Roberto Artl
27 Gennaio 2019Banners
27 Gennaio 2019Schematizzazione della poetica di Pavese:
- Creazione di una narrativa immediata e incisiva, diversa dalla prosa d’arte tipica della letteratura italiana nel periodo fascista, sul modello della letteratura americana, che Pavese stesso contribuì a diffondere con le sue traduzioni, anche se la sua narrativa non è semplicisticamente riconducibile all’etichetta di “neorealista” .
- La poesia-racconto di Lavorare stanza contrapposta alla coeva poesia ermetica, per il suo andamento prosastico, i versi lunghi, gli ambienti popolari, i dialoghi dei personaggi che scardinano l’autoreferenzialità della poesia italiana.
- La sacralità rituale della campagna, da cui emergono miti riposti nel fondo della coscienza.
- La solitudine irriducibile a qualsiasi motivo consolatorio, sentita come un destino ineluttabile, odiata perché giustificazione di una passività ontologica, ma nello stesso tempo cercata perché strumento necessario per lo scavo interiore.
SVOLGIMENTO TEMI – ESAME DI STATO 2001
TIPOLOGIA A
Cesare Pavese, La luna e i Falò
C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire “Ecco cos’ero prima di nascere”. Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.
Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c’è più, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l’ospedale di Alessandria gli passava la mesata. Su queste colline quarant’anni fa c’erano dei dannati che per vedere uno scudo d’argento si caricavano un bastardo dell’ospedale, oltre ai figli che avevano già. C’era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio; la Virgilia volle me perché di figlie ne aveva già due, e quando fossi un po’ cresciuto speravano di aggiustarsi in una grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene. Padrino aveva allora il casotto di Gaminella – due stanze e una stalla -, la capra e quella riva dei noccioli. Io venni su con le ragazze, ci rubavamo la polenta, dormivamo sullo stesso saccone, Angiolina la maggiore aveva un anno più di me; e soltanto a dieci anni, nell’inverno quando morì la Virgilia, seppi per caso che non ero suo fratello. Da quell’inverno Angiolina giudiziosa dovette smettere di girare con noi per la riva e per i boschi; accudiva alla casa, faceva il pane e le robiole, andava lei a ritirare in municipio il mio scudo; io mi vantavo con Giulia di valere cinque lire, le dicevo che lei non fruttava niente e chiedevo a Padrino perché non prendevamo altri bastardi.
Adesso sapevo ch’eravamo dei miserabili, perché soltanto i miserabili allevano i bastardi dell’ospedale. Prima, quando correndo a scuola gli altri mi dicevano bastardo, io credevo che fosse un nome come vigliacco o vagabondo e rispondevo per le rime. Ma ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava più lo scudo, che io ancora non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli o dall’orecchio della nostra capra come le ragazze.
Cesare PAVESE è nato nel 1908 a Santo Stefano Belbo, piccolo centro del Piemonte meridionale nella zona collinare delle Langhe ed è morto a Torino nel 1950. Ha esordito come poeta e traduttore di romanzi americani, per poi affermarsi come narratore. Il brano è tratto dal romanzo La luna e i falò, pubblicato nel 1950. La vicenda è raccontata in prima persona dal protagonista, Anguilla, un trovatello allevato da poveri contadini delle Langhe, il quale, dopo aver fatto fortuna in America, ritorna alle colline della propria infanzia.
1.Comprensione complessiva
Dopo una prima lettura, riassumi il contenuto informativo del testo in non più di dieci righe.
2.Analisi e interpretazione del testo
2.1 “C’è una ragione…”. Individua nel testo la ragione del ritorno del protagonista.
2.2 I paesi e i luoghi della propria infanzia sono indicati dal protagonista con i loro nomi propri e con insistenza. Spiegane il senso e la ragione.
2.3 Spiega il significato delle espressioni “non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra, né delle ossa” e chiarisci il senso della ricerca di se stesso “prima di nascere”.
2.4 La parola “carne” ritorna nel testo tre volte. Spiega il significato di questa parola e della sua iterazione.
2.5 Spiega come poter conciliare l’affermazione “tutte le carni sono buone e si equivalgono” con il desiderio che uno ha “di farsi terra e paese” per durare oltre l’esistenza individuale ed effimera.
2.6 La parola “bastardo” ricorre con insistenza. Spiegane il significato in riferimento alla situazione specifica in cui il termine viene di volta in volta collocato.
3.Interpretazione complessiva e approfondimenti
Sulla base dell’analisi condotta, proponi una tua interpretazione complessiva del brano ed approfondiscila collegando questa pagina iniziale di La luna e i falò con altre prose o poesie di Pavese eventualmente lette. In mancanza di questa lettura, confrontala con testi di altri scrittori contemporanei o non, nei quali ricorre lo stesso tema del ritorno alle origini. Puoi anche riferirti alla situazione storico-politica dell’epoca o ad altri aspetti o componenti culturali di tua conoscenza.
SVOLGIMENTO SOLO DELLA DOMANDA 3
CONTESTUALIZZAZIONE DEL BRANO TRATTO DA LA LUNA E I FALÒ
Pavese non ha mai dimenticato le sue colline. Anche quando rifletteva sulla vita ripercorrendo topoi letterari (Dialoghi con Leucò) o descriveva la vita della città (La bella estate), l’unico punto di riferimento certo erano proprio le Langhe sulle quali aveva giocato da ragazzo e sulle quali i partigiani avevano costruito la loro epopea di lotta per la libertà (La casa in collina). Certo nessun testo di Pavese mostra più profondamente questo legame con le proprie radici quanto il romanzo La luna e i falò, che si presenta come una sorta di testamento spirituale da consegnare alle generazioni future, nell’imminenza di quell’unico atto che lo liberò, o lo allontanò, per sempre dal faticoso ma misterioso “mestiere di vivere”, quale fu appunto il suo suicidio nel 1949, pochi mesi dopo la pubblicazione di questo romanzo. Forse la ragione più profonda del ritorno di Anguilla alla Gaminella è proprio questa: riscoprire le proprie radici per capire meglio se stessi, il motivo per cui si è al mondo, motivo che disperatamente sembra sfuggire e mancare. Come non farsi venire in mente Proust e le sue maddalenine, Leopardi e le sue Silvie e Nerine, Foscolo e la sua Zacinto, Montale e le sue immagini evanescenti nell’acqua di un secchio e Pascoli e i suoi ricordi di infanzia ne “La mia sera”, per capire che da sempre la letteratura non è altro se non un viaggio alla riscoperta di se stessi e del proprio passato nella speranza, o nell’illusione, che lì ci sia la chiave di volta per spiegare ciò che razionalmente non riusciamo a spiegare: la nostra condizione umana.
Luigi Gaudio