Titiro e Melibeo
27 Gennaio 2019Zaira Gangi
27 Gennaio 2019MERIGGIO
di Gabriele D’Annunzio
di Carlo Zacco
A mezzo il giorno
sul Mare etrusco
pallido verdicante
come il dissepolto
bronzo dagli ipogei, grava 5
la bonaccia. Non bava
di vento intorno
alita. Non trema canna
su la solitaria
spiaggia aspra di rusco, 10
di ginepri arsi. Non suona
voce, se ascolto.
Riga di vele in panna
verso Livorno
biancica. Pel chiaro 15
silenzio il Capo Corvo
l’isola del Faro
scorgo; e più lontane,
forme d’aria nell’aria,
l’isole del tuo sdegno,20
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgona.
Marmorea corona
di minaccevoli punte,
le grandi Alpi Apuane25
regnano il regno amaro,
dal loro orgoglio assunte.
Prima parte. Le prime due strofe descrivono due quadri paesistici.
1 Prima strofa. Descrive una «marina»:
– in primo luogo, v. 1-12, viene dipinto un ampio paesaggio marino, colto in un momento di bonaccia: immobilità totale, silenzio assoluto;
– l’idea di immobilità è resa con una triplice negazione:
«Non bava di vento alita»;
«Non trema canna»;
«Non suona / voce»;
– l’immobilità e il silenzio sono sottolineati nella loro qualità negativa, cioè come assenza di suono e di movimento (Dante, If. XIII: Non fronda verde, ma di color fosco / non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti / non pomi veran, ma stecchi con tosco).
– in secondo luogo, dal v. 13, la visuale si allarga, e subentra un’impressione di grande vastità spaziale, resa con:
- a) il potere evocativo dei puri nomi geografici:
«Livorno», «Capo Corvo», «sola del Faro», «la Capraia e la Gorgòna», le «Alpi Apuàne»;
- b) vaghe indicazioni spaziali: «verso», «più lontane»;
- c) notazione cromatiche che insistono sulle tonalità chiarissime:
«bianche», forme d’aria nell’aria», «marmorea»;
La foce è come salso
stagno. Del marin colore,
per mezzo alle capanne, 30
per entro alle reti
che pendono dalla croce
degli staggi, si tace.
Come il bronzo sepolcrale
pallida verdica in pace35
quella che sorridea.
Quasi letèa,
obliviosa, eguale,
segno non mostra
di corrente, non ruga40
d’aura. La fuga
delle due rive
si chiude come in un cerchio
di canne, che circonscrive
l’oblìo silente; e le canne 45
non han susurri. Più foschi
i boschi di San Rossore
fan di sé cupa chiostra;
ma i più lontani,
verso il Gombo, verso il Serchio,50
son quasi azzurri.
Dormono i Monti Pisani
coperti da inerti
cumuli di vapore.
Seconda strofa. Qui il centro del quadro paesistico è la foce dell’Arno;
– le coordinate spaziali sono le stesse della strofa precedente, con il contrasto vicino-lontano;
– stessi temi, e riprese letterali;
– anche qui c’è una prima parte (v. 27-45) in cui ci si sofferma sull’impressione di immobilità e silenzio:
– la foce è come un «salso / stagno si tace»;
– è «letèa, obliviosa, eguale»;
– è «in pace», «si tace»;
– ritorna la triplice anafora di negazione:
– «non mostra», «non ruga /d’aura», «non han sussurri»;
– a partire dal v. 46 anche nella seconda strofa la visuale si allarga, ma questa volta sulla base di tonalità cromatiche fosche e scure, poiché lo sguardo è rivolto ai boschi, che fanno da pendant con il mare, e che sono:
– «più foschi», «cupa chiostra», «quasi azzurri»;
– alle Alpi Apuane, corrispondono i «Monti Pisani», caratterizzati dalla stessa nota di bianco che in questo caso li descrive come «inerti cumuli / di vapore».
Bonaccia, calura,55
per ovunque silenzio.
L’Estate si matura
sul mio capo come un pomo
che promesso mi sia,
che cogliere io debba 60
con la mia mano,
che suggere io debba
con le mie labbra solo.
Perduta è ogni traccia
dell’uomo. Voce non suona, 65
se ascolto. Ogni duolo
umano m’abbandona.
Non ho più nome.
E sento che il mio volto
s’indora dell’oro70
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;
sento che il lido rigato75
con sì delicato
lavoro dall’onda
e dal vento è come
il mio palato, è come
il cavo della mia mano80
ove il tatto s’affina.
E la mia forza supina
si stampa nell’arena,
diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena, 85
il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia 90
della pina, nella bacca
del ginepro; io son nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane, 95
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
Ardo, riluco.
E non ho più nome.
E l’alpi e l’isole e i golfi100
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch’io nomai
non han più l’usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome né sorte 105
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.
E la mia vita è divina.
Seconda parte. Nelle ultime due strofe non c’è tanto una descrizione del paesaggio, ma emerge con grande evidenza l’ideologia superomistica.
3) Terza strofa. Nei versi riprendono sinteticamente, il contenuto delle due strofe precedenti, a mo di sommario: «Bonaccia, calura, / per ovunque silenzio».
– questo prepara il terreno al discorso che segue.
– Ideologia del superuomo. Ritroviamo ancora l’ideologia del superuomo, unico essere in grado di cogliere nella natura lo stimolo per una vita piena e totale, quasi divina;
– Il panismo. L’individualità umana si perde, e scompare identificandosi con la molteplicità delle presenze naturali:
– ad es. 64-65: «perduta è ogni traccia / dell’uomo»;
– v. 68: «Non ho più nome», perdita di identità;
– è una specie di trasumanar, un’estasi: un’esperienza mistica in cui l’uomo esce da sé per attingere ad una dimensione ignota, raggiungendo il cuore dell’essenza superiore delle cose;
4) Quarta strofa. Il culmine di questo è raggiunto nella quarta strofa, con una serie di identificazioni tra io-natura, e un’ulteriore dichiarazione di perdita di identità umana:
– v. 99: «E io non ho più nome», che si ripete ai vv. 105-6: «non ho più nome né sorte /tra gli uomini», e culmina nel verso finale: «E la mia vita è divina».