dedicatoria, ma si aggiungono anche altri. La differenza profonda, stando evidenti le differenze di tempo, di clima culturale, di interessi, è ben diverso il modo in cui qui inizia Petrarca rispetto a come aveva iniziato Dante nel Convivio. E un paragone fatto così solo a fini didattici: il convivio iniziava con una sentenza in relazione all’inizio della Metafisica di Aristotele, il Filosofo per antonomasia. Qui inizia invece con la propria voce, con l’io dello scrittore: «io credo». Anche in questo caso abbiamo una esposizione in prima persona di un concetto generale sotteso all’opera, un concetto generale che poi ulteriormente si preciserà, e , come giustamente è stato detto, si vede bene la vocazione umanistica del Petrarca che punta come perno, che ha fede nella centralità nell’esperienza morale e storica dell’uomo, in questo caso l’uomo che dice io, l’autore.
I Paragrafo
«Io credo che un animo nobile reque [riposa] in luogo alcuno». E qui ne spiega poi e continua in questo discorso che si correla nella ricerca della solitudine, qualunque sia il fine: sia che si vada in cerca di Dio, che di sé stessi, e gli onesti studi che ci aiutano a raggiungere l’una cosa e l’altra, qualunque sia la ricerca intrapresa, quello che è importante e fondamentale è l tenersi più possibile lontani dalla turba degli uomini e dal turbine della città. Cosa che è di manifesta evidenza secondo l’autore tanto che non lo negherebbero forse nemmeno quelli che sono i suoi antagonisti, cioè quelli che si dilettano dell’affluenza e dello strepito della gente. Ne è tanto convito che parla di questo come dell’eccelso sentiero della verità.
Ma parlare a chi abbia un animo diverso in questo senso, e abbia il proprio animo pieno di errori e non voglia cominciare con il volerli estirpare è come parlare ai sordi. E qui esprime una fiducia che presa alla lettera potrebbe sembrarci in contraddizione con quello che abbiamo appena letto nella lettera dedicatoria: «io ho fiducia che le persone dotte si troveranno facilmente d’accordo con me nel pensiero e nelle parole»: in realtà ci sono alcune differenze nell’uso terminologico che varrebbe la pena approfondire, e che qui accenniamo soltanto dato che preso così seccamente potrebbe sembrare una contraddizione: qui parla di eruditi, non di docti, usa un’altra espressione; come dire: « chi ha la stesa conoscenza e chi ha svolto gli stessi studi, le stesse letture, ed ha verificato con l’esperienza sarebbe d’accordo con me», questa è comunque un’interpretazione ipotetica. In ogni caso questo non ci serve per seguire la lettura, perché poi liquida tutti questi dicendo: «se tutti poi disentissero, tu almeno non dissentirai» [e si rivolte col tu al dedicatario anche all’interno del trattato], c’è sempre questo rapporto stretto tra lui e l’altro, come se questi fosse il suo alter-ego.
E continua: «tu vedrai rispecchiato nelle mie parole il tuo pensiero», e quindi pone di fatto la sua opera e le sue riflessioni sotto il baluardo stesso e la difesa datagli dal prestigio e dall’autorità dell’interlocutore come colui che condivide pienamente le sue idee. E d’altra parte in questo modo il Petrarca è convito di aver toccato la meta più alta di chiunque parla: qual è il fine di quando si parla con un interlocutore? Il fine è quello, secondo questa definizione che il Petrarca ci dà, della persuasione: la scrittura ha la funzione di persuadère, si tratta di persuadere piuttosto che dimostrare. Ma persuadere chi è già persuaso, e qui torna su quello che ha già detto, è facile: dunque la palma della vittoria come scrittore che l’ha praticamente già in tasca.
Rapporto con i precedenti. A questo punto si pone anche il discorso relativo a quello che già può essere disponibile in relazione alla materia, ovvero un rapporto possibile con gli auctores, e quello che riguarda la possibile o meno novità , questo è sottinteso, della propria opera; e quindi dichiara di sapere per certo che altri hanno scritto sulla vita solitaria, dice che alcuni santi uomini hanno scritto molto di ciò; e qui cita uno dei padri greci San Basilio, e introduce una notazione filologica, a cui Petrarca non rinuncia nemmeno in questa sede proemiale, mettendo in dubbio che quello scritto di Basilio a cui si riferisce, sia suo o se non sia da scrivere piuttosto a Pier Damiani.
D’altra parte non è questa la via che Petrarca dichiara di aver seguito, ma dichiara in vece di aver seguito in gran parte i dettami della sola esperienza: quello che è importante è ancora quello che riguarda la propria esperienza di letterato e il senso intimo della propria vita e della propria storia di uomo. Naturalmente va presa come una dichiarazione che non dobbiamo interpretare in termini assoluti, la sostanziale volontà di mettere in evidenza la via che egli segue, ma dobbiamo tener presente che siamo nell’ambito di una simulazione di un discorso non ordinato, fatto come all’improvviso, ma in realtà è sostanziato di libri, di letture, di testi, di auctores. Qui la dichiarazione è quella di seguire il proprio animo e non le altrui orme; (pag. 63)«Udrai dunque più cose da coloro che ne hanno sperimentate di più, o le hanno apprese da chi le ha provete»: sempre sulla base della esperienza propria, senza escludere anche quella altrui, ma non attraverso un magistero diretto da altri.
«Da me sentirai ora quello che mi viene in mente così all’improvviso»: anche questo è un elemento che poi ritroveremo come elemento costante in molti altri trattati, soprattutto nei trattati in forma di dialogo successivamente, quello di un percorso che non viene dato in modo definito come preordinato, e il fatto di dire «le molte cose che mi vengono in mente» ha a che vedere con lo svolgimento e con l’impostazione del trattato stesso, una cosa di questo genere Dante non l’avrebbe mai affermata; sarebbe stata fuori dal suo modo di procedere, ne sarebbe stata mai corrispondente e confacente a questo. Qui quello che viene detto apertamente è il modo di svolgimento operante attraverso successive meditazioni: riflessioni meditazioni commenti e citazioni si susseguiranno nel corso del trattato: un diverso modo, una diversa impostazione, ed anche un diverso gusto sotto il profilo espressivo, oltre che culturale.
Dichiara poi di non aver fatto una grande fatica, di non ritenere questo necessario, perché per l’appunto la materia è talmente ampia, e la conosce così bene per esperienza personale che non gli era necessario. E dunque dichiara di non aver consultato libri, e di non aver molto curato il suo stile: questa dichiarazione è in relazione alla scelta di uno stile disadorno che si sostanzia di concetti (sententiae) e di un parlare familiare, dunque un’affermazione di uno stile che si afferma come disadorno, di un modo di procedere che si afferma come un modo che segue i moti dell’animo e d’altra parte la sottolineatura di un lavoro che non sarebbe, percome è manifestato a chi legge, frutto di grande impegno o fatica.
D’altra parte chiama nuovamente la testimonianza dell’interlocutore che condivide con lui l’amore della solitudine e della vita dedicata agli studi e alla meditazione, e ciò viene richiamato anche proprio in relazione a quello che è della vita del vescovo, il quale pur essendo vicino alla curia di Avignone, non partecipa alla vita della curia. Invece ha mostrato di preferire, rispetto ad avere un incarico anche prestigioso, quella che viene qui definita «l’angelica solitudine».
Vantaggi e svantaggi: Ozio lieto vs Triste negozio. Come procederà dunque nel suo trattato per mostrare la felicità della vita solitaria? [36:58] Mostrerà gli aspetti positivi di questo stato e insieme gli svantaggi e gli inconvenienti di chi rifugge dalla vita solitaria. Quindi prendendo in rassegna le azioni degli uomini che hanno scelto la vita solitaria, che rende amanti della pace e della tranquillità e all’opposto, quella degli uomini violenti, preoccupati e affannosi. Infatti unica è la radice di entrambe le cose: chi sceglie la vita solitaria sceglie la felicità, chi non la sceglie, sceglie l’affanno.
Domanda: l’affermazione fatta precedentemente sullo stile può essere considerata una dichiarazione di modestia?
Allora, è un elemento anche topico nel richiamo, può essere correlato al topos modestiae, ma vuole essere una dichiarazione di un modo di scrittura che viene dichiarata come non ricercata nello stile, che punta sui contenuti piuttosto che sugli orpelli dello stile, in quanto ci deve essere un’adeguatezza tra il contenuto e lo stile, ma non corrisponde a quello che è nell’elaborazione: il labor limae è uno degli aspetti ben noti e ben conosciuti dell’opera del Petrarca; in un certo senso è un modo retorico di porre se stesso e la propria opera e di affermarne le connotazioni. Non va preso evidentemente sul piano di una sostanziale testimonianza, in senso stretto, di veridicità, è un modo per affermare il carattere della sua opera che non è un opera di carattere accademico, che non è scritta con i modi e procedimenti e lo studio che sarebbe richiesto proprio da un trattato che rispondesse a modi che non sono i suoi: i modi propri del trattato morale sono quelli per il Petrarca di fare perno sulla propria esperienza e sull’esperienza degli altri, e di scendere nella propria interiorità e di analizzare la propria vita e la propria storia di uomo. Non possiamo prenderlo alla lettera quando dice che non si è basato sulla consultazione di molti libri ecc.. smentirebbe sé stesso se noi lo prendessimo alla lettera e guardassimo che cosa ha fatto nel secondo libro: dove c’è una rassegna di exempla e di racconti; ma le citazioni di autori sono importanti anche nel primo libro, così come molto presente è tutta una serie di richiami non solo scritturali ma anche di carattere patristico. E proprio il voler contrapporre chi basa la propria conoscenza e la propria scrittura sui libri degli altri intesi in riferimento a quei dotti che diceva prima che abbiano acquisito una conoscenza che è più una zavorra che non una conoscenza effettiva meditata, che traduca la sapienza in una esperienza di vita vera e propria. E un motivo anche di carattere polemico nonché retorico, che troveremo anche sistematicamente nei trattati in forma di dialogo, dove si dichiara continuamente l’intenzione di procedere senza un piano preordinato, e dove si finge una conversazione con argomenti che sono venuti in quel momento in mente a chi parla, ma se noi guardiamo la costruzione del discorso è evidente che non è così. Ma è per contrapporsi anche al procedimento delle scuole, per esempio per contrapporsi al modo in cui è impostata la questio: il modo della trattazione, che deve essere, là, preordinata in tutti i suoi argomenti.
Qui dunque sta spiegando elementi positivi della solitudine e negativi della vita affannosa. Dato che la radice è una sola, accoglie questi due versanti in questo unico discorso, ed è evidente che tutto è prospettato nell’ottica della felicità: vantaggi contro svantaggi.
I peccati degli uomini. D’altra parte spiega anche subito, e questo è un punto focale del discorso che tornerà più oltre, che non si riferisce ad un discorso di solitudine come quella di una vita selvatica, non è questo il punto di fondo: non odia gli uomini, ma odia i peccati degli uomini, e riconosce tra l’altro, tra i peccati degli uomini, i propri. Quello che odia sono appunto i peccati degli uomini e i propri, nonché le preoccupazioni, gli affanni, le molestiae, che hanno dimora tra gli uomini.
Una visione sinottica. Per rendere più evidente il discorso e al tempo stesso anche in termini diciamo più apprezzabili dal punto di vista del lettore, e rendere più efficace il discorso, invece di illustrare separatamente per esempio prima gli svantaggi e poi i vantaggi o viceversa, spiega che ne parlerà mescolando entrambi gli elementi: cioè il modo suo di procedere in questo suo primo libro è quello di mostrare in contrapposizione le due posizioni e in primo luogo le due figure dell’indaffarato e del solitario, spiegando tra l’altro di aver messo in prima sede le cose più amare per far seguire poi le più dolci: ci presenta prima la persona dell’occupato, in termini negativi, e poi quella del solitario, intrecciando via via, dopo aver prima presentato questo, i due discorsi.
A questo punto vi ho dato una prima parte di questo contrappunto, di questo confronto che viene fatto in modo tale da presentare una sorta di caricatura dell’occupatus, e di idealizzazione, assolutizzazione della figura dell’uomo solitario e tranquillo. Questo viene fatto seguendone una giornata, nella scansione di diversi momenti della giornata.
II paragrafo
«si alza sé stesso e gli altri». La vita dell’occupatus qui è mostrata quando questi si sveglia, interrompendo il suo sonno a causa delle angosce e delle occupazioni frenetiche che lo aspettano. Ci viene mostrata in questo primo passo, non solo come quello che è continuamente assillato e si trovi in una condizione di infelicità propria, ma anche come quella del’ingiusto: qui ne è fatta anche una caricatura, si è detto, in toni che possono essere tratti da un gusto satirico tipico per esempio di Giovenale, autore che Petrarca può aver avuto presente; ma ci sono dei tratti ulteriormente caricati, sempre di questa figura dell’occupatus, sia in lettere che in altre opere di Seneca.
Qui è molto caricato, e molto moralmente negativo in tutti i suoi tratti; legata questa figura alla città. La figura del solitario è legata invece ad un ambiente tipico della campagna. Pag. 67:
«si alza notturno usignolo»
– Tranquillo = otiosus
– i tratti sono anche da un punto di vista stilistico-espressivo in una opposizione evidente.
«appena sceso che stanno per uscirne».
– l’uomo tranquillo e otiosus è anche l’uomo religioso. C’è uno stretto connubio in questo senso proprio tra quello dell’essere dedito a questo otium, il vivere in campagna nella vita solitaria, ed essere immerso in una contemplazione e devoto.
«invoca prova alcuna ecc »
– D’altra parte l’esaltazione di questo stato non può uguagliare in nessun modo con altre.
Letture. In questo si inserisce fin da qui e subito, il fatto che egli sia dedito a qualche bella lettura: è l’otium nutrito delle humanae litterae. E d’altra parte accoglie il giorno che viene con una gran pace nell’anima. Questo stesso motivo della contrapposizione di ripete più volte, perché poi arriva il giorno, sorge il sole e si vedono le diverse rappresentazioni. E qui abbiamo un’efficacia nella rappresentazione stilistica, ancora attraverso questa caricatura della situazione in cui viene a trovarsi l’occupatus.
«Quegli ha l’abitazione invasa diffamato» (pag 67). Una contrapposizione continua e costante per tutte le parti della giornata. Naturalmente questo è solo l’inizio (poi c’è il pranzo e ci sono altre ore della giornata) qui c’è questa contrapposizione tra una caricatura espressa in termini così fortemente negativi; ma che una forte idealizzazione degli aspetti relativi all’uomo solitario, ozioso e tranquillo. Ma nel contesto del primo libro Petrarca svolge ampiamente questo discorso, toccando punti e aspetti diversi, trattando ad esempio la condizione dell’indole dei diversi uomini, e di quello che più è pertinente a loro: egli stesso aspira ad affermare a pieno titolo, e sottolinea con grande efficacia, lelogio della vita solitaria, non si mette nella condizione per quanto riguarda sé stesso, se non in certi tratti, di un contemplativo nel senso stretto del termine: è stato giustamente detto che in realtà il suo obiettivo è un contemperare quello che è proprio dellozio operoso del letterato, con ciò che è proprio della devozione dell’animo cristiano: con entrambi i poli dunque, per quello che riguarda l’autore. Ovviamente diversamente declinata all’interno del tratto è la figura dell’interlocutore: in modo particolare, tra gli esempi dati degli uomini amanti della solitudine ha posto anche come esempio quella appunto del dedicatario-interlocutore.
Il secondo libro
Rassegna di exempla illustri. Se il primo libro svolge considerazioni di carattere generale: la cosiddetta «filosofia morale», il secondo vuole scendere sul piano della storia, come dice l’autore stesso. C’è dunque una rassegna molto ampia, e un po disordinata, che non segue un ordine cronologico, ma segue piuttosto un raggruppamento per categorie: che vanno dai profeti, a personaggi del vecchio e del nuovo testamento, ai martiri, agli eremiti ai santi, fino ad arrivare a tempi moderni. Non fino alla contemporaneità, salvo rare eccezioni: tra le figure sottolineate con forza c’è quella dello stesso Pier Damiani citato prima, naturalmente anche quella di S. Francesco. C’è naturalmente anche una serie di esempi tratti dal mondo antico classico: figure, personaggi, poeti, filosofi e sapienti che nelle loro opere hanno celebrato la solitudine, l’elogio della vita solitaria. Ci sono anche aspetti che aprono a racconti di viaggio che evidentemente il Petrarca deve aver avuto presenti: non ci sono soltanto popoli e riferimenti all’occidente, ma abbiamo anche la saggezza e la sapienza di saggi indiani. Questo per dare un’idea del coacervo di exempla.
Un nuovo modello umanistico: la rassegna. Questo aspetto della rassegna e della trattazione per exempla è un aspetto ben presente nella cultura umanistica, in larga misura l’opera del Petrarca, non solo la vita solitaria ma anche altri testi, ha una funzione di rinnovare ed anche inaugurare per quello che riguarda la nuova cultura umanistica,la trattazione per exempla o per rassegne: l’aveva già fatto in altri argomenti, ad esempio i fatti degni di memoria, oppure dopo il de vita solitaria farà una raccolta di exempla di uomini illustri. Questo aspetto è da ricordare anche perché se noi dal Petrarca prendiamo in esame invece Boccaccio, questo è uno degli aspetti che si possono considerare fondamentali per l’operosità latina del Boccaccio. Diversi trattati latini del Boccaccio sono rassegne o dizionari relativi a luoghi, geografici, o a genealogie: la Genolog?a deorum gentilium in 15 libri è appunto una sorta di grande enciclopedia dei miti classici ma organizzata nella forma di trattato-repertorio che ebbe anche una grande fortuna anche successivamente e quello che è interessante, in relazione al trattato, è che questa opera è organizzata secondo una forma di catalogazione sullo schema dell’albero genealogico: quindi la ricerca di un principio sistematico. Il Boccaccio amava disegnare, e nel manoscritto laurenziano di questa opera ci sono disegnati gli alberi genealogici.
Quello della rassegna, della catalogazione, del procedere per exempla è un aspetto che ha una storia e ha un importanza che va rilevata e sottolineata.
In conclusione va notato che l’introdurre in modo significativo il ricorso agli exempla è un elemento che tornerà in modo significativo entro le forme di trattato, sia dialogico che monologico, per quello che riguarda tutto il movimento umanistico: il discorso «teorico» viene poi sostanziato da l ricorso all’esempio antico.
Importanza del Secretum per la forma Dialogo.
Il rilancio del dialogo ciceroniano. Del Secretum qui diciamo solo ciò che è pertinente agli sviluppi che ci interessano più direttamente. In relazione al Secretum, Petrarca mostra bene di aver presente le potenzialità del dialogo, in particolare del modello di dialogo Ciceroniano. Questo modello è citato da Petrarca espressamente: facendo l’esempio del Laelius de Amicitia, ponendosi in questo senso in una sorta di catena che parte da Platone, dal quale Cicerone trasse spunto, e che vede dopo Cicerone Petrarca stesso entrare in questo ambito di svolgimento e sviluppo della forma dialogo. Che cosa riprende nella sostanza in questo senso? Riprende quello che è l’andamento mimetico, drammatico del dialogo: c’è una breve cornice introduttiva di carattere diegetico, poi citando il Laelius subito dice che per non continuare a ripetere le formule «egli disse», «dissi» ecc introduce direttamente le parole.
Atto di nascita del dialogo umanistico. E quindi questo filone del dialogo mimetico che viene rilanciato autorevolmente, mediante il Secretum, dal Petrarca stesso. L’impianto mette in correlazione elementi tradizionali e nuovi anche nell’impianto: secretamente nuovo in senso umanistico è questo richiamo Ciceroniano, tradizionale è quello che ha a che vedere con la visione, poiché i personaggi sono Agostino, Petrarca e la Verità. La Verità tra l’altro assiste muta al dialogo. L’impostazione è in tre diverse sedute, che corrispondono a tre diversi libri. Quindi ci sono questi due elementi: quello tradizionale della visione, l’introduzione di una presentazione di una cornice non realistica (la visione di per sé si esclude che possa esserlo); al tempo stesso c’è l’impianto della distribuzione in tre sedute, tre diversi momenti dello svolgimento del dialogo stesso, e d’altra parte questo impianto che da una iniziale forma diegetica passa alla forma mimetica e poi drammatica. Questa forma drammatica è particolarmente felice perché presenta una esteriorizzazione del sé della voce dell’autore, che dunque è presente come autore in quanto scrittore del dialogo stesso,ma è presente anche come figura drammatica, come personaggio: il personaggio di Francesco.
Sul Secretum non ci soffermiamo: ma è importante ricordarlo come l’atto di nascita del dialogo umanistico anche se questo poi si svolge e si articola in forme diverse. Uno di questi esempi di dialogo umanistico è quello del Bruni: i Dialogi ad Petrum Paulum Histrum, in latino.