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18 Ottobre 2024Il romanzo Mastro-don Gesualdo si chiude con la morte del protagonista, sempre più solo tra l’indifferenza dei servitori e l’assenza della figlia, che prova disagio accanto a lui, e non è l’unica.
Riassunto della morte di Mastro don Gesualdo:
Dopo alcuni giorni trascorsi tra momenti di miglioramento e peggioramento, don Gesualdo ebbe un improvviso peggioramento durante la notte. Un servitore, che dormiva nella stanza accanto, lo sentì agitarsi, ma, essendo abituato a quei “capricci”, decise di non intervenire. Alla fine, infastidito dai rumori continui, si alzò a controllare e don Gesualdo, con una voce ormai irriconoscibile, gli chiese di chiamare sua figlia. Il servitore promise di farlo, ma tornò a letto. Tuttavia, il rantolo e i rumori provenienti dal malato erano così strani e disturbanti che il domestico si alzò di nuovo.
Quando guardò don Gesualdo, si rese conto che qualcosa di serio stava accadendo. Lo vide respirare a fatica e irrigidirsi fino a fermarsi del tutto, proprio mentre cominciava a spuntare l’alba. Il servitore, senza fretta, si vestì, tirò le tende, aprì le finestre e si mise a fumare, osservando la scena con distacco.
Altri domestici cominciarono a fare capolino nella stanza e si scambiarono commenti sulla morte di don Gesualdo, con un atteggiamento quasi indifferente. Si lamentarono delle difficoltà che avevano avuto a servirlo durante la sua malattia, mentre una domestica, Carmelina, si mostrava un po’ intimorita. Infine, decisero di avvertire la cameriera della duchessa, la figlia di don Gesualdo.
Analisi del testo
Questo passaggio finale del Mastro-don Gesualdo di Giovanni Verga rappresenta il momento della morte del protagonista. L’atmosfera è resa con un forte realismo e un tono di indifferenza da parte dei servi, che commentano con distacco la morte del padrone.
Tematiche principali:
- L’indifferenza umana: La morte di Gesualdo, un uomo che ha passato la vita a lavorare e accumulare ricchezze, è accolta con freddezza e disinteresse dai servitori. C’è una critica implicita alla vanità delle ricchezze e al potere: alla fine, tutto si dissolve nell’indifferenza di chi ci circonda.
- La solitudine del protagonista: Gesualdo muore solo, circondato da persone che non lo amano né lo rispettano veramente. Nonostante la sua ricchezza, non ha nessuno accanto a lui che possa dargli affetto o conforto nei suoi ultimi momenti di vita.
Sequenze
- Peggioramento improvviso (vv. 1-21): Dopo una fase di apparente miglioramento, Gesualdo peggiora rapidamente durante la notte, ma il servitore non interviene subito.
- La scoperta del servitore (vv. 22-36): Il servitore, infine, si rende conto della gravità della situazione e osserva la morte di Gesualdo con distacco, rimandando ogni azione.
- I domestici reagiscono alla morte (vv. 37-72): La scena si popola di servitori che, invece di manifestare rispetto o dolore, commentano la morte con tono quasi scherzoso e distaccato, rivelando una totale mancanza di empatia.
- Decisione di avvertire la famiglia (vv. 73-76): Alla fine, si decide di informare la cameriera della figlia di Gesualdo, con la stessa indifferenza e routine.
Figure retoriche
- Similitudine:
- “Peggiorò rapidamente… come uno che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo…” (la similitudine descrive l’agonia di Gesualdo).
- Climax discendente:
- “Si irrigidì e si chetò del tutto” (rappresenta la fine della vita in un’immagine improvvisa e definitiva).
- Onomatopea:
- “Sibili”, “guaiti rauchi”, “rantolo” (suoni che contribuiscono a creare un’atmosfera cupa e di sofferenza).
- Ironia:
- “Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica…. E neanche lui…” (il tono scherzoso e fuori luogo dei servitori davanti alla morte).
- Personificazione:
- “La casa sottosopra”, “il gelo che dava noia” (il gelo è presentato come se fosse qualcuno che dà noia” con un effetto attivo, per enfatizzare l’inquietudine della situazione).
- Metafora:
- “Fare della notte giorno” (riferimento all’insonnia e ai disturbi di don Gesualdo).
- Ripetizione:
- “Un po’ erano sibili, e un po’ faceva peggio…” (l’uso ripetuto della espressione un po’ ” rafforza la sensazione di noia e monotonia percepita dal servitore).
Commento
In questo passo, Verga mette in evidenza la crudele indifferenza della vita umana verso la morte. Il distacco e il cinismo dei servitori di fronte alla morte del padrone rivelano la vacuità della vita e della condizione sociale. Don Gesualdo, che ha dedicato tutta la sua esistenza all’accumulo di ricchezze, si ritrova solo in punto di morte, circondato da persone che non lo rispettano né lo amano. Questo scenario rappresenta un’ultima beffa per un uomo che ha sempre cercato di costruirsi una posizione di potere e prestigio.
La critica sociale di Verga emerge con forza: la nobiltà o la ricchezza non garantiscono la felicità o il rispetto. Il mondo dei servitori, che dovrebbe essere umile e grato verso chi li mantiene, si rivela invece meschino, pronto a deridere chi ha perso il proprio potere.
Il verismo di Verga è evidente nel linguaggio realistico, nei dialoghi diretti e nel tono distaccato con cui vengono descritti i fatti. L’uso della lingua siciliana e dei modi di dire popolari contribuisce a rendere la narrazione ancora più cruda e spietata, mostrando l’essenza tragica della vita e la sua ineluttabile fine.
Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternative di meglio e di peggio. Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte, peggiorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza accanto l’udì agitarsi e smaniare prima dell’alba. Ma siccome era avvezzo a quei capricci, si voltò dall’altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella canzone che non finiva più, andò sonnacchioso a vedere che c’era.
— Mia figlia! — borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava più la sua. — Chiamatemi mia figlia!
— Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla, — rispose il domestico, e tornò a coricarsi.
Ma non lo lasciava dormire quell’accidente! Un po’ erano sibili, e un po’ faceva peggio di un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi, come uno che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava la pelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando delle bestemmie e delle parolacce.
— Cos’è? Gli è venuto l’uzzolo adesso? Vuol passar mattana! Che cerca?
Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse il paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di tornare a dormire gli andò via a un tratto.
— Ohi! ohi! Che facciamo adesso? — balbettò grattandosi il capo.
Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era meglio aspettare un po’, o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa sottosopra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso da un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre fissi e spalancati. A un tratto s’irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava a imbiancare. Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei cavalli, e picchiare di striglie sul selciato.
Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò a rassettare la camera. Tirò le cortine del letto, spalancò le vetrate, e s’affacciò a prendere una boccata d’aria, fumando.
Lo stalliere che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la finestra.
— Mattinata, eh, don Leopoldo?
— E nottata pure! — rispose il cameriere sbadigliando. — M’è toccato a me questo regalo!
L’altro scosse il capo, come a chiedere che c’era di nuovo, e don Leopoldo fece segno che il vecchio se n’era andato, grazie a Dio.
— Ah… così…. alla chetichella?… — osservò il portinaio che strascicava la scopa e le ciabatte per l’androne.
Degli altri domestici s’erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì a un po’ la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne anche lei a far capolino nella stanza accanto.
— Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica…. E neanche lui…. non vi mette più le mani addosso di sicuro….
— Zitto, scomunicato!… No, ho paura, poveretto…. Ha cessato di penare.
— Ed io pure, — soggiunse don Leopoldo.
Così, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva date quel cristiano — uno che faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai. — Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi…. Basta, dei morti non si parla.
— Si vede com’era nato…. — osservò gravemente il cocchiere maggiore. — Guardate che mani!
— Già, son le mani che hanno fatto la pappa!… Vedete cos’è nascer fortunati…. Intanto vi muore nella battista come un principe!…
— Allora, — disse il portinaio, — devo andare a chiudere il portone?
— Sicuro, eh! È roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora duchessa.
Fine.
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