Canto trentatreesimo del Purgatorio
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27 Gennaio 2019Dal Contratto sociale di Rousseau derivò una idea di democrazia che imponeva una sola chiave interpretativa della politica e della società, fino alle storture, ad esempio della Rivoluzione Francese e dei totalitarismi del novecento.
La democrazia totalitaria di Roberto Persico
Introduzione
a) Lo sfondo psicologico.
usa spesso i termini natura e ordine naturale nello stesso senso dei suoi contemporanei per indicare la struttura logica dell’universo. Tuttavia, usa anche il termine natura per descrivere gli elementi che si oppongono allo sforzo e all’impresa dell’intelletto per vincere e domare tali elementi. Lo stato di natura storico precedente alla società organizzata era il regno degli elementi. L’instaurazione dello stato sociale segnò il trionfo dell’intelletto.
Bisogna ripetere che per i materialisti l’ordine naturale è, per così dire, una macchina prefabbricata da scoprire e da mettere al lavoro. Per , d’altra parte, esso è lo stato quando ha raggiunto il suo scopo. E’ un imperativo categorico. I materialisti giunsero al problema dell’individuo in contrapposizione all’ordine sociale soltanto alla fine della loro argomentazione. Anche allora, estremamente fiduciosi nella possibilità di un mutuo accomodamento, mancarono di riconoscere l’esistenza del problema della coercizione. Per , invece, il problema esiste fin dall’inizio e in realtà costituisce per lui il problema fondamentale.
Vagabondo, orfano di madre, privo di calore e di affetto, con il suo sogno di intimità continuamente frustrato dall’insensibilità umana, reale o immaginaria, non poté mai stabilire cosa desiderava, se liberare la natura oppure renderla morale dominandola, se essere solo o far parte della società umana. Non poté mai decidere se l’uomo era reso dalla gente migliore o peggiore, più felice o più infelice. fu una delle nature più disadattate ed egocentriche che abbiano lasciato una testimonianza del loro pensiero. Egli fu un fascio di contraddizioni, da una parte solitario e anarchico, desideroso di ritornare alla natura, abbandonato alla fantasticheria, in rivolta contro tutte le convenzioni, sentimentale e lacrimoso, incredibilmente presuntuoso e in opposizione al suo ambiente; dall’altra ammiratore di Sparta e di Roma, predicatore della disciplina e dell’immedesimazione dell’individuo nell’entità collettiva. Il segreto di questa doppia personalità era che l’amore per la disciplina rappresentava il sogno invidioso del paranoico tormentato. Il Contratto sociale era la sublimazione del Discorso sulle origini dell’ineguaglianza. parla del suo pensiero quando descrive nell’Emilio e in altri scritti l’infelicità dell’uomo che, dopo aver abbandonato lo stato di natura, cade in preda al conflitto tra l’istinto e i doveri della società civilizzata; sempre «ondeggiante tra le sue inclinazioni e i suoi doveri», non completamente uomo né completamente cittadino, «non buono con se stesso né con gli altri», perché mai in pace con se stesso. La sola salvezza da questa tensione, se un ritorno al tranquillo stato di natura era impossibile, era costituita o da un completo abbandono di se stessi agli impulsi degli elementi o dalla totale « snaturalizzazione» dell’uomo. In quest’ultimo caso era necessario sostituire un’esistenza relativa a un’esistenza assoluta, una coscienza sociale alla coscienza di sé. L’uomo deve considerare se stesso non come «un’unità numerica, l’intero assoluto, che non ha rapporti che con se stesso», ma come «un’unità funzionale che dipende dal denominatore e il cui valore consiste nel suo rapporto con la totalità che è il corpo sociale». Un modello di sentimento e di comportamento fisso, rigido e universale doveva essere imposto in modo da creare l’uomo tutto d’un pezzo, senza contraddizioni, senza impulsi centrifughi e antisociali. Il compito era quello di creare cittadini che volessero solo ciò che vuole la volontà generale; l’uomo doveva essere libero anziché costituire un’entità a sé stante, tormentata da pressioni egoistiche e quindi schiava. , il maestro della spontaneità romantica del sentimento, era ossessionato dall’idea della cupidigia dell’uomo come causa prima della degenerazione morale e del male sociale. Di qui la sua apoteosi della virtù ascetica di Sparta e la sua condanna della civiltà fin tanto che essa è l’espressione della brama di conquista, del desiderio della vitalità umana di eccellere e di liberarsi, senza riferimento alla moralità. Egli aveva quella profonda consapevolezza della realtà della rivalità umana propria delle persone che l’hanno provata nel loro animo. Senza senso di colpa o senza stanchezza, esse non vedono l’ora di essere liberate dalla necessità di riconoscimento esterno del loro valore e dalla provocazione della rivalità.
Altri tre rappresentanti dell’orientamento totalitario messianico, che saranno analizzati in queste pagine, mostrano un’analoga vena paranoica. Essi sono Robespierre, Saint-Just e Babeuf. Abbiamo avuto recentemente esempi della strana associazione di disadattamento psicologico e di ideologia totalitaria. In alcuni casi la salvezza dall’impossibilità di trovare un rapporto equilibrato con gli altri uomini viene cercata nella superiorità isolata del comando dittatoriale. Il capo si identifica nella dottrina assoluta e il rifiuto degli altri a sottomettersi viene a essere considerato non come una normale divergenza di opinioni, ma come un crimine. E’ proprio del capo paranoico, quando è ostacolato, perdere rapidamente il suo precario equilibrio e cadere vittima di un’orgia di autocommiserazione, di mania di persecuzione e di impulso suicida. Il comando costituisce la salvezza della minoranza, ma per molti anche la mera funzione di membro di un movimento totalitario e la sottomissione alla dottrina esclusiva possono offrire una liberazione dall’egoismo e dal disadattamento. Periodi di grande tensione, di psicosi di massa e di intensa lotta fanno emergere qualità marginali che altrimenti avrebbero potuto rimanere assopite, e portano all’apice uomini dotati di una peculiare mentalità nevrotica.
b) La volontà generale e l’individuo.
Era di fondamentale importanza per salvare l’ideale di libertà, pur insistendo sulla disciplina. Egli era molto orgoglioso e aveva un vivo senso dell’eroico. Il pensiero di è cosi dominato da una ambiguità altamente feconda, ma pericolosa. Da una parte si dice che l’individuo non ubbidisce che alla sua volontà; dall’altra che è spinto ad adeguarsi a un criterio oggettivo. La contraddizione è risolta dall’affermazione secondo cui questo criterio esterno è il migliore, è il più elevato o reale sentimento, la voce interiore dell’uomo, come la chiama . Di conseguenza, anche se costretto ad ubbidire a un ideale esterno, l’uomo non può lamentarsi di essere forzato, perché in realtà è semplicemente spinto ad ubbidire al suo vero sentimento. Egli è quindi ancora libero; anzi più libero di prima; in quanto la libertà è il trionfo dell’intelletto sull’istinto naturale Essa è l’accettazione dell’obbligo morale e la disciplina degli impulsi irrazionali ed egoistici da parte della ragione e del dovere. L’accettazione degli obblighi stabiliti nei Contratto sociale segna la nascita della personalità dell’uomo e la sua iniziazione alla libertà. Ogni esercizio della volontà generale costituisce una riaffermazione della libertà dell’uomo.
Il problema della volontà generale si può considerare da due punti di vista, quello dell’etica individuale e quello della legittimità politica. Diderot nei suoi articoli dell’Enciclopedia sul Législateur e sul Droit naturel fu il precursore di per quanto concerne l’etica individuale. Egli concepì il problema nello stesso modo di : come il dilemma di conciliare la libertà con un ideale esterno assoluto. Sembrava inammissibile a Diderot che l’individuo così com’è dovesse essere l’ultimo giudice di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto, di ciò che è esatto e di ciò che è sbagliato. La volontà personale dell’individuo è sempre sospetta. La volontà generale è l’unico giudice. Ci si deve sempre riferire per il giudizio al bene generale e alla volontà generale. Chi è in disaccordo con la volontà generale rinnega la sua umanità e si classifica come «snaturato». La volontà generale deve chiarire all’uomo «fino a quale limite egli deve essere uomo, cittadino, suddito, padre o figlio», «e quando gli conviene vivere o morire». La volontà generale deve stabilire la natura e i limiti di tutti i nostri doveri. Come , Diderot si preoccupa di considerare come diritto naturale e più sacro dell’uomo tutto ciò che non è contrastato « dall’intera specie». Egli tuttavia, ancora come , si affretta ad aggiungere che la volontà generale deve guidarci nei confronti della natura delle nostre idee e dei nostri desideri. Qualunque cosa noi pensiamo e desideriamo sarà buona, grande e sublime se è in armonia con l’interesse generale. Soltanto la conformità con tale interesse ci qualifica come membri della nostra specie: «non perdetela dunque mai di vista, altrimenti vedrete le nozioni della bontà, della giustizia, della virtù vacillare nel vostro intelletto». Diderot dà due definizioni della volontà generale. Egli afferma che essa anzitutto è contenuta nei princìpi della legge scritta di tutte le nazioni civilizzate, nelle azioni sociali dei popoli selvaggi, nelle convenzioni dei nemici del genere umano e anche nello sdegno istintivo degli animali oltraggiati. Egli poi definisce la volontà generale «in ogni individuo un atto puro dell’intelletto che ragiona nel silenzio delle passioni su ciò che l’uomo può esigere dal suo simile e su ciò che il suo simile ha il diritto di esigere da lui». Questa è anche la definizione della volontà generale data da nella prima versione del Contratto sociale.
In definitiva la volontà generale è per qualcosa di simile a una verità matematica o a un’idea platonica. Essa ha una sua propria esistenza oggettiva, sia che venga o non venga percepita. Essa deve tuttavia essere scoperta dall’intelletto umano. Ma dopo averla scoperta, l’intelletto umano evidentemente non può rifiutarsi con onestà di accettarla. In tal modo la volontà generale è allo stesso tempo fuori di noi e dentro di noi. L’uomo non è invitato a esprimere le sue preferenze personali. Non gli si chiede la sua approvazione; gli si chiede se il dato progetto è o non è in armonia con la volontà generale. «Se la mia opinione personale avesse vinto, io avrei raggiunto l’opposto di ciò che era mia volontà: ed è in tal caso che non sarei stato libero». Infatti la libertà è la capacità di liberarsi dalle considerazioni, dagli interessi, dalle preferenze e dai pregiudizi, individuali o collettivi, che oscurano ciò che è oggettivamente vero e buono e che se sono fedele alla mia vera natura devo volere. Ciò che si applica all’individuo si applica ugualmente al popolo. L’uomo e il popolo devono essere indotti a scegliere la libertà e, se necessario, costretti a tessere liberi.
La volontà generale diventa in definitiva una questione di illuminazione e di moralità. Benché il fine della volontà generale fosse di creare l’armonia e l’unanimità, tutta la mira della vita politica è in realtà di educare e preparare gli uomini a volere la volontà generale senza nessun senso di costrizione. L’egoismo umano deve essere estirpato e la natura umana cambiata. « Chi si crede capace di formare un popolo, deve sentirsi in grado di cambiare, per così dire, la natura degli uomini. Bisogna che egli trasformi ogni individuo, che costituisce di per sé un tutto perfetto e isolato, in una parte di un tutto più grande dal quale questo individuo riceve in qualche modo la sua vita e il suo essere». L’individualismo dovrà cedere il posto al collettivismo, l’egoismo alla virtù, che consiste nella conformità della volontà personale con la volontà generale. Il legislatore « deve, in una parola, togliere all’uomo le sue risorse e dargliene invece delle nuove a lui estranee e tali da non potere essere sfruttate senza l’aiuto di altri uomini. Quanto più queste ri i sorse naturali sono annientate, tanto più grandi e più durature sono quelle che l’uomo acquista, e più stabili e perfette sono le nuove istituzioni, cosi che se ogni cittadino non è niente e non può fare niente senza gli altri, e le risorse acquisite dal complesso sono uguali o superiori al totale delle risorse di tutti gli individui, si può dire che la legislazione è al più alto grado possibile di perfezione». Come nel caso dei materialisti, non è lauto-espressione dell’individuo, lo spiegamento delle sue capacità personali e la realizzazione del suo modo di vita personale e unico, che costituisce il fine ultimo, ma la perdita dell’individuo nell’entità collettiva realizzata tramite la conquista della sua realtà e del suo principio di esistenza. Lo scopo è di educare gli uomini a «portare con docilità il giogo della felicità pubblica», di creare in realtà un nuovo tipo di uomo, una creatura puramente politica, senza particolari fedeltà private o sociali, senza interessi parziali, come li chiamerebbe .
c) Volontà generale, sovranità popolare e dittatura.
Il sovrano di rappresenta la volontà generale esternata e, come è stato detto prima, ha essenzialmente lo stesso significato dell’ordine naturale armonioso. Unendo questo concetto con il principio della sovranità popolare, e dell’autoespressione popolare, diede origine alla democrazia totalitaria. La mera introduzione di quest’ultimo elemento, unita all’ardore dello stile di , sollevò il postulato del diciottesimo secolo dal piano della speculazione intellettuale a quello di una grande esperienza collettiva. Ciò segnò la nascita della moderna religione laica, non semplicemente come un sistema di idee, ma come una fede appassionata. La sintesi di è in se stessa la formulazione del paradosso della libertà della democrazia totalitaria in termini che rivelano il dilemma nella forma più sorprendente, vale a dire in quelli di volontà. Vi è una specie di volontà generale oggettiva, sia essa voluta da qualcuno o no. Per diventare una realtà deve essere voluta dal popolo. Se il popolo non la vuole, deve essere costretto a volerla, perché la volontà generale è latente nella volontà del popolo.
Le idee democratiche e le premesse razionaliste sono i mezzi a cui ricorre per risolvere il dilemma. Secondo lui, la volontà generale verrebbe compresa solamente se tutto il popolo, e non una parte di esso o un organo rappresentativo, si sforzasse di comprenderla. La seconda condizione è che i singoli uomini come atomi puramente politici, e non come gruppi, partiti o interessi, dovrebbero sentirsi obbligati a volerla. Entrambe le condizioni si basano sulla premessa che c’è una specie di sostanza comune della cittadinanza, di cui tutti fanno parte, una volta che ognuno sia capace di spogliarsi dei suoi interessi parziali e delle sue fedeltà di gruppo. Nello stesso modo, gli uomini, in quanto esseri razionali, possono arrivare alle stesse conclusioni, una volta che si liberino dalle loro passioni .e dai loro interessi personali e smettano di dipendere dagli ideali «immaginari» che oscurano il loro giudizio. Soltanto quando tutti agiscono insieme come un popolo riunito, la natura dell’uomo come cittadino entra nell’esistenza attiva. Se soltanto una parte della nazione fosse unita nel volere la volontà generale sarebbe diverso; essa esprimerebbe una volontà parziale. D’altra parte, anche il fatto che tutti hanno voluto qualcosa non costituisce ancora l’espressione della volontà generale, se non c’è la giusta disposizione da parte di quelli che vogliono tale cosa. Una volontà non diventa generale perché è voluta da tutti, ma solo quando è voluta in conformità con la volontà oggettiva.
L’uso della sovranità non è concepito qui come l’azione reciproca degli interessi, l’equilibratore delle opinioni, tutte ugualmente degne di ascolto, l’equilibrio dei diversi interessi. Esso comporta la convalida di una verità, l’autoidentificazione da parte di coloro che esercitano la sovranità con un interesse generale che si presume sia la fonte di tutti gli interessi individuali identici. I partiti politici non sono considerati come mezzi di trasmissione delle varie correnti di pensiero, ma come rappresentanti di interessi parziali, in disaccordo con l’interesse generale, che è considerato quasi tangibile. E’ estremamente importante rendersi conto che quello che oggi è ritenuto un fatto essenziale e concomitante della democrazia, cioè la diversità di opinioni e di interessi, era ben lontano dall’essere considerato essenziale dai padri della democrazia del diciottesimo secolo. I loro postulati originari erano l’unità e l’unanimità. L’affermazione del principio della diversità giunse più tardi, quando le conseguenze del principio dell’omogeneità erano state dimostrate durante la dittatura giacobina.
Questa aspettativa di unanimità era comprensibile solamente in un’epoca che, partendo con l’idea dell’ordine naturale, dichiarava guerra a tutti i privilegi e a tutte le ineguaglianze. Lo stesso concetto del diciottesimo secolo della nazione opposta agli stati implicava un’entità omogenea. Ingenui e inesperti nell’attività della democrazia, i teorici alla vigilia della rivoluzione erano incapaci di considerare le tensioni e gli sforzi, i conflitti e le lotte di un regime parlamentare democratico come cose ordinarie, che non devono spaventare nessuno con lo spettro della rovina e del disordine immediato. Anche uno studioso moderato ed equilibrato come Holbach fu spaventato dalle «terribili» fratture della società inglese. Egli considerava l’Inghilterra il più infelice di tutti i paesi, manifestamente libera ma in realtà più infelice di qualunque regno orientale oppresso dal dispotismo. L’Inghilterra non era stata portata sull’orlo della rovina dalla lotta di fazioni e di interessi contrastanti? Non era il suo ordinamento un miscuglio di abitudini irrazionali, di usanze antiquate, di leggi incoerenti, senza nessun metodo e nessun principio di orientamento? Il fisiocrate Letronne affermava: «La situazione della Francia è infinitamente migliore di quella dell’Inghilterra, perché qui le riforme, cambiando l’intero stato del paese, possono essere effettuate in un momento, mentre in Inghilterra tali riforme possono sempre essere bloccate dal sistema di partito». (…)
mette il popolo al posto del sovrano illuminato fisiocratico. Egli considera inoltre gli interessi parziali i maggiori nemici dell’armonia sociale. Proprio come nel caso degli utilitaristi razionalisti l’individuo diventa qui il mezzo di propagazione dell’uniformità. Si potrebbe dire senza alcuna esagerazione che questo atteggiamento si dirige verso l’idea di una società senza classi. Esso è condizionato da una vaga aspettativa secondo cui in qualche luogo, alla fine del cammino e dopo una sempre .più intensa eliminazione delle differenze e delle ineguaglianze, ci sarà l’unanimità. Non che questa uniformità avesse bisogno di essere rinforzata di per se stessa. Quanto più sono estreme le forme di sovranità popolare, quanto più democratica è la procedura, tanto più si può essere certi dell’unanimità. Così Morelly pensava che la reale democrazia fosse un regime in cui tutti i cittadini votassero unanimemente di non ubbidire che alla natura. Il capo dei Giacobini britannici, Horne Tooke, processato nel 1794, definiva il suo fine come un regime con parlamenti annuali, basati sul suffragio universale, con l’esclusione dei partiti politici e che votava all’unanimità.
Come i fisiocratici, rifiuta qualsiasi tentativo di dividere la sovranità. Egli designa ciò come l’artificio di un giocoliere che gioca con le membra staccate di un organismo. Infatti se esiste soltanto una volontà, la sovranità non può essere divisa; solo che al posto del sovrano assoluto dei fisiocratici mette il popolo. E’ il popolo intero che dovrebbe esercitare il potere sovrano, e non un organo rappresentativo. Si suppone che un’assemblea eletta sviluppi un interesse acquisito come qualunque altra corporazione. Un popolo, quando consegna il potere a un organo rappresentativo parlamentare, si compra un padrone.
Ora proprio alla base del principio della democrazia diretta e indivisibile e dell’aspettativa di unanimità, c’è l’implicazione della dittatura, come ha mostrato la storia di parecchi referendum. Se un costante appello è rivolto al popolo intero, non solo a un piccolo organo rappresentativo, e nello stesso tempo l’unanimità è posta come postulato, non si può sfuggire alla dittatura. Ciò era implicito nell’enfasi posta da sull’importantissimo principio secondo cui i capi devono fare al popolo soltanto domande di natura generale e inoltre devono sapere come fare la domanda giusta. La domanda deve avere una risposta, tanto ovvia che una risposta diversa dovrebbe sembrare evidente tradimento o perversione. Se l’unanimità è ciò che si desidera, essa deve essere realizzata mediante l’intimidazione, i trucchi elettorali o l’organizzazione della spontanea espressione popolare attraverso gli attivisti che si impegnano in petizioni, in dimostrazioni pubbliche e in una intensa campagna di denuncia. Questo era quello che i Giacobini e gli organizzatori di petizioni del popolo, di journées rivoluzionarie e di altre forme di espressione diretta della volontà del popolo leggevano in .
dimostra chiaramente la stretta relazione tra la sovranità popolare portata all’estremo e il totalitarismo. Il paradosso richiede un’analisi. Si pensa comunemente che la dittatura sorga e venga mantenuta dall’indifferenza del popolo e dall’assenza di vigilanza democratica. Non c’è nulla su cui insista di più che sulla partecipazione attiva e incessante del popolo e di ogni cittadino negli affari dello stato.
Lo stato è vicino alla rovina, dice , quando il cittadino è troppo indifferente per occuparsi di una assemblea pubblica. Imbevuto di antichità, intuitivamente prova l’esperienza del popolo riunito per stabilire le leggi e per regolare il bene comune. La repubblica è in un continuo stato di divenire. Nell’epoca predemocratica, non poté comprendere che la creazione originariamente ponderata degli uomini poteva trasformarsi in un Leviathan, che avrebbe potuto schiacciare suoi stessi creatori. Egli era inconsapevole del fatto che l’assorbimento totale e profondamente emotivo nella attività politica collettiva è destinato a soffocare ogni forma di vita privata, che l’agitazione della folla riunita può esercitare una forte pressione tirannica e che l’estensione dell’ambito della politica a tutte le sfere dell’interesse e della capacità degli uomini, senza lasciare posto allo svolgimento dell’attività casuale e empirica, era la via più breve verso il totalitarismo. La libertà è più sicura nei paesi in cui la politica non è considerata importantissima e in cui vi sono numerosi livelli di attività apolitica privata e collettiva, sebbene non vi sia tanta democrazia popolare diretta, che nei paesi in cui la politica supera facilmente ogni cosa e il popolo siede in assemblea permanente.
In quest’ultimo caso la verità è proprio che, sebbene tutti sembrino impegnati a formare la volontà nazionale e facciano ciò con un senso di esaltazione e di attivismo, essi in realtà accettano e approvano qualcosa che viene loro presentato come un’unica verità, mentre credono che questa sia la loro libera scelta. Ciò è effettivamente implicito nell’immagine rousseauiana del popolo che desidera la volontà generale. La sensazione collettiva di esaltazione è soggetta alla stanchezza emotiva e dà presto luogo a un comportamento apatico e meccanico.
è estremamente riluttante a riconoscere la volontà della maggioranza, o anche la volontà di tutti, come la volontà generale. Egli non indica neppure da quali segni si potrebbe riconoscere la volontà generale. Il fatto di essere voluta dal popolo non fa della cosa voluta l’espressione della volontà generale. La cieca moltitudine non sa quello che vuole e qual è il suo vero interesse. «Abbandonato a se stesso il popolo desidera sempre il bene, ma, abbandonato a se stesso, non sempre sa dove si trova quel bene. La volontà generale è sempre giusta, ma il giudizio che serve da guida non è sempre ben informato. Esso deve vedere le cose come sono, a volte come dovrebbero apparire al popolo».
d) La volontà generale come fine.
La volontà generale assume così il carattere di un fine e come tale si presta a una definizione in termini di ideologia socio-politica, traguardo prestabilito verso il quale siamo irresistibilmente spinti, unica vera aspirazione che abbiamo o siamo destinati ad avere, anche se ancora non l’abbiamo a causa della nostra lentezza, dei nostri pregiudizi, del nostro egoismo o della nostra ignoranza.
In questo caso l’idea di popolo si restringe naturalmente a quelli che si identificano con la volontà generale e con l’interesse generale. Quelli che ne restano al di fuori non fanno realmente parte della nazione. Essi sono estranei. Questa concezione della nazione (o del popolo) doveva ben presto diventare un efficace argomento politico. Così Sieyès affermava che soltanto il Terzo Stato costituiva la nazione. I Giacobini restringevano il termine ancora di più, ai sans-culottes. Per Babeuf soltanto il proletariato costituiva la nazione e per Buonarroti solo quelli che erano stati formalmente ammessi alla comunità nazionale.
La stessa idea di una volontà che si suppone prestabilita, che non è ancora diventata la vera volontà della nazione, l’opinione secondo cui la nazione è per questo ancora nella sua infanzia, una «nazione giovane», nella nomenclatura del Contratto sociale, dà a quelli che affermano di conoscere e di rappresentare la reale e definitiva volontà della nazione – il partito d’avanguardia – carta bianca nell’agire nell’interesse del popolo, senza riferimento all’effettiva volontà del popolo stesso. Ciò, come speriamo di dimostrare in seguito, può esprimersi in due forme o piuttosto in due stadi: uno, l’atto della rivoluzione; l’altro, lo sforzo di instaurare la volontà generale. Coloro che sentono di costituire il popolo vero insorgono contro il sistema e contro gli uomini che sono al potere, i quali non fanno parte del popolo. Inoltre lo stesso atto della loro insurrezione, per esempio l’instaurazione di un comitato rivoluzionario (o insurrezionale), abolisce ipso facto non solo l’organo rappresentativo rivoluzionario, che, secondo , costituisce in ogni caso un continuo attentato alla sovranità del popolo, ma in realtà anche a tutte le leggi e le istituzioni in vigore. Dal «momento in cui il popolo è legittimamente riunito come un corpo sovrano, la giurisdizione del governo decade completamente, il potere esecutivo viene sospeso e la persona del più mediocre cittadino è sacra e inviolabile come quella del primo magistrato; infatti di fronte all’individuo rappresentato i rappresentanti non esistono più». Il vero popolo, o piuttosto la parte che lo dirige, una volta che trionfa nella sua insurrezione, diviene il legislatore di che esamina chiaramente l’intera situazione, senza essere influenzato da interessi e da passioni -parziali e forma la «nazione giovane» con l’ausilio di leggi tratte dalla sua superiore saggezza, preparandola a volere la volontà generale. Per prima cosa si procede alla eliminazione degli uomini e degli influssi che non fanno parte del popolo e che non si identificano con la volontà generale incorporata nel contratto sociale della rivoluzione recentemente instaurato; quindi alla rieducazione della giovane nazione per abituarla a volere la volontà generale. Il compito del legislatore è di creare un nuovo tipo di uomo, con una nuova mentalità, con nuovi valori, con un nuovo tipo di sensibilità, libero dai vecchi istinti, dai pregiudizi e dalle cattive abitudini. Non basta cambiare l’organizzazione dello stato, o anche unificare le classi; bisogna cambiare la natura umana o, secondo la terminologia del diciottesimo secolo, rendere l’uomo virtuoso.
rappresenta la forma più chiara dellesprit révolutionnaire in ogni suo aspetto. Nel Discorso sull’ineguaglianza esprime la tremenda sensazione di una società che si è smarrita. Nel Contratto sociale postula un sistema sociale esclusivamente legittimo come sfida alla grandezza umana.
Jacob L. Telmon, Le origini della democrazia totalitaria, Il Mulino, Bologna 1974, pp. 57-72
Breve antologia
Da Emilio
Emilio è orfano. Non importa che abbia un padre e una madre: assunti su di me i loro doveri, eredito tutti i loro diritti. Egli deve onorare i genitori, ma obbedire esclusivamente a me. Questa è la mia prima o meglio unica condizione. Debbo infatti aggiungerne un’altra che è solo la sua diretta conseguenza: nessuno dovrà mai separarci senza il nostro consenso. Questa clausola è essenziale e vorrei anzi che allievo e pedagogo si considerassero a tal punto inseparabili da riguardare come comune il destino della loro vita. Ma se hanno modo di prospettarsi, sia pure in un lontano avvenire, la loro separazione, se possono prevedere il momento che deve renderli estranei l’un l’altro, già di fatto son tali; ciascuno si fa il suo piccolo sistema per proprio conto e, occupati entrambi dall’idea del tempo in cui non saranno più insieme, ci restano malvolentieri. Il discepolo guarda al maestro come al simbolo e al flagello dell’infanzia; il maestro considera il discepolo un pesante fardello che non vede l’ora di togliersi di dosso; entrambi aspirano di comune accordo al momento di vedersi liberati l’uno dell’altro e, poiché non esiste mai tra loro vera affezione, è facile immaginate come l’uno eserciti poca vigilanza e l’altro mostri scarsa docilità.
Ma quando pensano di dover passare insieme i loro giorni, importa a ciascuno di loro farsi amare dall’altro e perciò stesso nasce tra essi un affetto reciproco. L’allievo non si vergogna di seguire nell’infanzia colui che avrà per amico anche da grande; il pedagogo prende interesse a un’opera di cui deve raccogliere i frutti; tutti i meriti di cui arricchisce l’allievo sono un capitale che renderà nei giorni della vecchiaia.
Jean-Jacques , Emilio, Milano, Mondadori 1997, pp. 31-32
Nelle più accurate forme di educazione, il maestro dà ordini e crede di comandare: in realtà è il fanciullo che comanda. Si serve di ciò che esige da lui, per ottenere ciò che gli piace, e sa farsi sempre compensare un’ora di assiduità con otto giorni di condiscendenza ai suoi voleri. Ad ogni istante bisogna venire a patti con lui. Questi patti, che voi proponete a modo vostro ed egli esegue a modo suo, tornano sempre a vantaggio dei suoi capricci, soprattutto quando si commette l’imprudenza di accettare come condizione a suo favore ciò che egli è ben sicuro di ottenere in ogni caso, adempia o non adempia l’impegno che si è lasciato imporre a sua volta. Il fanciullo di solito legge molto meglio nel pensiero del maestro che non il maestro nel cuore di lui. Ed è logico che sia così: tutta la sagacia che, abbandonato a se stesso, il fanciullo avrebbe adoperata per provvedere alla propria conservazione, l’adopera per salvare la sua libertà naturale dalle catene del tiranno: questi invece, non avendo un così potente interesse a penetrare le intenzioni dell’altro, trova talora più vantaggioso abbandonarlo alla sua pigrizia o alla sua vanità.
Fate esattamente il contrario col vostro allievo: lasciategli sempre credere di essere lui il padrone, ma siate sempre voi ad avere le redini in pugno. Non v’è soggezione tanto perfetta quanto quella che conserva l’apparenza della libertà: la sua stessa volontà viene ad essere così nelle vostre mani. Il povero fanciullo che niente sa, che niente può, che niente conosce, non è interamente in vostro potere? Non disponete forse, nei suoi confronti, di tutto ciò che lo circonda? Non siete padroni di influenzarlo come più vi piace? Il suo lavoro, i suoi giuochi, i suoi piaceri, le sue pene non dipendono forse da voi senza ch’egli lo sappia? Indubbiamente non deve fare se non ciò che vuole, ma non deve volere se non ciò che volete; non deve fare un passo che non abbiate previsto; non deve aprir bocca senza che sappiate che cosa dirà. (…) Lasciandolo così padrone della sua volontà, non offrirete alcun pretesto ai suoi capricci. Altro mai non facendo se non ciò che gli aggrada, finirà ben presto per fare solo ciò che deve. (…)
Così, poiché non vi vede sempre intenti a contrariarlo, mancandogli ogni motivo di diffidare di voi e nulla avendo da nascondervi, non vi ingannerà, non vi mentirà, si mostrerà senza alcun timore quale realmente è; potrete allora studiarlo liberamente e predisporre intorno a lui le lezioni che volete impartirgli, senza che mai si accorga di riceverne.
Ibidem, pp. 137-138
Nel dipingergli la compagna che gli destino, immaginate se saprò farmi ascoltare, se saprò rendergli piacevoli e care le qualità che deve amare, se saprò indirizzare i suoi sentimenti verso ciò che deve ricercare o fuggire. Debbo essere il più inetto degli uomini, se non lo faccio subito innamorare senza ancora sapere di chi. Non importa se l’oggetto che gli dipingo è immaginario, basta che lo distolga da ogni altro che potrebbe tentarlo, basta che egli trovi dovunque termini di paragone che gli facciano preferire la sua chimera alle persone reali che incontrerà: il vero amore che cos’è, anch’esso, se non chimera, menzogna, illusione? Amiamo molto più l’immagine creata dalla nostra mente che non l’oggetto cui è riferita. Se vedessimo la persona amata esattamente com’è, non ci sarebbe più amore sulla terra. Quando smettiamo di amare, la persona che amavamo rimane la stessa di prima, ma non la vediamo più allo stesso modo: cade il velo dell’illusione e l’amore svanisce. Proponendo alla sua immaginazione un essere ideale, resto arbitro di ogni possibile confronto e impedisco che nascano illusioni nei riguardi di persone reali.
Non voglio con ciò ingannare il giovane, dipingendo un modello di perfezione che non possa esistere, ma sceglierò per la sua futura compagna difetti che siano adatti a lui, che gli piacciano e che servano a correggere i suoi. Non voglio neppure mentirgli, affermando falsamente che la persona immaginata esiste davvero; ma se l’immagine gli piace, si augurerà che corrisponda ad un essere reale. Dall’auspicarne l’esistenza al supporla il passo è breve: basteranno alcune abili descrizioni che, con tocchi più realistici, renderanno più verosimile questa persona immaginaria. Vorrei persino darle un nome; direi sorridendo: «Chiamiamo Sofia la vostra futura compagna; Sofia è un nome di buon augurio; se quella che sceglierete non lo porti, sarà almeno degna di portarlo: possiamo concederle fin dora l’onore di tale nome». Dopo tutti questi particolari, se si eluderanno le sue domande con ambigue risposte, senza affermare e senza negare, i suoi sospetti diverranno certezza: crederà che si voglia tenerlo all’oscuro della sposa a lui destinata e che la vedrà quando sarà tempo. Una volta che sia giunto a credere ciò, se sono state scelte bene le qualità del modello propostogli, tutto il resto è facile; si può esporlo quasi senza rischio alla vita di società. (…)
Voi non riuscite a capacitarvi come a vent’anni Emilio possa essere tanto docile. Quanto sono diversi i nostri punti di vista! Quello che stupisce me è come abbia potuto esserlo a dieci, poiché a quell’età quali mezzi avevo per far presa su di lui? Mi ci sono voluti quindici anni di cure per predispormi tali mezzi. Allora non lo educavo, lo preparavo ad essere educato. Adesso lo è abbastanza per esser docile: riconosce la voce dell’amicizia e sa obbedire a quella della ragione. E’ vero che in apparenza lo lascio del tutto libero, ma non mi è stato mai sottomesso come ora, poiché lo è di sua spontanea volontà. Finché non ho potuto essere padrone della sua volontà, sono rimasto padrone della sua persona: non me ne scostavo di un passo. Ora lo lascio solo qualche volta, perché so di essere sempre io a dirigerlo.
Ibidem, pp. 453-458
Scopo della educazione è quello di formare un uomo nuovo; perciò i fattori attivi della educazione devono tendere a far sì che l’educando agisca sempre più da sé, e sempre più da sé affronti l’ambiente. Occorrerà quindi da un lato metterlo sempre più a contatto con tutti i fattori dell’ambiente, dall’altro lasciargli sempre più la responsabilità della scelta, seguendo una linea evolutiva determinata dalla coscienza che il ragazzo dovrà essere capace di «far da sé» di fronte a tutto.
Il metodo educativo di guidare l’adolescente all’incontro personale e sempre più autonomo con tutta la realtà che lo circonda, va tanto più applicato, quanto più il ragazzo si fa adulto. L’equilibrio dell’educatore svela qui la sua definitiva importanza. L’evolversi infatti dell’autonomia del ragazzo rappresenta per l’intelligenza e il cuore – e anche per l’amor proprio – dell’educatore un «rischio». D’altra parte è proprio dal rischio del confronto che si genera nel giovane una sua personalità nel rapporto con tutte le cose – che la sua libertà cioè «diviene». (…)
L’esperienza deve farla il giovane stesso, perché questo rappresenta l’avverarsi della sua libertà. E questo amore alla libertà fin nel rischio è soprattutto una direttiva che l’educazione deve tenere presente.
Luigi Giussani, Il rischio educativo, Jaca Book, Milano 1977, pp. 59-60
Da Il contratto sociale
«Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti libero come prima». Questo è il problema fondamentale di cui il contratto sociale dà la soluzione.
Le clausole di questo contratto sono determinate in tal modo dalla natura dell’atto che la minima modifica le renderebbe vane e di nessun effetto; di modo che, sebbene forse non siano mai state formalmente enunciate, esse sono dovunque le stesse, dovunque tacitamente ammesse e riconosciute, almeno fino a quando non venga violato il patto sociale, perché ciascuno allora rientra nei suoi originari diritti, e riprende la sua libertà naturale, perdendo la libertà convenzionale in cambio della quale aveva rinunciato alla prima.
Queste clausole, bene intese, si riducono tutte a una sola: cioè l’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità. Infatti, innanzi tutto, poiché ciascuno si dà tutto intero, la condizione è uguale per tutti, ed, essendo la condizione uguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla onerosa per gli altri.
Inoltre, essendo l’alienazione fatta senza riserve, l’unione è la più perfetta possibile, e non resta ad alcun associato niente da rivendicare; infatti, se restasse qualche diritto ai singoli, non essendovi nessun superiore comune che possa far da arbitro tra loro e la collettività, ciascuno, essendo in qualche caso il proprio giudice, pretenderebbe ben presto di esserlo sempre; lo stato di natura si perpetuerebbe, e l’associazione diverrebbe necessariamente tirannica o vana.
Infine, chi si dà a tutti non si dà a nessuno; e siccome non vi è associato sul quale ciascuno non acquisti un diritto pari a quello che gli cede su di sé, tutti guadagnano l’equivalente di quello che perdono, e una maggiore forza per conservare quello che hanno.
Se dunque si esclude dal patto sociale ciò che non gli è essenziale, si troverà che esso si riduce ai termini seguenti: Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e riceviamo in quanto corpo ciascun membro come parte indivisibile del tutto.
Jean-Jacques , Il contratto sociale, Einaudi, Torino 1994, pp. 23-24
Ora, il corpo sovrano, non essendo formato che dai singoli che lo compongono, non ha né può avere alcun interesse contrario al loro interesse, e quindi non ha bisogno di dare garanzie ai sudditi, perché è impossibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri; e noi vedremo più avanti che non può nuocere neanche ad alcuno di essi in particolare. Il corpo sovrano, per il solo fatto di essere tale, è sempre quello che deve essere.
Ma non è così dei sudditi verso il corpo sovrano, il quale, nonostante l’interesse comune, non avrebbe nessuna garanzia per l’osservanza dei loro obblighi se non trovasse dei mezzi per assicurarsi della loro fedeltà.
Infatti, ogni individuo può, come uomo, avere una volontà particolare contraria o diversa dalla volontà generale che egli ha come cittadino: il suo interesse particolare può parlargli in modo tutto diverso dall’interesse comune; la sua esistenza assoluta, e naturalmente indipendente, può fargli considerare ciò che egli deve alla causa comune come un contributo gratuito, la cui perdita sarebbe agli altri meno nociva di quanto il pagamento non sia gravoso per lui; e considerando la persona morale che costituisce lo Stato come un ente di ragione, dato che non è un uomo, egli godrebbe dei diritti del cittadino senza voler adempiere i doveri di suddito; ingiustizia, il cui sviluppo causerebbe la rovina del corpo politico.
Perché dunque questo patto sociale non sia una formula vana, esso implica tacitamente questa obbligazione, che sola può dare forza a tutte le altre: che chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo. Ciò non significa altro se non che lo si costringerà ad essere libero; poiché questa è la condizione che, dando ogni cittadino alla patria, lo garantisce da ogni dipendenza personale; condizione che costituisce il meccanismo e il giuoco della macchina politica, e che sola rende legittime le obbligazioni civili, le quali senza di ciò sarebbero assurde, tiranniche e soggette ai peggiori abusi.
Ibidem, pp. 27-28
Da ciò che si è detto consegue che la volontà generale è sempre retta e tende sempre all’utilità pubblica: non deriva però che le deliberazioni del popolo siano sempre ugualmente rette. Si vuole sempre il proprio bene, ma non sempre lo si vede: non si corrompe mai il popolo, ma spesso lo si inganna, e soltanto allora esso sembra volere ciò che è male.
Vi è spesso molta differenza tra la volontà di tutti e la volontà generale; questa mira soltanto all’interesse comune; l’altra all’interesse privato e non è che una somma di volontà particolari: ma togliete da queste volontà il più e il meno che si distruggono a vicenda: resta quale somma delle differenze la volontà generale.
Se, quando il popolo sufficientemente informato delibera, i cittadini non potessero comunicare tra di loro, dal grande numero di piccole differenze risulterebbe sempre la volontà generale, e la deliberazione sarebbe sempre buona. Ma quando si creano fazioni, associazioni parziali a spese della grande, la volontà di ciascuna di queste associazioni diventa generale rispetto ai suoi membri, e particolare rispetto allo Stato: si può dire allora che non vi sono più tanti votanti quanti sono gli uomini, ma solo tanti quante sono le associazioni. Le differenze diventano meno numerose e danno un risultato meno generale. Infine, quando una di queste associazioni è tanto grande da prevalere su tutte le altre, non avete più per risultato una somma di piccole differenze, ma una differenza unica; allora non vi è più volontà generale, e il parere che prevale non è che un parere particolare.
E’ necessario dunque, per avere veramente l’espressione della volontà generale, che non vi sia nello Stato nessuna società parziale e che ogni cittadino non pensi che secondo il suo giudizio: tale fu l’unica e sublime istituzione del grande Licurgo. Nel caso in cui non si possa fare a meno di società parziali, è necessario allora moltiplicarne il numero e prevenirne la disuguaglianza, come fecero Solone, Numa, Servio. Queste precauzioni sono le sole adatte affinché la volontà generale sia sempre illuminata, e il popolo non s’inganni.
Ibidem, pp. 42-43
E’ difatti nella rivoluzione francese che si tenta per la prima volta di realizzare quella trasformazione politico-sociale che costituisce il nucleo essenziale del programma rivoluzionario, espresso, assai più che nella famosa triade, peraltro intimamente contraddittoria, Liberté, egalité, fraternité, dallinsistente richiesta di eliminazione di tutti quei corpi intermedi” (associazioni, corporazioni di arti e mestieri, confraternite, comunità locali titolari di privilegi” di vario genere ecc.) che nella società organica dell’ancien régime, nella quale non esisteva paese per quanto piccolo o gruppo sociale per quanto misero che non fosse titolare di proprie intangibili ed inalienabili prerogative, costituivano ad un tempo uno strumento di partecipazione continua del cittadino alla vita comunitaria e uno scudo contro l’eccessiva ingerenza statale.
Come noto, a seguito della richiesta del deputato bretone (di Rennes) Isaac René Guy Le Chapelier (peraltro confinato dagli sviluppi rivoluzionari fra i moderati da estremista che era all’inizio) di estirpare definitivamente tutte queste idee di corpi e ordini che rinascono senza posa”, inclusi gli stessi club e le cosiddette società popolari (antenati degli odierni partiti politici), l’Assemblea costituente varò dapprima (14 giugno 1791) una legge che privava i lavoratori del diritto di associazione, poi (29 settembre 1791) un nuovo provvedimento, che proibiva a tutte le società di avere sotto qualunque forma un’esistenza politica”, in quanto anch’esse in contrasto col fondamentale dogma rivoluzionario della coincidenza totale fra Stato-Nazione e cittadini, essendo il primo, attraverso la volontà generale”, l’espressione giuridica (ma anche la regola etica) dei secondi, il che rende non solo inammissibile, ma addirittura assurda e inconcepibile l’esistenza di diaframmi o intermediari fra l’uno e gli altri.
Di conseguenza, nel sistema giacobino dell’assoluta sovranità popolare lo Stato-Nazione ha di fronte a sé unicamente una massa uniforme e indifferenziata (e, quindi, informe) di esseri uguali sì, ma, più che per la nativa eguaglianza dello stato di natura, perché ugualmente inermi ed indifesi di fronte alla forza schiacciante della volontà generale incarnata dalla Nazione (che in futuro, nell’Unione Sovietica e nella Germania nazista, diverrà lo Stato-Partito) cioè, di fatto, dell’onnipotente Leviatano statale anticipato da Hobbes.
Da una simile situazione sociale, (…) derivano infatti, come logica ed inevitabile conseguenza, il regime totalitario e la divinizzazione dello Stato, fenomeno del tutto sconosciuto all’universo pre-rivoluzionario.
Francesco Mario Agnoli, L’epoca delle rivoluzioni, Il Cerchio, Rimini 1999, pp. 8-10
Colui che osa prendere l’iniziativa di fondare una nazione deve sentirsi in grado di cambiare, per così dire, la natura umana, di trasformare ogni individuo, che per se stesso è un tutto perfetto ed isolato, in parte di un più grande tutto, dal quale questo individuo riceva in qualche modo la vita e l’essere, di alterare la costituzione dell’uomo per rafforzarla; di sostituire una esistenza parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che noi tutti abbiamo ricevuta dalla natura. Bisogna, in una parola, che egli tolga all’uomo le forze che gli son proprie per dargliene altre che siano al di fuori di lui e di cui non possa far uso senza l’aiuto di altri. Quanto più queste forze naturali sono morte e annientate, quanto più quelle acquisite sono grandi e durevoli, tanto più l’istituzione stessa è solida e perfetta: di modo che se ogni cittadino non è nulla, né può nulla se non per mezzo di tutti gli altri, e se la forza acquistata dal tutto è uguale o superiore alla somma delle forze naturali di tutti gli individui, si può dire che la legislazione ha raggiunto il più alto grado di perfezione a cui possa arrivare.
Il legislatore è sotto tutti i rispetti un uomo straordinario nello Stato. E se deve esserlo per il suo ingegno, non lo è meno per il suo ufficio. Quest’ultimo non è magistratura, non è sovranità. Quest’ufficio che costituisce la repubblica, non è compreso nella sua costituzione; è una funzione singolare e superiore che non ha niente di comune con l’autorità umana (…).
Ecco ciò che costrinse in ogni tempo i padri delle nazioni a ricorrere all’intervento del cielo e ad onorare la saggezza divina, affinché i popoli, soggetti alle leggi dello Stato come a quelle della natura, e riconoscendo lo stesso potere nella formazione dell’uomo e in quella dello Stato, obbedissero con libertà e portassero docilmente il giogo della felicità pubblica.
Questa ragione sublime, che si eleva in una sfera inaccessibile al volgo, è quella le cui decisioni il legislatore mette nella bocca degli immortali, per trascinare per mezzo dell’autorità divina coloro che non potrebbero essere scossi dalla prudenza umana. Ma non è da tutti far parlare gli dèi, né essere creduto quando ci si proclama loro interprete. La grande anima del legislatore è il solo miracolo che deve dimostrare la sua missione.
J.-J. , op. cit., pp. 57-60
Per una concezione della società diametralmente opposta a questa, e realmente democratica, vedi il fascicolo Sul liberalismo di Roberto Persico