Canto trentatreesimo del Purgatorio
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27 Gennaio 2019Ugo Foscolo
Mezzanotte
Io mandava alla Divinità i miei ringraziamenti, e i miei voti, ma io non la ho mai temuta. Eppure adesso che sento tutto il flagello delle sventure, io la temo e la supplico.
Il mio intelletto è acciecato, la mia anima è prostrata, il mio corpo è sbattuto dal languore della morte.
E’ vero! i disgraziati hanno bisogno di un altro mondo diverso da questo dove mangiano un pane amaro, e bevono l’acqua mescolata alle lagrime. La immaginazione lo crea, e il cuore si consola. La virtù sempre infelice quaggiù persevera con la speranza di un premio – ma sciagurati coloro che per non essere scellerati hanno bisogno della religione!
Mi sono prostrato in una chiesetta posta in Arquà, perché io sentiva che la mano di Dio pesava sopra il mio cuore.
Son io debole forse, Lorenzo? Il cielo non ti faccia mai sentire la necessità della solitudine, delle lagrime, e di una chiesa!
Ore 2
Il Cielo è tempestoso: le stelle rare e pallide; e la Luna mezza sepolta fra le nuvole batte con raggi lividi le mie finestre.
All’alba
Lorenzo, non odi? t’invoca l’amico tuo: qual sonno! spunta un raggio di giorno e forse per rinsanguinare i miei mali. – Dio non mi ode. Mi condanna anzi ad ogni minuto all’agonia della morte; e mi costringe a maledire i miei giorni che pur non sono macchiati di alcun delitto.
Che? se tu se’ un Dio forte, prepotente, geloso, che rivedi le iniquità de’ padri ne’ figli, e che visiti nel tuo furore la terza e la quarta generazione, dovrò io sperar di placarti? Manda in me – bensì non in altri che in me – l’ira tua, la quale raccende nell’inferno le fiamme che dovranno ardere milioni e milioni di popoli a’ quali non ti se’ fatto conoscere. – Ma Teresa è innocente: e anziché stimarti crudele, t’adora con serenità soavissima d’animo. Io non t’adoro, appunto perché ti pavento – e sento pure che ho bisogno di te. Spogliati, deh! spogliati degli attributi di cui gli uomini t’hanno vestito per farti simile a loro. Non se’ tu forse il Consolatore degli afflitti? E il tuo Figlio Divino non si chiamava egli il Figlio dell’Uomo? Odimi dunque. Questo cuore ti sente, ma non t’offendere del gemito a cui la Natura costringe le viscere dilaniate dell’uomo. E mormoro contro di te, e piango, e t’invoco, sperando di liberare l’anima mia – di liberarla? ma e come, se non è piena di te? se non ti ha implorato nella prosperità, e solo rifugge al tuo ajuto, e domanda il tuo braccio or quando è atterrata nella miseria? se ti teme, e non ha in te veruna speranza? Né spera, né desidera che Teresa: e ti vedo in lei sola.
Ecco, o Lorenzo, fuor delle mie labbra il delitto per cui Dio ha ritirato il suo sguardo da me. Non l’ho mai adorato come adoro Teresa. – Bestemmia! Pari a Dio colei che sarà a un soffio scheletro e nulla? Vedi l’uomo umiliato. Dovrò dunque io anteporre Teresa a Dio? – Ah da lei si spande beltà celeste ed immensa, beltà onnipotente. Misuro l’universo con uno sguardo; contemplo con occhio attonito l’eternità; tutto è caos, tutto sfuma, e s’annulla; Dio mi diventa incomprensibile; e Teresa mi sta sempre davanti.
Dopo due giorni ammalò. Il padre di Teresa andò a visitarlo, e si giovò di quell’occasione a persuaderlo che s’allontanasse da’ colli Euganei. Come discreto e generoso ch’egli era, stimava l’ingegno e l’animo di Jacopo, e lo amava come il più caro amico ch’ei potesse aver mai; e m’accertò che in circostanze diverse avrebbe creduto d’ornare la sua famiglia pigliandosi per genero un giovine che se partecipava d’alcuni errori del nostro tempo, ed era dotato d’indomita tempra di cuore, aveva a ogni modo, al dire del signore T***, opinioni e virtù degne de’ secoli antichi. Ma Odoardo era ricco, e di una famiglia sotto la cui parentela il signore T*** fuggiva alle persecuzioni e alle insidie de’ suoi nemici, i quali lo accusavano d’avere desiderato la verace libertà del suo paese; delitto capitale in Italia. Bensì imparentandosi all’Ortis, avrebbe accelerato la rovina di lui, e della propria famiglia. Oltre di che aveva obbligata la sua fede; e per mantenerla s’era ridotto a dividersi da una moglie a lui cara. Né i suoi bilanci domestici gli assentivano di accasare Teresa con una gran dote, necessaria alle mediocri sostanze dell’Ortis. Il signore T*** mi scrisse queste cose, e le disse a Jacopo che sapeale da sé, e le ascoltò con aspetto riposatissimo; ma non sì tosto udì parlare di dote. No, lo interruppe, esule, povero, oscuro a tutti i mortali, mi vorrei sotterrar vivo anziché domandarvi vostra figlia in sposa. Sono sfortunato, non però vile. Né i miei figliuoli dovranno riconoscere mai la loro fortuna dalla ricchezza della loro madre. Vostra figlia è più ricca di me, ed è promessa. Dunque? rispose il signore T***. – Jacopo non fiatò. Alzò gli occhi al cielo, e dopo molta ora: O Teresa, esclamò, sarai a ogni modo infelice! O amico mio, gli soggiunse allora amorevolmente il signore T***, e per chi mai cominciò ad essere misera se non per voi? Erasi già per amor mio rassegnata al suo stato; e sola poteva rappacificare una volta i suoi poveri genitori. Vi ha amato; e voi che pure l’amate con sì altera generosità, voi pur le rapite uno sposo, e manterrete discorde una casa ove foste, e siete, e sarete sempre accolto come figliuolo. Arrendetevi; allontanatevi per alcuni mesi. Forse avreste trovato in altri un padre severo: ma io! – sono stato anch’io sventurato; ho provato le passioni, pur troppo! e ne provo – e ho imparato a compiangerle, perché sento io pure il bisogno d’essere compatito. Bensì da voi solo all’età mia quasi canuta ho imparato come alle volte si stima l’uomo che ci danneggia, massime se è dotato di tale carattere da far parere generosi e tremendi gli affetti che in altri pajoni colpevoli insieme e risibili. Né io vel dissimulo: voi, dal dì che primamente vi ho conosciuto, avete assunto tale inesplicabile predominio sopra di me, da costringermi a temervi insieme ed amarvi: e spesso andava noverando i minuti per impazienza di rivedervi, e nel tempo stesso io sentivami preso d’un tremito subitaneo e secreto allorché i miei servi mi davano avviso che voi salivate le scale. Or voi abbiate pietà di me, e della vostra gioventù, e della fama di Teresa. La sua beltà e la sua salute vanno languendo; le sue viscere si struggono nel silenzio, e per voi. Io vi scongiuro in nome di Teresa, partite; sacrificate la vostra passione alla sua quiete; e non vogliate ch’io sia l’amico insieme e il marito e il padre più misero che sia mai nato. Jacopo parea intenerito: non però mutò aspetto, né gli cadde lagrima dagli occhi, né rispose parola; benché il signore T*** a mezzo il discorso si rattenesse a stento dal piangere: e restò a canto al letto di Jacopo sino a notte tardissima: ma né l’uno né l’altro aprirono più bocca se non quando si dissero addio. – La malattia del giovine aggravò; e ne’ giorni seguenti fu sovrappreso da febbre pericolosa.
Frattanto io sgomentato e dalle lettere recenti di Jacopo, e da quelle del padre di Teresa, studiava ogni via per accelerare la partenza dell’amico mio, come solo rimedio alla sua violenta passione. Né ebbi cuore di rivelarla a sua madre, la quale aveva già avuto molte altre dolorosissime prove dell’indole sua capace d’eccessi; e le dissi soltanto, ch’era un po’ malato, e che il mutar aria gli avrebbe certamente giovato.
In quel tempo stesso incominciavano a inferocire in Venezia le persecuzioni. Non v’erano leggi; ma tribunali arbitrarj; non accusatori, non difensori; bensì spie di pensieri, delitti nuovi, ignoti a chi n’era punito, e pene subite, inappellabili. I più sospettati gemevano carcerati; gli altri, benché d’antica e specchiata fama, erano tolti di notte alle proprie case, manomessi dagli sgherri, strascinati a’ confini e abbandonati alla ventura, senza l’addio de’ congiunti, e destituti d’ogni umano soccorso. Per alcuni pochi l’esilio scevro da questi modi violenti ed infami fu somma clemenza. Ed io pure tardo, e non ultimo e tacito martire, vo da più mesi profugo per l’Italia volgendo senza nessuna speranza gli occhi lagrimosi alle sponde della mia patria. Onde io allora, ad’ombrato anche per la libertà di Jacopo, persuasi sua madre, quantunque desolatissima, a raccomandargli che sino a tempi migliori cercasse rifuggio in altro paese; tanto più che quando s’era partito di Padova, si scusò allegando gli stessi pericoli. Fu fidata la lettera a un servo il quale giunse a’ colli Euganei la sera de’ 15 Luglio, e trovò Jacopo ancora a letto, sebbene migliorato d’assai. Gli sedeva vicino il padre di Teresa. Lesse la lettera sommessamente, e la posò sul guanciale; poco dopo la rilesse, e parve commosso; ma non ne parlò.
Il dì 19 s’alzò da letto. In quel giorno stesso sua madre gli riscrisse inviandogli danaro, due cambiali, e parecchie commendatizie, e scongiurandolo per le viscere di Dio che partisse. Assai prima di sera andò da Teresa; e non trovò che l’Isabellina la quale tutta intenerita contò ch’ei s’assise muto, si rizzò, la baciò, e se ne andò. Tornò dopo un’ora, e salendo per le scale la incontrò nuovamente, e se la strinse al petto, la baciò più volte, e la bagnò di lagrime. Si pose a scrivere, mutò varii fogli, e li stracciò poi tutti. Si aggirò pensieroso per l’orto. Un servo passandovi su l’imbrunire, lo vide sdrajato: ripassando, lo trovò ritto presso al rastrello in atto d’uscire, e col capo rivolto attentissimo verso la casa ch’era battuta dalla Luna.
Tornatosi a casa, rimandò il messo rispondendo a sua madre, che domani su l’alba partiva. Fece ordinare i cavalli alla posta più vicina. Innanzi di coricarsi, scrisse la lettera seguente per Teresa, e la consegnò all’ortolano. All’alba partì.
Ore 9
Perdonami, Teresa; io ho funestato la tua giovinezza, e la quiete della tua casa; ma fuggirò. Né io mi credeva dotato di tanta costanza. Posso lasciarti, e non morir di dolore; e non è poco; usiamo dunque di questo momento finché il cuore mi regge, e la ragione non mi abbandona affatto. Pur la mia mente è sepolta nel solo pensiero di amarti sempre e di piangerti. Ma sarà obbligo mio di non più scriverti, né di mai più rivederti se non se quando sarò certissimo di lasciarti quieta davvero. Oggi t’ho cercato invano per dirti addio. Abbiti almeno, o Teresa, queste ultime righe ch’io bagno, tu ‘l vedi, d’amarissime lagrime. Mandami in qualunque tempo, in qualunque luogo il tuo ritratto. Se l’amicizia, se l’amore – o la compassione e la gratitudine ti parlano ancora per questo sconsolato, non negarmi il ristoro che addolcirà tutti i miei patimenti. Tuo padre stesso me lo concederà, spero – egli egli che potrà vederti, ed udirti, e sentirsi riconfortato da te; mentr’io nelle ore fantastiche del mio dolore e delle mie passioni, nojato da tutto il mondo, diffidente di tutti, camminando sopra la terra come di locanda in locanda, e drizzando volontariamente i miei passi verso la sepoltura – perché ho veramente necessità di riposo – io mi conforterò intanto baciando dì e notte l’immagine tua: e così tu m’infonderai da lontano costanza da sopportare questa mia vita, – e finché avrò forze, io la sopporterò per te, e te lo giuro. E tu prega – prega, o Teresa, dalle viscere del tuo cuore purissimo il Cielo – non che mi perdoni i dolori, che forse avrò meritati, e che forse sono inseparabili dalla tempra dell’anima mia – bensì che non mi levi le poche facoltà che ancora mi avanzano, da tollerarli. Con l’immagine tua farò men angosciose le mie notti, e meno tristi i miei giorni solitarj, que’ giorni ch’io dovrò pur vivere senza di te. Morendo, io volgerò a te gli ultimi sguardi, io ti raccomanderò il mio sospiro; verserò sovra di te l’anima mia, ti porterò meco nella mia sepoltura attaccata al mio petto – e se è pure prescritto ch’io chiuda gli occhi in terra straniera, e dove nessun cuore mi piangerà, io ti richiamerò tacitamente al mio capezzale, e mi parrà di vederti in quell’aspetto, in quell’atto, con quella stessa pietà che io ti vedeva, quando una volta, assai prima che tu sapessi di amarmi, assai prima che tu t’accorgessi dell’amor mio – ed io era ancora innocente verso di te – mi assistevi nella mia malattia. – Di te non ho se non l’unica lettera che mi scrivesti quando io era in Padova: felice tempo! ma chi l’avrebbe mai detto? allora parevami che tu mi raccomandassi di ritornare: – ed ora? scrivo il decreto; ed eseguirò fra poche ore il decreto della nostra eterna separazione. Da quella tua lettera comincia la storia dell’amor nostro e non mi abbandonerà mai. O mia Teresa! e questi son pure delirj: ma sono insieme la sola consolazione di chi è insanabilmente infelice. Addio. Perdonami, mia Teresa – ohimè, io mi credeva più forte! – scrivo male e di un carattere appena leggibile; ma ho l’anima lacerata, e il pianto su gli occhi. Per carità non mi negare il tuo ritratto. Consegnalo a Lorenzo: e s’ei non me lo potrà far arrivare, lo custodirà come eredità santa che gli ricorderà sempre le tue virtù, e la tua bellezza, e l’unico eterno infelicissimo amore del suo misero amico. Addio – ma non è l’ultimo; mi rivedrai: e da quel giorno in poi sarò fatto tale da obbligare gli uomini ad avere pietà e rispetto alla nostra passione; e a te non sarà più delitto l’amarmi – pur se innanzi ch’io ti rivegga, il mio dolore mi scavasse la fossa, concedimi ch’io mi renda cara la morte con la certezza che tu m’hai amato. – Or sì ch’io sento in che dolore io ti lascio! Oh! potessi morire a’ tuoi piedi: oh! morire ed essere sepolto nella terra che avrà le tue ossa – ma addio.
Michele dissemi che il suo podrone viaggiò per due poste silenziosissimo, e con aspetto assai calmo, e quasi sereno. Poi chiese il suo scrigno da viaggio; e tanto che si rimutavano i cavalli, scrisse il seguente biglietto al signore T***.
Signore ed amico mio.
All’ortolano di casa mia ho raccomandato jer sera una lettera da ricapitarsi alla Signorina; – e bench’io l’abbia scritta quand’io già m’era saldamente deliberato a questo partito d’allontanarmi, temo a ogni modo d’avere versato sovra quel foglio tanta afflizione da contristare quella innocente. A lei dunque, signor mio, non rincresca di farsi mandare quella lettera dall’ortolano; e gli fo’ dire che non la fidi se non a lei solo. La serbi così sigillata o la bruci. Ma perché alla sua figliuola riescirebbe amarissimo ch’io mi partissi senza lasciarle un addio, e tutto jeri non mi fu dato mai di vederla – ecco qui annesso un polizzino pur sigillato – ed ardisco sperare ch’ella, signor mio, la consegnerà a Teresa T*** innanzi che diventi moglie del marchese Odoardo. – Non so se ci rivedremo – ho ben decretato di morire, non foss’altro, vicino alla mia casa paterna; ma quand’anche questo mio proponimento fosse deluso – sono certo ch’ella, signore ed amico mio, non vorrà mai dimenticarsi di me.
Il signore T*** mi fe’ capitare la lettera per Teresa (che ho riportato dianzi) a sigillo inviolato; – né tardò a dare a sua figlia il polizzino. L’ebbi sott’occhio; era di poche righe; e d’uomo che per allora pareva tornato in sé.
Tutti quasi i frammenti che seguono mi vennero per la posta in diversi fogli.