Titiro e Melibeo
27 Gennaio 2019Zaira Gangi
27 Gennaio 2019Guido Gozzano
di Carlo Zacco
10 Luglio, Santa Felicita
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Signorina Felicita, a quest’ora scende la sera nel giardino antico della tua casa. Nel mio cuore amico scende il ricordo. E ti rivedo ancora, e Ivrea rivedo e la cerulea Dora e quel dolce paese che non dico. Signorina Felicita, è il tuo giorno! A quest’ora che fai? Tosti il caffè: e il buon aroma si diffonde intorno? O cuci i lini e canti e pensi a me, all’avvocato che non fa ritorno? E l’avvocato è qui: che pensa a te. Pensa i bei giorni d’un autunno addietro, Vill’Amarena a sommo dell’ascesa coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa dannata, e l’orto dal profumo tetro di busso e i cocci innumeri di vetro sulla cinta vetusta, alla difesa… Vill’Amarena! Dolce la tua casa in quella grande pace settembrina! La tua casa che veste una cortina di granoturco fino alla cimasa: come una dama secentista, invasa dal Tempo, che vestì da contadina. Bell’edificio triste inabitato! Grate panciute, logore, contorte! Silenzio! Fuga dalle stanze morte! Odore d’ombra! Odore di passato! Odore d’abbandono desolato! Fiabe defunte delle sovrapporte! Ercole furibondo ed il Centauro, le gesta dell’eroe navigatore, Fetonte e il Po, lo sventurato amore d’Arianna, Minosse, il Minotauro, Dafne rincorsa, trasmutata in lauro tra le braccia del Nume ghermitore… Penso l’arredo – che malinconia! – penso l’arredo squallido e severo, antico e nuovo: la pirografia sui divani corinzi dell’Impero, la cartolina della Bella Otero alle specchiere… Che malinconia! Antica suppellettile forbita! Armadi immensi pieni di lenzuola che tu rammendi paziente… Avita semplicità che l’anima consola, semplicità dove tu vivi sola con tuo padre la tua semplice vita!
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La memoria. Il poeta si rivolge alla donna: introduce il motivo della memoria: – scende la sera > scende il ricordo;
– Carattere borghese dei protagonisti; – interni domestici, familiari, comuni;
Villa Amarena. Porta tutti i segni di un passato decrepito, di una gloria passata ora decaduta; – senso di tristezza, «abbandono desolato»; – tutto ciò però affascina il poeta;
Passato-presente. Il passato e il presente si sovrappongono: – l’antica villa aristocratica in stile barocco è ora una dimora borghese di campagna: «Come una dama secentista invasa / dal tempo che vestì da contadina»;
– Questo contrasto passato-presente si materializza anche negli oggetti: – la preziosa suppellettile («forbita») sopravvive in mezzo ad «armadi pieni di lenzuola»; – il passato è ridotto a sfondo per una rassicurante vita borghese; – questo crea una situazione di perfetta semplicità, che sembra piacere al poeta. |
II. 50
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Quel tuo buon padre – in fama d’usuraio – quasi bifolco, m’accoglieva senza inquietarsi della mia frequenza, mi parlava dell’uve e del massaio, mi confidava certo antico guaio notarile, con somma deferenza. “Senta, avvocato…” E mi traeva inqueto nel salone, talvolta, con un atto che leggeva lentissimo, in segreto. Io l’ascoltavo docile, distratto da quell’odor d’inchiostro putrefatto, da quel disegno strano del tappeto, da quel salone buio e troppo vasto… “…la Marchesa fuggì… Le spese cieche…” da quel parato a ghirlandette, a greche… “dell’ottocento e dieci, ma il catasto…” da quel tic-tac dell’orologio guasto… “…l’ipotecario è morto, e l’ipoteche…” Capiva poi che non capivo niente e sbigottiva: “Ma l’ipotecario è morto, è morto!!…”. – “E se l’ipotecario è morto, allora…” Fortunatamente tu comparivi tutta sorridente: “Ecco il nostro malato immaginario!”. |
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III.
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Sei quasi brutta, priva di lusinga nelle tue vesti quasi campagnole, ma la tua faccia buona e casalinga, ma i bei capelli di color di sole, attorti in minutissime trecciuole, ti fanno un tipo di beltà fiamminga… E rivedo la tua bocca vermiglia così larga nel ridere e nel bere, e il volto quadro, senza sopracciglia, tutto sparso d’efelidi leggiere e gli occhi fermi, l’iridi sincere azzurre d’un azzurro di stoviglia… Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi rideva una blandizie femminina. Tu civettavi con sottili schermi, tu volevi piacermi, Signorina: e più d’ogni conquista cittadina mi lusingò quel tuo voler piacermi! Ogni giorno salivo alla tua volta pel soleggiato ripido sentiero. Il farmacista non pensò davvero un’amicizia così bene accolta, quando ti presentò la prima volta l’ignoto villeggiante forestiero. Talora – già la mensa era imbandita – mi trattenevi a cena. Era una cena d’altri tempi, col gatto e la falena e la stoviglia semplice e fiorita e il commento dei cibi e Maddalena decrepita, e la siesta e la partita…
Per la partita, verso ventun’ore giungeva tutto l’inclito collegio politico locale: il molto Regio Notaio, il signor Sindaco, il Dottore; ma – poiché trasognato giocatore – quei signori m’avevano in dispregio… M’era più dolce starmene in cucina tra le stoviglie a vividi colori: tu tacevi, tacevo, Signorina: godevo quel silenzio e quegli odori tanto tanto per me consolatori, di basilico d’aglio di cedrina… Maddalena con sordo brontolio disponeva gli arredi ben detersi, rigovernava lentamente ed io, già smarrito nei sogni più diversi, accordavo le sillabe dei versi sul ritmo eguale dell’acciottolio. Sotto l’immensa cappa del camino (in me rivive l’anima d’un cuoco forse…) godevo il sibilo del fuoco; la canzone d’un grillo canterino mi diceva parole, a poco a poco, e vedevo Pinocchio e il mio destino… Vedevo questa vita che m’avanza: chiudevo gli occhi nei presagi grevi; aprivo gli occhi: tu mi sorridevi, ed ecco rifioriva la speranza! Giungevano le risa, i motti brevi dei giocatori, da quell’altra stanza. |
Il ritratto di Felicita. Qui c’è la presentazione della Signorina Felicita, pienamente inserita in questo contesto piccolo borghese: – poco attraente, (priva di lusinga); – ma che finisce per attrarre il poeta («mi lusingò quel tuo voler piacermi»); – ma questattrazione è mediata dal filtro letterario («un tipo di beltà fiamminga»); – la bellezza della signorina Felicita è in opposizione ai canoni convenzionali («più di ogni conquista cittadina»); – in particolare in opposizione alla bellezza di tante donne dannunziane;
– Maddalena: la domestica; – La siesta: il riposo dopo pranzo e la partita a carte;
– lacciottolio: il rumore prodotto dalle stoviglie; – in opposizione polemica, ancora, con i versi altisonanti di D’Annunzio; che Gozzano vuole dissacrare; |
IV.
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Bellezza riposata dei solai dove il rifiuto secolare dorme! In quella tomba, tra le vane forme di ciò ch’è stato e non sarà più mai, bianca bella così che sussultai, la Dama apparve nella tela enorme: “é quella che lascò, per infortuni, la casa al nonno di mio nonno… E noi la confinammo nel solaio, poi che porta pena… L’han veduta alcuni lasciare il quadro; in certi novil’uni s’ode il suo passo lungo i corridoi…”. Il nostro passo diffondeva l’eco tra quei rottami del passato vano, e la Marchesa dal profilo greco, altocinta, l’un piede ignudo in mano, si riposava all’ombra d’uno speco arcade, sotto un bel cielo pagano. Intorno a quella che rideva illusa nel ricco peplo, e che morì di fame, v’era una stirpe logora e confusa: topaie, materassi, vasellame, lucerne, ceste, mobili: ciarpame reietto, così caro alla mia Musa!
Tra i materassi logori e le ceste v’erano stampe di persone egregie; incoronato dalle frondi regie v’era Torquato nei giardini d’Este. “Avvocato, perché su quelle teste buffe si vede un ramo di ciliege?” Io risi, tanto che fermammo il passo, e ridendo pensai questo pensiero: Oimè! La Gloria! un corridoio basso, tre ceste, un canterano dell’Impero, la brutta effigie incorniciata in nero e sotto il nome di Torquato Tasso! Allora, quasi a voce che richiama, esplorai la pianura autunnale dall’abbaino secentista, ovale, a telaietti fitti, ove la trama del vetro deformava il panorama come un antico smalto innaturale. Non vero (e bello) come in uno smalto a zone quadre, apparve il Canavese: Ivrea turrita, i colli di Montalto, la Serra dritta, gli alberi, le chiese; e il mio sogno di pace si protese da quel rifugio luminoso ed alto. Ecco – pensavo – questa è l’Amarena, ma laggiù, oltre i colli dilettosi, c’è il Mondo: quella cosa tutta piena di lotte e di commerci turbinosi, la cosa tutta piena di quei “cosi con due gambe” che fanno tanta pena… L’Eguagliatrice numera le fosse, ma quelli vanno, spinti da chimere vane, divisi e suddivisi a schiere opposte, intesi all’odio e alle percosse: così come ci son formiche rosse, così come ci son formiche nere… Schierati al sole o all’ombra della Croce, tutti travolge il turbine dell’oro; o Musa – oimè! – che pu? giovare loro il ritmo della mia piccola voce? Meglio fuggire dalla guerra atroce del piacere, dell’oro, dell’alloro… L’alloro… Oh! Bimbo semplice che fui, dal cuore in mano e dalla fronte alta! Oggi l’alloro è premio di colui che tra clangor di buccine s’esalta, che sale cerretano alla ribalta per far di sé favoleggiar altrui… “Avvocato, non parla: che cos’ha?” “Oh! Signorina! Penso ai casi miei, a piccole miserie, alla città… Sarebbe dolce restar qui, con Lei!…” “Qui, nel solaio?…” – “Per l’eternità!” “Per sempre? Accetterebbe?…” – “Accetterei!”
Tacqui. Scorgevo un atropo soletto e prigioniero. Stavasi in riposo alla parete: il segno spaventoso chiuso tra l’ali ripiegate a tetto. Come lo vellicai sul corsaletto si librò con un ronzo lamentoso. “Che ronzo triste!” – “é la Marchesa in pianto… La Dannata sarà che porta pena…” Nulla s’udiva che la sfinge in pena e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto: O mio carino tu mi piaci tanto, siccome piace al mar una sirena… Un richiamo s’alzò, querulo e roco: “é Maddalena inqueta che si tardi: scendiamo; è l’ora della cena!”. – “Guardi, guardi il tramonto, là… Com’è di fuoco!… Restiamo ancora un poco!” – “Andiamo, è tardi!” “Signorina, restiamo ancora un poco!…” Le fronti al vetro, chini sulla piana, seguimmo i neri pippistrelli, a frotte; giunse col vento un ritmo di campana, disparve il sole fra le nubi rotte; a poco a poco s’annunciò la notte sulla serenità canavesana… “Una stella!…” – “Tre stelle!…” – “Quattro stelle!…” “Cinque stelle!” – “Non sembra di sognare?…” Ma ti levasti su quasi ribelle alla perplessit^ crepuscolare: “Scendiamo! é tardi: possono pensare che noi si faccia cose poco belle…” |
Il solaio. Il solaio è visto come un luogo di fantasticheria e di sogno: – solo qui può nascere l’idillio tra il poeta e la signorina Felicita, un idillio tutto artificiale;
– questo solaio è «come una tomba», dove si raccolgono tutti gli oggetti del passato, «le vane forme di ciò che è stato e non sarà più mai»;
– gli oggetti del passato appaiono sottratti allo scorrere del tempo: vecchio e nuovo convivono;
Riflessione sulla vita. Intanto il poeta guarda fuori: – attraverso il vetro ondulato il paesaggio esterno appare deformato: – parte una riflessione «pensai questo pensiero»; – il poeta riflette su tutti i valori e le mitologie del presente, che considera inutili; – non riesce a condividere il frenetico attivismo dell’oggi; né i programmi di impegno e di lotta politica (il «rosso» e il «nero» delle formiche, ai vv. 191-192); |
V.
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Ozi beati a mezzo la giornata, nel parco dei marchesi, ove la traccia restava appena dell’età passata! Le Stagioni camuse e senza braccia, fra mucchi di letame e di vinaccia, dominavano i porri e l’insalata. L’insalata, i legumi produttivi deridevano il busso delle aiole; volavano le pieridi nel sole e le cetonie e i bombi fuggitivi… Io ti parlavo, piano, e tu cucivi innebriata dalle mie parole. “Tutto mi spiace che mi piacque innanzi! Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco, terminare la vita che m’avanzi tra questo verde e questo lino bianco! Se Lei sapesse come sono stanco delle donne rifatte sui romanzi! Vennero donne con proteso il cuore: ognuna dileguò, senza vestigio. Lei sola, forse, il freddo sognatore educherebbe al tenero prodigio: mai non comparve sul mio cielo grigio quell’aurora che dicono: l’Amore…” Tu mi fissavi… Nei begli occhi fissi leggevo uno sgomento indefinito; le mani ti cercai, sopra il cucito, e te le strinsi lungamente, e dissi: “Mia cara Signorina, se guarissi ancora, mi vorrebbe per marito?”. “Perché mi fa tali discorsi vani? Sposare, Lei, me brutta e poveretta!…” E ti piegasti sulla tua panchetta facendo al viso coppa delle mani, simulando singhiozzi acuti e strani per celia, come fa la scolaretta. Ma, nel chinarmi su di te, m’accorsi che sussultavi come chi singhiozza veramente, né sa più ricomporsi: mi parve udire la tua voce mozza da gli ultimi singulti nella strozza: “Non mi ten…ga mai più… tali dis…corsi!” “Piange?” E tentai di sollevarti il viso inutilmente. Poi, colto un fuscello, ti vellicai l’orecchio, il collo snello… Già tutta luminosa nel sorriso ti sollevasti vinta d’improvviso, trillando un trillo gaio di fringuello. Donna: mistero senza fine bello! |
Il giardino. Anche questo è un ambiente ricco di contrasti: – le statue di divinità antiche, rotte e smozzicate; – i cumuli di letame; – legumi produttivi; – i bussi delle aiuole;
Viene degradato il topos tradizionale del giardino, e, ancora una volta, la vegetazione ricca e lussureggiante di D’Annunzio;
– anche questo è un ambiente in cui può avere luogo l’idillio tra il poeta e Felicita;
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VI. |
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Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi luceva una blandizie femminina; tu civettavi con sottili schermi, tu volevi piacermi, Signorina; e più d’ogni conquista cittadina mi lusingò quel tuo voler piacermi! Unire la mia sorte alla tua sorte per sempre, nella casa centenaria! Ah! Con te, forse, piccola consorte vivace, trasparente come l’aria, rinnegherei la fede letteraria che fa la vita simile alla morte… Oh! questa vita sterile, di sogno! Meglio la vita ruvida concreta del buon mercante inteso alla moneta, meglio andare sferzati dal bisogno, ma vivere di vita! Io mi vergogno, sì, mi vergogno d’essere un poeta! Tu non fai versi. Tagli le camicie per tuo padre. Hai fatta la seconda classe, t’han detto che la Terra è tonda, ma tu non credi… E non mediti Nietzsche… Mi piaci. Mi faresti più felice d’un’intellettuale gemebonda… Tu ignori questo male che s’apprende in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti, tutta beata nelle tue faccende. Mi piace. Penso che leggendo questi miei versi tuoi, non mi comprenderesti, ed a me piace chi non mi comprende. Ed io non voglio più essere io! Non più l’esteta gelido, il sofista, ma vivere nel tuo borgo natio, ma vivere alla piccola conquista mercanteggiando placido, in oblio come tuo padre, come il farmacista… Ed io non voglio più essere io! |
Sviluppo dellIdill’io. Lidillio si sviluppa in una volontà di staccarsi dal proprio passato («ed io non voglio essere più io»), sostituendo le convenzioni false e superficiali con una vita più tranquilla e concreta;
– la Signorina Felicita rappresenta una concreta possibilità di evasione, ultima speranza per potersi riappropriare di una vita autentica e felice;
– il titolo recita riporta Felicita-Felicità;
– la letteratura ha contribuito ad esasperare questo senso di inautenticità, ed ha allontanato il poeta sempre di più dalla vita vera e semplice («rinnegherei la fede letteraria / che fa la vita simile alla morte»; «io mi vergogno / sì, mi vergogno di essere poeta!»);
– la letteratura stessa è considerata come un’esperienza malata (pensiamo a Corazzini), e la Signorina Felicita può essere l’antidoto di questo «male che sapprende», poiché ne è rimasta totalmente immune;
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Il farmacista nella farmacia m’elogiava un farmaco sagace: “Vedrà che dorme le sue notti in pace: un sonnifero d’oro, in fede mia!” Narrava, intanto, certa gelosia con non so che loquacità mordace. “Ma c’è il notaio pazzo di quell’oca! Ah! quel notaio, creda: un capo ameno! La Signorina è brutta, senza seno, volgaruccia, Lei sa, come una cuoca… E la dote… la dote è poca, poca: diecimila, chi sa, forse nemmeno…” “Ma dunque?” – “C’è il notaio furibondo con Lei, con me che volli presentarla a Lei; non mi saluta, non mi parla…” “é geloso?” – “Geloso! Un finimondo!…” “Pettegolezzi!…” – “Ma non Le nascondo che temo, temo qualche brutta ciarla…” “Non tema! Parto.” – “Parte? E va lontana?” “Molto lontano… Vede, cade a mezzo ogni motivo di pettegolezzo…” “Davvero parte? Quando?” – “In settimana…” Ed uscii dall’odor d’ipecacuana nel plenilunio settembrino, al rezzo. Andai vagando nel silenzio amico, triste perduto come un mendicante. Mezzanotte scoccò, lenta, rombante su quel dolce paese che non dico. La Luna sopra il campanile antico pareva “un punto sopra un I gigante”. In molti mesti e pochi sogni lieti, solo pellegrinai col mio rimpianto fra le siepi, le vigne, i castagneti quasi d’argento fatti nell’incanto; e al cancello sostai del camposanto come s’usa nei libri dei poeti. Voi che posate già sull’altra riva, immuni dalla gioia, dallo strazio, parlate, o morti, al pellegrino sazio! Giova guarire? Giova che si viva? O meglio giova l’Ospite furtiva che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio? A lungo meditai, senza ritrarre la tempia dalle sbarre. Quasi a scherno s’udiva il grido delle strigi alterno… La Luna, prigioniera fra le sbarre, imitava con sue luci bizzarre gli amanti che si baciano in eterno. Bacio lunare, fra le nubi chiare come di moda settant’anni fa! Ecco la Morte e la Felicità! L’una m’incalza quando l’altra appare; quella m’esilia in terra d’oltremare, questa promette il bene che sarà… |
La gelosia. In questa stanza è esposto un tratto dellesile trama: – il farmacista, amico del poeta, gli racconta che il notaio è furibondo di gelosia a causa dellAvvocato, poiché il notaio è innamorato della Signorina Felicita, e vorrebbe s posarla; – l’avvocato smentisce ogni pettegolezzo riguardo a una possibile relazione, e annuncia che a breve partirà. |
VIII.
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Nel mestissimo giorno degli addii mi piacque rivedere la tua villa. La morte dell’estate era tranquilla in quel mattino chiaro che salii tra i vigneti già spogli, tra i pendii già trapunti da bei colchici lilla. Forse vedendo il bel fiore malvagio che i fiori uccide e semina le brume, le rondini addestravano le piume al primo volo, timido, randagio; e a me randagio parve buon presagio accompagnarmi loro nel costume. “Viaggio con le rondini stamane…” “Dove andrà?” – “Dove andrò? Non so… Viaggio, viaggio per fuggire altro viaggio… Oltre Marocco, ad isolette strane, ricche in essenze, in datteri, in banane, perdute nell’Atlantico selvaggio… Signorina, s’io torni d’oltremare, non sarà d’altri già? Sono sicuro di ritrovarla ancora? Questo puro amore nostro salirà l’altare?” E vidi la tua bocca sillabare a poco a poco le sillabe: giuro. Giurasti e disegnasti una ghirlanda sul muro, di viole e di saette, coi nomi e con la data memoranda: trenta settembre novecentosette… Io non sorrisi. L’animo godette quel romantico gesto d’educanda. Le rondini garrivano assordanti, garrivano garrivano parole d’addio, guizzando ratte come spole, incitando le piccole migranti… Tu seguivi gli stormi lontananti ad uno ad uno per le vie del sole… “Un altro stormo s’alza!…” – “Ecco s’avvia!” “Sono partite…” – “E non le salutò!…” “Lei devo salutare, quelle no: quelle terranno la mia stessa via: in un palmeto della Barberia tra pochi giorni le ritroverò…” Giunse il distacco, amaro senza fine, e fu il distacco d’altri tempi, quando le amate in bande lisce e in crinoline, protese da un giardino venerando, singhiozzavano forte, salutando diligenze che andavano al confine… M’apparisti così come in un cantico del Prati, lacrimante l’abbandono per l’isole perdute nell’Atlantico; ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono sentimentale giovine romantico… Quello che fingo d’essere e non sono!
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Laddio. Ma c’è un ma: questo idillio è e resta pura finzione letteraria, ed è un desiderio di evasione irrealizzabile: l’incanto di una vita semplice e felice non è più possibile per il sofisticato poeta.
– ai vv. 277-282 la Signorina Felicita crede alle parole del poeta che chiede di sposarla, e piange; – il poeta in un primo momento pensa che si tratti di lacrime finte, come quelle recitate dalle vezzose donne di città, ma si sbaglia: – sono lacrime vere, per lei questa non è una recita; – per il poeta invece lo è: e di fronte alla signorina Felicita non c’è il vero poeta, quello che è, ma «l’altro», quello che vorrebbe essere.
– in questo contesto si inserisce l’addio: che fu «un distacco d’altri tempi», rivissuto, ancora una volta, attraverso il filtro della letteratura: «lapparisti così come un cantico / del Prati, lacrimante l’abbandono»;
– L’amore con la Signorina Felicita è una mera ipotesi cartacea, assurda e paradossale, negata dalla distanza culturale tra i due e dai valori, ai quali il poeta non può realmente aderire. |