Linda De Benedictis
27 Gennaio 2019Mario Falanga
27 Gennaio 2019La realtà e l’apparenza nelle guerre: l’esempio della “vittoria mutilata” nel primo dopoguerra italiano, dalla Tesina “Realtà e apparenza” per liceo linguistico, di Nicola Diomaiuto
Storia
Il contrasto realtà/apparenza trova un proprio riscontro anche in ambito storico, configurandosi in quella che è l’assurdità delle guerre, che scoppiano apparentemente per alti ideali ( paradossalmente anche con intenti pacificatori: ” si vis pacem para bellum” ) ma che nascondono in realtà meri interessi economici e commerciali. Ciò che la storia ci insegna però è che le guerre finiscono sempre per lasciare l’amaro in bocca, sia ai vincitori che hai vinti, dato che ciò che portano con se è un unico scenario in cui fanno da padrone morte e distruzione. E’ noto infatti che il dopoguerra è sempre travagliato da un profondo senso di frustrazione, alimentato da tutta una serie di inquietanti interrogativi sul reale significato dei tanti sacrifici supportati a fronte degli esigui risultati ottenuti. Tutto ciò, unitamente ad altre problematiche che il dopoguerra comporta, porta inesorabilmente al diffondersi del mito della cosiddetta “vittoria mutilata”, di cui possiamo trovare un esempio in Italia, alla fine della prima guerra mondiale. Si entra cosi in un circolo vizioso : guerra- delusione ( o brama di voler sempre di più) – altra guerra, dal quale l’uomo sembra non sapere, o diciamo pure non volere, trovare una via d’uscita. Dal conflitto l’Italia era uscita vincitrice, ma stremata per lo sforzo compiuto e dominata da gravi difficoltà economiche e da profondi contrasti sociali. Le casse dello stato avevano infatti accumulato elevatissimi debiti; la produzione agricola era diminuita per il parziale abbandono dei campi durante la guerra e per l’assoluta mancanza di riforme a favore dei contadini. A loro volta le industrie pesanti, quali la siderurgica e la meccanica, enormemente sviluppatosi nel periodo del massimo sforzo bellico , erano costrette a provvedere in tempi brevi a una riconversione produttiva, cioè al passaggio da un’ economia di guerra a un’ economia di pace. Tale complessa operazione era condizionata dal fatto che il ristagno economico e la caduta generale del tenore di vita riducevano enormemente il mercato interno. Ecco perché nel mondo industriale, che pure si era oltremodo arricchito durante il conflitto a causa delle ingenti commesse statali, delle agevolazioni finanziarie, e in genere, dell’abbondante richiesta del mercato, si manifestò la tendenza a sospendere ogni attività e a licenziare gli operai. La disoccupazione cresceva così a ritmo incalzante. Lo sforzo di riconversione era aggravato anche dalla contemporanea crisi che travagliava le banche italiane, dimostratesi incapaci di porre in atto un valido sostegno creditizio nei confronti delle industrie a causa dei consistenti prestiti bellici a lungo termine già effettuati durante il periodo bellico e alla difficoltà del loro recupero. Fu così che il fallimento di alcuni grandi trust provocò il crollo di importanti istituti bancari con immediati riflessi negativi su tutto il sistema industriale, proprio quando per il paese sarebbe stato necessario uno sforzo di solidarietà, attraverso congrui finanziamenti alle imprese, allo scopo di alleviare la disoccupazione. Di qui un inevitabile peggioramento delle già difficili condizioni di vita dei lavoratori, specie di quelli a reddito fisso, sui quali pesava un’ inflazione galoppante; di qui anche un’esasperazione dei conflitti sociali, che dette l’avvio a due anni tormentatissimi nella storia sociopolitica italiana, definiti biennio rosso in quanto caratterizzati da agitazioni a sfondo rivoluzionario, che culminarono nell’occupazione delle fabbriche. In tale clima si diffuse anche l’idea che il trattamento ricevuto dagli alleati a Parigi e le clausole degli accordi fossero frutto del comportamento poco abile tenuto dai delegati italiani al tavolo di pace. Ad appesantire ulteriormente la situazione contribuiva anche la smobilitazione dei circa sei milioni di uomini chiamati alle armi dall’inizio del conflitto e che ora si trovavano inaspettatamente senza occupazione. La coscienza dei sacrifici affrontati spingeva la maggior parte dei reduci a rivendicazioni di ordine economico e sociale, inasprite dall’amarezza di non vedere realizzate quelle riforme ( in primo luogo la riforma agraria e una più equa spartizione delle terre incolte ) che erano state loro promesse nei duri giorni del fronte.
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