Giovanni Ghiselli: professore di greco e latino
27 Gennaio 2019Giusy
27 Gennaio 2019Solone poeta e legislatore
di Giovanni Ghiselli
Testo della conferenza del 22 ottobre 2013 (Festa della Storia)
Bologna Sala del Risorgimento – Museo Civico Archeologico Via de Musei, 8
RACCONTARE LA STORIA – Ore 15.00 – Solone poeta e legislatore,
conferenza di Giovanni Ghiselli.
Bologna Archivio di Stato – Aula didattica Vicolo Spirito Santo, 2
RACCONTARE LA STORIA
Un caso a sé è quello di Solone, il quale, un poco come Pittaco a Mitilene, fu pacificatore tra le fazioni in lotta ad Atene, in uno scontro non solo socio-economico ma anche religioso e culturale, fattori che nella vita greca spesso sono interdipendenti.
Cominceremo dunque da lui intrattenendoci un poco anche sulla vita e sull’opera di legislatore, importanti quanto la produzione poetica e intrecciata con essa.
Nacque ad Atene da famiglia elevata: Plutarco nella Vita di Solone ci dice che discendeva dal re Codro, della stirpe di Poseidone. Durante la sua infanzia (intorno al 630) il nobile Cilone cercò di instaurare la tirannide mettendosi a capo dei contadini e occupando l’acropoli, ma il tentativo fu represso con violenza da Megacle Alcmeonide, che, seguace di Apollo delfico, fece ammazzare i ciloniani rifugiatisi invano nel tempio delle Erinni, le dee venerande della religione orfico-dionisiaca.
Così gli Alcmeonidi si macchiarono di sacrilegio, tanto che nel 596 trecento famiglie nobili riconobbero la loro colpevolezza: tutta la stirpe fu condannata a esilio perpetuo, e i loro cadaveri vennero buttati fuori dal sepolcro.
Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi (1) racconta che allora il cretese Epimenide purificò la città (ejkavqhre th;n povlin).
Plutarco ( Vita di Solone, 12) narra che Epimenide aveva fama di essere un uomo santo e sapiente nelle cose divine, della sapienza ispirata e iniziatica. Quando, intorno al 600, venne ad Atene da Creta, strinse amicizia con Solone e lo aiutò a preparare la sua legislazione. Infatti rese gli Ateniesi più semplici nei culti e più moderati nelle cerimonie funebri, eliminando gli eccessi . Ma la cosa più importante è che, avendo santificato e consacrato la città con sacrifici espiatorii, purificazioni e fondazioni sacre, la sottomise alla giustizia e cercò di indurla alla concordia. Epimenide dunque fu profeta delle Erinni e della religione orfico-dionisiaca cara alle plebi; pertanto avversario della consorteria degli Alcmeonidi alleati con i sacerdoti del santuario delfio che sostenevano le oligarchie aristocratiche in tutta la Grecia.
La cultura e le fazioni favorevoli al santuario delfico, chiamavano quel luogo di culto apollineo situato sulle pendici occidentali del Parnaso “l’ombelico del mondo”, mentre uno dei frammenti di Epimenide afferma che non c’è l’ombelico della terra né del mare, proprio per sminuire il dio e la casta sacerdotale cari ai maledetti Alcmeonidi.
Epimenide di Festo ottenne dal dio questo oracolo:
“non c’è un ombelico centrale (mevso~ ojmfalov~) della terra né del mare, e se pure ci fosse, sarebbe noto agli dèi, celato ai mortali (Plutarco, De defectu oraculorum, 409 F).
La negazione della centralità di Delfi dunque era stata espressa da Epimenide, il profeta delle Erinni che purificò Atene agli inizi del sesto secolo:”oujk a[r j e[hn gaivh” mevso” ojmfalo;” oujde; qalavssh””(3B11 DK), non c’ era un ombelico centrale della terra né del mare.
E’ la linea antidelfica, procedendo sulla quale il “sacrilego” Euripide presenta i ministri di Apollo come una masnada di assassini sanguinari. Nell’Andromaca Neottolemo, il ragazzo di Achille, stando sotto gli occhi di tutti, prega il dio, e viene ferito; allora domanda:”tivno” m j e}kati kteivnet j eujsebei'” oJdou;”- h}konta; poiva” o[llumai pro;” aijtiva”; “, perché mi uccidete sulla strada della pietà ? Per quale colpa muoio?”(vv.1125-1126), ma nessuno dei molti presenti gli rispose; anzi lo uccisero colpendolo con pietre. Tutto questo è raccontato da un messo che alla fine della rJh’si” (v.1164) accusa Apollo di essere w}sper a[nqrwpo” kakov”, come un uomo malvagio, e domanda:”pw'” a]n oun ei[h sofov”;”, come potrebbe essere saggio?
Ho insistito su questo contrasto politico-religioso poiché assumerà grande rilievo nella letteratura successiva: la storiografia nascerà da un compromesso tra la rivoluzione orfica e la resistenza delle grandi famiglie nobiliari: Eschilo, celebrando nelle Eumenidi ( del 458) la vittoria del dio delfico Apollo contro la giustizia delle Erinni, esalterà in fondo la vittoria degli Alcmeonidi sulle dee di Epimenide. Nel compromesso, prevale la consorteria dei maledetti Alcmeonidi. Lo stesso Pericle, il leone di Greci[1], alcmeonideo per parte materna e discendente da Epimenide per parte di padre, incarna questo compromesso.
Ma tornando a Solone, agli inizi del sesto secolo, dopo l’esilio inflitto agli Alcmeonidi, manca l’equilibrio politico.
La popolazione, scrive Plutarco (Vita di Solone , 13) era divisa in tre partiti a seconda della varietà del territorio: quelli dei monti erano fautori della democrazia, quelli della pianura, più ricchi, dell’oligarchia, quelli della costa sostenevano una forma mista di governo, di centro potremmo dire con termine moderno.
I disordini erano fomentati dalle sperequazioni enormi e dall’indebitamento dei poveri che diventavano perfino schiavi dei ricchi, dopo avere contratto debiti con garanzia sulla propria persona.
A questo punto (anno 594) Solone fu nominato arconte (a[rcwn) con l’incarico di pacificatore e legislatore (diallakthv” kai; nomoqevth”): i possidenti infatti lo accettarono in quanto benestante, i poveri, siccome galantuomo: doveva fare da paciere tra nobili e popolo. In effetti Solone invitò gli uni e gli altri a non essere smodati biasimando e punendo la prepotenza. Si sentì un servitore della comunità, e, per dare un esempio di moderazione, dopo avere portato a termine il suo compito, si ritirò dal potere e dalla città. Non accettò la tirannide che molti gli offrivano dicendo agli amici che
” la tirannide è una bella fortezza ma non ha via d’uscita“( “eipen kalo;n me;n einai th;n turannivda cwrivon, oujk e[cein d’ ajpovbasin” Plutarco, Vita di Solone 14, 35).
Per prima cosa operò l’alleviamento dei debiti (seisavcqeia[2]) e vietò di prendere denaro a prestito impegnando la persona, per evitare che risorgesse la schiavitù degli indebitati. Tuttavia si oppose ad una radicale riforma agraria con la distribuzione della terra.
Quindi applicò alla cittadinanza un ordinamento razionalistico-timocratico mutuato dall’Asia ionica: la divise in quattro classi (Pentacosiomedimni, Cavalieri, Zeugiti e Teti ) a seconda del censo, e stabilì che il potere politico, con relativi onori e oneri, fosse proporzionale alla ricchezza.
I pentacosiomedimni ricavavanodal loro terreno non meno di 500 medimni di cereali o 500 metreti di olio. Il mevdimno~ (cfr. lat. modius) equivaleva a 52 chili;il metrhthv~ era un’anfora da 39 litri.
Gli iJppei`~ avevano una rendita di 300 medimni o metriti. Potevano allevare cavalli
Gli zeugiti, 200; potevano aggiogare una coppia di buoi per arare la terra. I teti (oiJ qh`te~) non possedevano la terra, erano dei salariati, dei servi pagati, mentre dou`lo~ è lo schiavo.
Al tribunale tradizionale, l’Areopago che esercitava il controllo sulle leggi (nomofulakiva) , regolava gran parte degli affari di stato, e al quale potevano accedere solo i cittadini censiti nelle prime due classi, aggiunse i 600 giudici popolari dell’Eliea ai quali si poteva presentare appello ed erano eleggibili da tutte e quattro le classi.
In quest’organo, e nell’Assemblea, che eleggeva i magistrati con suffragio universale, sta l’origine della democrazia.
Dopo la pubblicazione delle leggi, Solone partì, “per non essere costretto ad abrogarne nessuna, e per curiosità teoretica”, afferma Erodoto (I, 30). Andò in Egitto presso il faraone Amasi, e a Sardi, da Creso. Nel frattempo gli Ateniesi si divisero di nuovo in fazioni: Megacle Alcmeonide capeggiava i Parali (quelli della costa), Licurgo i Pediei della pianura, e Pisistrato i montanari, quasi tutti teti, i più ostili ai ricchi. Quando Solone tornò ad Atene non poté impedire che Pisistrato il quale “aveva qualcosa di seducente e amabile nel conversare” (Plutarco, Vita di Solone , 29), con l’astuzia e con la forza si impadronisse del potere facendosi tiranno (nel 560 la prima volta, fino al 555, poi, dopo un esilio decennale, dal 545 fino alla morte avvenuta nel 527 a.C.).
L’idea guida della costituzione e della poesia soloniana è quella della giusta misura o moderazione: lo ricaviamo anche dal racconto del suo incontro con Creso che si trova nel primo libro delle Storie di Erodoto (I, 30-33) e nella Vita di Plutarco. Quando il pacchiano re barbaro gli fece vedere i suoi cospicui tesori e gli chiese se conoscesse qualcuno più felice di lui, Solone nominò personaggi non famosi e non ricchi, ma “belli e buoni”. Creso lo giudicò “strambo e zotico”, tuttavia volle domandargli se lo mettesse in qualche modo nel novero degli uomini felici. E Solone rispose:
“Ai Greci, o re dei Lidi, il dio ha dato di essere misurati (metrivw” e[cein) in tutto, e, per questa misuratezza (uJpov…metriovthto” ) ci tocca una saggezza non arrogante ma popolare, non regale né splendida “(Plutarco, Vita , 27).
Lì per lì Creso non comprese, ma poi, una volta finito sul rogo, gridò tre volte “O Solone”, poiché aveva capito che la sua felicità era stata solo parola e opinione, fama e parvenza.
Adesso però è tempo di leggere i versi.
Partiamo dall’Elegia così detta alle Muse :
“Splendide figlie della Memoria e di Zeus Olimpio,
Muse Pieridi, ascoltate la mia preghiera:
concedetemi il benessere (oilbon) da parte degli dei beati, e di avere una buona/
reputazione (dovxan eicein ajgaqhvn) da parte di tutti gli uomini sempre;
in modo che così possa essere dolce per gli amici e amaro per i nemici,
rispettato da gli uni, temibile a vedersi per gli altri. 6
Ricchezze desidero averne, ma possederle ingiustamente non voglio: in ogni caso più tardi è solita arrivare Giustizia (pavntw~ u{steron hlqe divkh). 8
La ricchezza che danno gli dèi, è solida
per l’uomo dall’ultimo fondo alla cima;10
quella cui vanno dietro gli uomini spinti dalla prepotenza (uJy j u{brio~), non arriva/
con ordine (kata; kovsmon), ma siccome obbedisce alle azioni ingiuste,
segue di malavoglia, e presto vi si mescola l’accecamento (ajnamivsgetai aith). 13
L’inizio nasce da piccola cosa, come il principio di un incendio,
e dapprima è insignificante, ma l’esito è penoso15;
infatti non durano a lungo le opere della prepotenza per i mortali.
Ma Zeus di tutte le cose vede il termine, e all’improvviso
come tosto disperde le nuvole il vento
primaverile che dopo avere sconvolto gli abissi del mare
molto ondoso, infecondo, e dopo avere devastato le opere belle dei campi/
nella terra che produce frumento, arriva alla sede scoscesa degli dèi,
il cielo, e fa vedere di nuovo il sereno;
risplende la potenza del sole sulla pingue terra
ed è bella, poi non è più possibile vedere nube alcuna.
Tale è il castigo di Zeus, ma non per ciascuna occasione 25
egli è collerico come un uomo mortale,
eppure mai nell’eternità gli è sfuggito chiunque abbia
un animo malvagio, e in ogni modo alla fine si manifesta;
ma uno paga il fio subito, un altro dopo; alcuni possono evitare
personalmente, che li colga, sopraggiungendo, il fato divino, 30
ma esso giunge in ogni modo più tardi, e pagano quelli che non sono responsabili delle azioni/
o i figli di questi o la stirpe in futuro.
Noi mortali così pensiamo, ugualmente il capace e l’incapace:
che scorra bene l’aspettativa che ciascuno ha personalmente,
prima di patire qualche blocco: allora quindi si geme; ma fino a questo momento/
ci dilettiamo a bocca aperta di vane speranze.
E chiunque sia schiacciato sotto il peso di malattie dolorose,
questo considera: come tornerà sano;
un altro che è vile crede di essere un uomo valoroso
e bello, pur avendo un aspetto non gradevole; 40
e un altro se è senza denaro e lo costringono i travagli della povertà
crede che in ogni modo acquisterà molte ricchezze.
Ci si affatica: chi in un modo, chi in un altro; uno va errando sul mare
pescoso nelle navi desiderando portare a casa
un profitto, sbattuto da terribili venti,
senza nessun riguardo per la vita;
un altro tagliando la terra ricca d’alberi, serve
per un anno, quelli cui stanno a cuore gli aratri ricurvi;
un altro esperto nelle opere di Atena e di Efesto
industrioso con le mani si guadagna la vita,
un altro dopo avere appreso i doni dalle Muse dell’Olimpo
conoscendo la misura dell’amabile sapienza,
un altro rende profeta il sire Apollo che saetta da lungi
e conosce un male che viene da lontano per l’uomo,
al quale si accompagnano ancora gli dèi, ma in ogni caso il destino/
né un auspicio né sacrifici lo terranno lontano.56
altri con l’arte di Peone dai molti farmaci
sono medici, e anche per loro non c’è nessun compimento:
anzi spesso da un piccolo dolore nasce una grande sofferenza,
e nessuno potrebbe lenirla dando medicine calmanti;
un altro invece gravemente tormentato da malattie terribili
toccandolo con le mani lo rende subito sano.
E’ il destino che porta ai mortali il bene ed il male 63
e i doni degli dèi immortali sono inevitabili. 64
In tutte le azioni certo è insito un rischio,
e nessuno sa, cominciata un’impresa, dove andrà a finire. 66
Ma chi tenta di fare il bene, senza prevedere
piomba in un grande e grave accecamento,
invece a chi agisce male il dio in tutto concede
un buon successo, rimedio della stoltezza.
Per gli uomini non è posto nessun confine manifesto della ricchezza:
infatti quanti di noi ora hanno abbondantissimi mezzi di vita,
si affannano il doppio: chi potrebbe saziare tutti?
I guadagni certo ai mortali li concedono gli immortali,
ma da loro si sprigiona l’accecamento (a[th d’ ejx aujtw`n ajnafaivnetai), che quando Zeus
invia a punire, va ora da uno, ora da un altro“(76).
Solone dunque prega le Muse e chiede loro benessere, purché ottenuto con la giustizia, e buona reputazione. La Pieria, da dove provengono queste dèe è una regione della Macedonia.
Vedremo che Euripide nella Medea rivendicherà alla sua terra il luogo di elezione delle Muse che nell’aria luminosissima dell’Attica “generarono la bionda armonia”(v.832).
Per quanto riguarda la giustizia, divkh, il legislatore ateniese è considerato uno dei suoi profeti. Essa in Omero era ancora Il diritto (qevmi~) di una società aristocratica nella quale le norme sono concepite come espressione di una volontà soprannaturale e sono fatte osservare, sono imposte (cfr. tivqhmi) da una classe superiore il cui predominio deriva da un’investitura divina.
Ma già nel VII secolo, cominciano gli elogi di una giustizia nuova ( la divkh appunto), mostrata a tutti (cfr. deivknumi), tale che comprende l’idea dell’uguaglianza.
Esiodo per primo dà voce a questa esigenza. Egli nel poema più recente (Opere , vv. 202 e sgg.) ne fa l’apologia raccontando la favola dello sparviero e dell’usignolo. La legge del più forte che annienta il più debole vale per gli animali, non per gli uomini. Viene santificata la giustizia che trionfa sulla prepotenza. Dove manca dike imperversano peste, fame e sterilità. C’è un invito a evitare i giudizi contorti poiché procura il male a se stesso chi lo prepara per un altro, e il progetto malvagio è pessimo per chi l’ha progettato (Opere , vv.265-266).
La giustizia esiodea è una forza solo in parte umana e per molti aspetti sovrannaturale, ma essa già contiene una premessa di isonomìa (uguaglianza davanti alla legge) e moralità, anche se la piena scoperta e valorizzazione del cosmo morale avviene con Socrate, assassinato da un tribunale ateniese nel 399.
Con Solone comunque l’idea di giustizia progredisce e si politicizza, ossia entra nella costituzione della polis. Così, pur rimanendo alcunché di trascendente nella Giustizia del legislatore ateniese, essa si storicizza e perde qualche cosa del suo carattere mitico.
Civiltà di vergogna
Altro bene invocato nei primi versi è quello della buona reputazione (dovxa).
Siamo nell’ambito della civiltà di vergogna di Dodds (Culture of shame):” il bene supremo non sta nel godimento di una coscienza tranquilla, ma nel possesso della pubblica stima”( I greci e l’irrazionale, p. 30 ).
La più potente forza morale nota all’uomo omerico è il rispetto dell’opinione pubblica:”mi vergogno davanti ai Troiani e alle Troiane dal lungo peplo”, dice Ettore nei momenti risolutivi del suo destino (Iliade, XXII,105, e VI, 442).
Il cedimento alla pressione del conformismo sociale è caratteristica della cultura della vergogna dove per l’uomo è insopportabile perdere la faccia.
Questa cultura dunque è presente e viva in Solone, mentre dal Critone di Platone (44C e sgg.) vediamo che a Socrate non importa niente dell’opinione dei più. Critone gli dice che bisogna tenerne conto poiché la maggioranza è capace di compiere i più grandi mali, se uno viene calunniato da loro. E Socrate risponde: che ti importa caro mio, dell’opinione dei più? magari fossero capaci di compiere grandi mali, purché sapessero fare grandi beni.
Ma non sanno fare né l’una né l’altra cosa e operano a casaccio (poiou`si de; tou`to o{ti a}n tuvcwsi, 44d).
Una posizione del genere possiamo ritrovarla molti secoli più tardi in Un nemico del popolo (1882) di Henrik Ibsen il quale fa dire al dottor Stockmann: “Il più pericoloso nemico della verità e della libertà è la maggioranza, la maledetta maggioranza democratica…Chi forma in un paese la maggioranza, gli intelligenti o gli imbecilli?..Di imbecilli si trova una maggioranza schiacciante…La maggioranza ha la forza, ma non la ragione. Le verità della maggioranza sono rancide e putrefatte. Ecco dove nasce tutto questo scorbuto spirituale che dilaga e si diffonde in tutte le classi sociali! Chi adotta le opinioni dei superiori è un plebeo dell’intelligenza” (IV atto).
Nell’Alcesti di Euripide, Ferete, il padre di Admeto che diversamente da Alcesti, non vuole sacrificarsi per il figlio, sposta questa noncuranza della reputazione al di là della morte: “kakw’~ ajkouvein ouj mevlei qanovnti moi” (v. 726), una volta morto, non mi importa di avere cattiva fama. Admeto replica accusando il padre di essere un vecchio pieno di spudoratezza (ajnadeiva~ plevwn, v. 727).
Un’ altra parola da chiarire è a[th (v. 13 e v.75), accecamento e rovina. In Omero questa parola indica l’ostinazione cieca di Agamennone e di Achille che infatti Orazio (Odi , I, 6, 6) chiamerà “cedere nescius “, incapace di cedere. Egli, quando rifiuta le preghiere dell’ambasceria formata da Fenice, il suo educatore, Aiace, il più forte dell’esercito e Odisseo, il più intelligente, che gli offrono le scuse e i doni di Agamennone in cambio del suo ritorno in battaglia desiderato da tutti, oltrepassa i limiti umani (IX canto dell’Iliade). Allora il vecchio maestro lo ammonisce ricordandogli che l’Ate è gagliarda, forte di piedi, e va danneggiando gli uomini. La seguono le preghiere (litaiv), zoppe, rugose e bieche d’occhi, che tuttavia riparano i danni. Achille deve ascoltarle se vuole evitare gravi dolori.
Il Pelide non cede e solo dopo la morte di Patroclo capisce di avere sbagliato. Non ne valeva la pena, dice. “Io smetto l’ira” ( ejgw; pauvw covlon, Iliade, XIX, 67). Agamennone a sua volta ammette di avere ecceduto ma si autoassolve (ejgw; d ? oujk ai[tiov~ eijmi, v. 86) e dà la colpa a Zeus, alla Moira e all’Erinni che vaga nell’oscurità ( XIX, 87). Essi hanno gettato l’accecamento feroce dentro di lui. Ate che tutti accieca, dice, è la figlia maggiore di Zeus, e non si muove sul suolo, ma sulle teste degli uomini danneggiandoli.
In Solone, la responsabilità umana è cresciuta un poco, fatto del resto già riscontrabile nell’Odissea, ma rimangono gli elementi arcaici, con tutte le loro valenze magico-religiose.
L’ubrij
Per quanto riguarda la prepotenza (ubrij), questa diventerà la parola tragica per eccellenza e sarà spesso collegata alla figura del tiranno.
Sofocle nell’Edipo re (vv. 873-877) scrive:“La prepotenza fa crescere il tiranno, la prepotenza/se è riempita invano di molti orpelli/che non sono opportuni e non convengono/salita su fastigi altissimi/precipita nella necessità scoscesa…”- Ed Eraclito (fr.108 Diano):”u{brin crh; sbennuvnai ma’llon h] purkaihvn”, bisogna spegnere la prepotenza più che le fiamme di un incendio.
Settembrini, il buffo umanista de La Montagna Incantata di Thomas Mann distingue un’ uJvbri” buona da un’altra cattiva e santifica quella di Prometeo in quanto essa è amica dell’umanità:”Ma l'”Hybris” della ragione contro le oscure potenze è altissima umanità, e se chiama su di sé la vendetta di dèi invidiosi…questa è sempre una rovina onorata. Anche l’azione di Prometeo era “Hybris” e il suo tormento sulla roccia scita noi lo consideriamo il martirio più santo. Ma come siamo invece di fronte all’altra “Hybris”, a quella contraria alla ragione, all'”Hybris” della inimicizia contro la schiatta umana?”(p. 18 vol. II).
Interessante questa nota di Pavese in Il mestiere di vivere (18 ottobre 1942):”L’ubris è il conoscere un oracolo e non tenerne conto. Ma è fato (oracolo) anche l’ubris. Ciò che deve essere sia. Il coro constata questo”.
Il destino è ineludibile e imprevedibile
Rivediamo allora i versi 63-64 dei questa Elegia
E’il destino (Moi`ra) che porta ai mortali il bene ed il male 63
e i doni degli dèi immortali sono inevitabili (dw`ra d’ a[fukta). 64
Il senso del destino come male o bene ineludibile risalta anche nella storia di Erodoto relativa a Solone. Lo storiografo di Alicarnasso racconta che quando Creso, lo straricco re di Lidia domandò al saggio ateniese chi fosse l’uomo più felice del mondo, Solone rispose che i giorni di una vita umana sono mediamente ventiseimiladuecentocinquanta e l’uno di loro non porta affatto nessuna faccenda uguale all’altro. :” Così dunque l’uomo, o Creso, è del tutto in balìa degli eventi”. (pa’n ejsti a[nqrwpo” sumforhv, I, 32, 4).
E allora, Solone dà a Creso questa non-risposta :”A me tu appari molto ricco e vedo che sei re di molte genti: ma quello che tu mi domandavi, ancora non te lo dico, prima di venire a sapere che tu hai finito bene la vita” (I 32, 5.).
Mazzarino mette in rilievo un quesito ricorrente nell’opera di Erodoto :” l’unità dell’opera erodotea è dominata, appunto, da alcuni motivi centrali; motivi che commuovevano ed esaltavano la pubblica opinione di tutti i Greci. E con questa trama andranno spiegate le corrispondenze di più ampio respiro, che attraversano l’opera: il colloquio tra Creso e Solone nel lovgo~ lidio, al quale fanno eco le parole di Artabano a Serse (VII 46, 3-4) [3]. Dall’attuale primo libro, dunque, al settimo si richiama questa domanda essenziale per il pensiero di Erodoto: “Son felici il ricco e il monarca? Perché il vivere può preferirsi al morire?” . A questa domanda rispondono i discorsi tra Creso e Solone, tra Serse e Artabano…anche Anassagora si sforzava di rispondere alla stessa domanda…secondo Anassagora il dotto soprattutto era felice” [4].
Per giunta il mortale è soggetto alla divinità, al punto che:”o{ ti dei’ genevsqai ejk tou’ qeou’, ajmhvcanon ajpotrevyai ajnqrwvpw/”(IX, 16, 4), quanto deve accadere da parte del dio è impossibile per l’uomo stornarlo [5]. Lo dice un persiano che prevede la sconfitta di Platea.
L’idea dell’impotenza dell’uomo di fronte alla divinità è una di quelle che accomunano Erodoto a Sofocle [6].
– Infatti Sofocle denuncia questa altalena degli eventi: nei suoi drammi si trova più volte l’immagine dell’ altalena fatale:” nell’Esodo dell’Antigone il messo sentenzia:”tuvch ga;r ojrqoi’ kai; tuvch katarrevpei-to;n eujtucou’nta to;n te dustucou’nt j ajeiv (vv.1157-1158), la sorte infatti raddrizza e la sorte butta giù/ il fortunato e il disgraziato via via. Nell’Edipo re il coro chiede ad Apollo:”intorno a te ho sacro timore: che cosa, o di nuovo/o con il volgere delle stagioni (“peritellomevnai” w{rai””) un’altra volta/effettuerai per me?”(vv. 155-157). In questo scorrere rapido dei giorni, nel girare vorticoso delle stagioni, avvengono mutamenti continui e alcune cose si ripetono, ma altre accadono inopinatamente.
Gli ultimi versi del dramma contengono questa sentenza : sicché, uno che sia nato mortale, non ritenga felice nessuno,/considerando quell’ultimo giorno a vedersi, prima che/abbia passato il termine della vita senza avere sofferto nulla di doloroso (“pri;n aj;n /tevrma tou’ bivou peravsh/ mhde;n ajlgeino;n paqwvn”, Edipo re, vv.1528-1530).
L’imprevedibilità del futuro è denunciata anche da Deianira all’inizio delle Trachinie (vv. 1-3) :” esiste un antico detto (“Lovgo” me;n e[st j ajrcai’o””) diffuso tra gli uomini: che non puoi conoscere la vita di un uomo prima che uno sia defunto, né se per lui sia stata buona o cattiva”.
Il pur critico Euripide non confuta la massima della imprevedibilità della sorte, anzi la ripete
Nell’Ippolito il coro sentenzia:” oujk oid j o{pw” ei[poim j a]n eujtucei’n tina-qnhtw’n: ta; ga;r dh; prw’t j ajnevstraptai pavlin”(vv. 981-982), non so come potrei dire che alcuno dei mortali è fortunato: infatti le posizioni più alte vengono rovesciate.
Nell’Ecuba la vecchia regina, dopo il sacrificio-assassinio della figlia Polissena constata la vanità della ricchezza e del potere, quindi conclude:”kei’no” ojlbiwvtato” ,- o}tw// kat j hmar tugcavnei mhde;n kakovn”(vv. 627-628), il più fortunato è quello cui giorno per giorno non tocca nessun male.
Negli Eraclidi il Messaggero che porta la notizia della sconfitta di Euristeo conclude il suo racconto con questa sentenza derivata dall’insegnamento della sorte del persecutore abbattuto: “to;n eujtucei’n dokou’nta mh; zhlou’n pri;n a]n-qanovnt j i[dh/ ti~: w;~ ejfhvmeroi tuvcai” (vv. 865-866), non si deve invidiare quello che sembra avere successo, prima di averlo visto morto; poiché le fortune cambiano ogni giorno.
I versi 67-70 sembrano contraddittori rispetto alla linea di Solone e forse in origine non facevano parte di questa elegia, oppure costituivano un’obiezione attribuita a un interlocutore in disaccordo.
L’Eujnomivh
Un’altra elegia molto nota, e di contenuto in gran parte politico è quella così detta del Buon Governo (fr. 3 D) nella quale cresce la responsabilità dell’uomo relativamente al proprio destino. La traduciamo tutta e commentiamo i versi più significativi, ossia più accrescitori di conoscenza :
“La nostra città non andrà mai in rovina per destino
di Zeus e volontà dei beati dèi immortali:
infatti tale custode magnanima, figlia di padre potente
Pallade Atena le tiene sopra le mani.
Ma i cittadini stessi con la loro follia
vogliono distruggere la grande città sedotti dalle ricchezze,
e ingiusta è la mente dei capi del popolo, cui è destinato
soffrire molti dolori in seguito alla gran prepotenza:
infatti non sanno trattenere l’avidità né godere
con ordine le gioie presenti nella serenità del convito. 10
Ma si arricchiscono fidando in opere ingiuste
e non risparmiando le proprietà sacre né in alcun modo le ricchezze/
pubbliche, rubano per arraffare chi da una parte chi dall’altra
né osservano i venerandi fondamenti di Giustizia,
che, pur mentre tace, conosce il passato e il presente, 15
e con il tempo in ogni caso giunge a fare pagare.
Questa piaga ineludibile oramai arriva su tutta la città,
ed essa subito cade nella squallida servitù,
che risveglia la lotta dentro la stirpe e la guerra dormiente,
la quale distrugge l’amabile giovinezza di molti: 20
infatti per opera dei malevoli tosto la città molto amata
si rovina nei partiti cari agli ingiusti.
Questi mali nel popolo si aggirano: e dei poveri
molti giungono in terra straniera
venduti e legati con ceppi indegni. 25
Così il danno comune entra in casa a ciascuno:
né valgono più le porte del cortile a trattenerlo,
e salta oltre il recinto pur alto, e trova in ogni caso,
anche se uno sia rifugiato nel fondo del talamo.
Questi precetti l’animo mi spinge ad insegnare agli Ateniesi,
che il Malgoverno procura moltissimi mali alla città,
kaka; plei’sta povlei Dusnomivh parevcei
mentre il Buongoverno mostra ogni cosa ordinata e armonizzata 32
Eujnomivh d j eu[kosma kai; a[rtia pavnt j ajpofaivnei
e spesso mette i ceppi addosso agli ingiusti:
leviga le asperità, fa cessare l’insolenza, oscura la prepotenza,
dissecca i fiori nascenti dell’accecamento, 35
raddrizza i giudizi tortuosi, mitiga le azioni
superbe, e fa cessare le opere della discordia,
e fa cessare la rabbia della contesa terribile, e sono sotto di lui
tutte le cose tra gli uomini armonizzate e assennate” (pavnta a[rtia kai; pinutav).
Religione, e superstizione, greca e romana
Si può notare anche qui, a proposito di Pallade Atena, la dea eponima della città di Solone, il rapporto di fiducia e di confidenza che l’uomo greco riesce ad avere con la divinità, mentre il romano avrà una relazione più formalizzata con il dio, costellando la vita privata e quella statale di una serie di riti che garantivano la pax deum: ” Apud antiquos non solum publice, sed etiam privatim nihil gerebatur nisi auspicio prius sumpto” [7], presso gli antichi non si faceva nulla, non solo di pubblica ma anche di privato, se prima non si erano tratti gli auspici.
Era una specie di alleanza con gli dei che non si stabiliva attraverso la purezza morale, ma con le vittime espiatorie, talora anche umane: Tito Livio (XXII, 57) racconta che dopo il disastro di Canne (216 a. C.) si presero vari provvedimenti, e si compirono riti propiziatori con sacrifici, tra i quali:”ex fatalibus Libris sacrificia aliquot extraordinaria facta; inter quae Gallus et Galla, Graecus et Graeca in Foro bovario sub terram vivi demissi sunt “, secondo i Libri fatali furono compiuti alcuni sacrifici straordinari; tra i quali un uomo e una donna galli, un greco e una greca furono sepolti vivi nel Foro boario. Niente comunque si intraprendeva nella vita pubblica e privata se non si era sicuri dell’approvazione degli dei.
Lo storico greco Polibio che visse a Roma nel circolo degli Scipioni (II sec. a. C.) sostiene che la deisidaimoniva (6, 56, 7), la superstizione, se altrove può essere oggetto di biasimo, a Roma tiene insieme lo Stato:” kaiv moi dokei’ to; para; toi'” a[lloi” ajnqrwvpoi” ojneidizovmenon tou’to sunevcein ta; JRwmaivwn pravgmata” .
Essa venne istituita pensando alla natura del volgo. In una nazione formata da soli sapienti, sarebbe inutile ricorrere a tali mezzi, ma la moltitudine soggiace a sfrenata avidità, a ira violenta e bisogna trattarla con tali apparati e misteriosi timori. Il terrore degli dèi viene esagerato e drammatizzato nella vita pubblica e privata”.
Del resto “Si chiama Stato il più gelido di tutti i gelidi mostri…Io chiamo Stato il luogo dove si trovano tutti i bevitori di veleno, buoni e cattivi” [8].
Come sappiamo contro questa religio (superstizione) mostruosa si leverà la voce della ragione attraverso Lucrezio nel De rerum natura :”tantum religio potuit suadere malorum” , a delitti così grandi poté indurre la superstizione (I, 101).
Ma torniamo al Buon governo.
Solone ai vv.5 e sgg. attribuisce ai cittadini, e in particolare ai loro capi la causa della rovina comune.
Questa responsabilizzazione dell’uomo quale artefice del suo destino, comincia con il primo libro dell’Odissea, quando Zeus afferma il libero arbitrio degli uomini dicendo che essi incolpano gli dèi, ma è per la loro follia che soffrono dolori contro il fato (v.34).
Risale all’Odissea, e pure alle Opere e i giorni di Esiodo anche la correlazione presente in questa elegia tra la salute, sia fisica sia morale, del capo e quella della sua terra (vv. 32 ss.)
Del resto, secondo alcuni studi di antropologia tra i quali cito solo Il ramo d’oro di J. G. Frazer, tale credenza risale a miti e a riti più antichi di Omero, e sono confluiti anche in altre culture, non esclusa quella cristiana. Questo significa che Il governante è il demiurgo, quasi l’autore della sua gente: dalla impareggiabile potenza e dalla integrità di lui, dipendono la vita e il benessere della polis.
Infatti nell’Odissea (XIX, 108-114) leggiamo :”Raggiunge l’ampio cielo la tua fama,/ come quella di un re irreprensibile che pio, regnando su molti uomini forti,/tenga alta la giustizia; allora la nera terra produce/ grano e orzo, gli alberi si appesantiscono di frutti,/figliano continuamente le greggi e il mare offre i pesci,/per il suo buon governo (ejx eujhgesivh”), insomma prosperano le genti sotto di lui”.
L’altro lato della stessa concezione secondo la quale il bene e il male di un solo uomo ridondano in favore e in danno di un popolo intero , per il principio della responsabilità collettiva, lo troviamo in Esiodo (Opere, vv.240-244):”spesso anche un’intera città soffre per un uomo malvagio,/uno che si rende colpevole e architetta scelleratezze./Su di loro dal cielo il Cronide fa piombare grandi malanni,/fame e peste insieme,e le genti vanno in rovina,/le donne non fanno figli e le case diminuiscono”.
Se si pone mente al latino rex si deve pensare alla parentela di questa parola con il verbo greco ojrevgw, “tendo, stendo“. “La radice deriva dall’indoeuropeo *reg- che ha dato come esito in greco ojreg- (con protesi di oj- ) in latino reg-“[9] da cui rego, dirigo, regio, regione e rectus, diritto. Quindi “in rex bisogna vedere non tanto il sovrano quanto colui che traccia la linea, la via da seguire, che incarna nello stesso tempo ciò che è retto” [10]. Anche i ragazzi sanno che il rex deve agire recte: infatti, quando giocano, dicono: sarai re se farai bene: “at pueri ludentes ‘Rex eris ‘ aiunt/ ‘si recte facies” [11]. . Insomma il rex deve dirigere sulla retta via. Il re allora non può essere contorto. Nemmeno la virtù può esserlo: “et haec recta est, flexuram non recipit ” (Seneca, Ep. 71, 20), anche questa è diritta, non ammette piegatura.
Nel De clementia [12] Seneca ricorda a Nerone che è il principe a stabilire i buoni costumi per il suo Sato: “constituit bonos mores civitati princeps” (III, 20, 3).
La premessa è che la immensa multitudo dei cittadini illius spiritu regitur, illius ratione flectitur, è retta dal suo spirito, viene piegata dalla ragione di lui, mentre si spezzerebbe per i propri sforzi se non venisse sostenuta dalla saggezza del reggitore (III, 1, 5). Nella cooperazione tra il principe e lo Stato, questo costituisce la forza del corpo del quale Cesare è il caput (III, 2, 3).
Ricordo pure l’Oedipus senecano dove il protagonista si accusa dicendo “fecimus coelum nocens ( v.36), abbiamo reso colpevole il cielo. Nel Macbeth [13], un nobile scozzese, Lennox riferisce quanto si dice sia avvenuto nella notte dell’assassinio del re:”some say the earth was feverous, and did shake” (II, 3), la terra era febbricitante e ha tremato.
Quindi un altro nobile, Ross, fuori dal castello del delitto fa notare a un vecchio che il cielo, quasi sconvolto dal misfatto umano (as troubled with man’s act), minaccia la sua scena sanguinosa, e il giorno è buio come la notte. Infatti, risponde l’old man:” ‘Tis unnatural, Even like the deed that ‘ s done” (II, 4), è innaturale, come l’azione che è stata perpetrata. In questi ultimi due esempi la contaminazione “oltrepassa la luna” [14].
Questo topos vale anche per il costume femminile: il cattivo esempio che le donne importanti danno a tutte le altre , viene biasimato da queste parole di Fedra nell’Ippolito di Euripide: ” wJ~ o[loito pagkavkw~-h{ti~ pro;~ a[ndra~ h[rxat j aijscuvnein levch-prwvth quraivou~ (vv. 407-409), fosse morta malamente colei che per prima disonorò i letti di casa con uomini esterni. Infatti, continua, questo male ha cominciato a propagarsi dalle case nobili: “ejk de; gennaivwn dovmwn” (v. 409). Quando le turpitudini (aijscrav) sono reputate belle dalle persone di alta condizione, certo sembreranno belle anche al volgo (vv. 411-412).
Tale idea non manca nella letteratura italiana là dove si conserva il succo della tradizione classica, anche quando questo sia stato assimilato da un organismo cristiano. Faccio l’esempio di Dante, Purgatorio XVI, 103-105:”Ben puoi veder che la mala condotta/è la cagion che il mondo ha fatto reo/e non natura che in voi sia corrotta”.
Erasmo da Rotterdam utilizza questo topos nell’Elogio della follia [15]: ” al’iorum vitia neque perinde sentiri neque tam late manare; principem eo loco esse, ut si quid vel leviter ab honesto deflexerit, gravis prot?nus ad quam plurimos homines vitae pestis serpat” (55), i vizi degli altri né si sentono allo stesso modo né si diffondono così ampiamente; il principe si trova in posizione tale che se in qualche maniera, perfino di poco, egli si scosta dalla rettitudine, subito una grave peste della vita si espande su un numero enorme di persone.
” Non vi è, nel destino tutto dell’uomo, sventura più dura di quando i potenti della terra non sono anche i primi uomini. Tutto diventa falso obliquo mostruoso, quando ciò avviene” [16].
Il culto di Divkh.
Non manca nell’ elegia di Solone il culto di Dike che viene realizzata dal Buongoverno e dai buoni governanti i quali conservano l’ordine sociale svuotando le rivendicazioni estreme dei poveri attraverso l’accoglimento delle richieste moderate.
Il cattivo governo invece, e l’egoismo dei nobili, spinge il popolo alla rivoluzione, a quella contesa terribile e distruttiva (e[ri~, v.38) che già Esiodo (Opere, 14 e sgg.) aveva distinto dalla buona, siccome questa sta alla base del progresso umano e sveglia al lavoro anche l’ozioso: grazie a lei il vasaio gareggia con il vasaio, il mendico con il mendico, e l’aedo con l’aedo (v. 26). La e[ri~ cattiva e deleteria fa crescere la guerra. La più crudele è distruttiva delle guerre è la stavsi~, la guerra civile che compie una trasvalutazione nichilistica. Perfino le parole cambiano il loro significato: le brutte diventano belle.
Ce lo ricordano Tucidide[17] e Sallustio[18]. Sarebbe interessante soffermarsi su questo.
Ma lo spazio a noi concesso e il tempo a disposizione ci fanno fretta. Vediamo un’ultima elegia (fr. 5 D) con la quale Solone difende la sua politica “di centro”, ossia aliena da estremismi che favorissero o deprimessero troppo una delle due parti in lotta:
“al popolo infatti ho dato tanto onore quanto basta,
senza levargli dignità e senza accrescerla troppo;
quelli che avevano potenza e si facevano ammirare per la ricchezza,/
anche per questi deliberai che non avessero nulla di sconveniente;/
ma stetti (e[sthn), avendo coperto gli uni e gli altri con un forte scudo,/
(ajmfibalw;n kratero;n savko~)
e non permisi che prevalessero né gli uni né gli altri contro giustizia./
Così il popolo nella maniera migliore può seguire i capi,
né troppo libero né troppo costretto:
infatti la sazietà genera prepotenza, quando grande prosperità si accompagna/
a quanti uomini non hanno la mente sana.
Nelle opere grandi è difficile piacere a tutti
Ergmasin ejn megavloi~ pa’sin aJdei’n calepovn (v. 11).
Infatti Solone al ritorno dai viaggi vide cadere la sua costruzione politica che a nessuno era piaciuta del tutto; ma i principi informatori della sua opera, la ricerca del giusto mezzo, l’aborrimento dell’ingiustizia e della prepotenza, sono rimaste pietre miliari della cultura e della poesia greca.
Eschilo è un altro profeta della Giustizia (e del compromesso come ricerca della conciliazione)
Il culto della giustizia e il rifiuto di ogni eccesso, a cominciare dal lusso, si trova in Eschilo che nei Sette contro Tebe (del 467) biasima la smisurata iattanza degli attaccanti e l’eccessivo, troppo querulo spavento delle donne, mentre il difensore Eteocle che offre il suo destino di morte alla salvezza della patria, costituisce la giusta via di mezzo, piena di coraggio e dignità.
Discepolo di Solone è anche il democratico re Pelasgo delle Supplici ( anno 463?) che fa dipendere le sue decisione dalle deliberazioni del popolo:” né senza il popolo agirei, anche se sono re (vv.398-399), e scoraggia lo straparlare delle Danaidi dicendo:”la città non ama i lunghi discorsi”(v.273).
Così l’Agamennone (anno 458), cerca di opporsi al lusso dei tappeti di porpora, offertigli ingannevolmente al re da Clitennestra (v.910), poiché questi significano, non sangue e omicidio come per lo spettatore conscio, bensì mollezza, barbarismo, superbia ed effemminatezza (vv.918 e sgg.). Agamennone crede che il dono più grande di dio sia non pensare in maniera cattiva” to; mh; kakw’~ fronei’n-qeou’ mevgiston dw’ron (v. 927-928). Cattive per Eschilo come per Sofocle sono la dismisura e la prepotenza.
Alla fine dell’Orestea, la religione più antica, patriarcale, quella delle Erinni, e la patriarcale di Apollo si concilieranno all’insegna della protezione di Atene.
Nei Persiani (del 472) troviamo un anatema dell’ ubrij maledetta come la mala pianta che”quando fiorisce dà per frutto una spiga di accecamento, donde si falcia una messe tutta di lacrime”(vv.821-822).
Nell’Agamennone troviamo l’idea che dalla ricchezza rifugge la giustizia la quale”brilla nelle case dal povero fumo e onora la vita onesta”( divka lavmpei me;n ejn-dusksvpnosin dwvmasin,-tovn t j ejnavsimon tivei-bivon (vv.773-776).
Già Solone, si ricorderà, non era stato preso dalla vertigine davanti alle smisurate ricchezze di Creso. Nelle Eumenidi , la terza tragedia della trilogia del 458 (la seconda è le Coefore ), le stesse Erinni, nemiche dell’ordine statale e patriarcale, divinizzano la Giustizia ammonendo:”Rispetta l’altare di Dike e non prenderlo a calci con piede ateo, poiché dopo incombe la pena”(vv. 539-541).
Concludiamo con i versi forse più famosi di Solone: quelli con i quali il legislatore replica a Mimnermo, il quale aveva auspicato che a sessant’anni lo cogliesse il destino di morte, senza malattie e affanni dolorosi (fr. 6 D.). Ebbene il legislatore insorge “contro la raffinata stanchezza pessimistica che vuol già fare punto a sessant’anni”[19], e risponde
“Ma se ora finalmente vuoi darmi retta, togli questo verso,/
e non essere invidioso, per il fatto che ho pensato meglio di te,/
e cambialo, arguto cantore, e canta così:
ottantenne mi colga il destino di morte”.
Né incompianta mi giunga la morte, ma ai cari
io lasci morendo dolori e gemiti.
Invecchio imparando sempre molte cose ” (fr.22 D.).
Cicerone nelle Tusculanae (I, 49) ha tradotto alcuni di questi versi in “mors mea ne careat lacrimis, linquamus amicis maerorem, ut celebrent funera cum gemitu “, la mia morte non manchi di lacrime, lasciamo agli amici il dolore, perché affollino il funerale piangendo.
In questi distici soloniani troviamo una concezione ottimistica della vita che è riscontrabile anche negli altri poeti che credono nella giustizia e nell’ordine del mondo. Il vivere degli uomini è duro e travagliato (“Nessun uomo è felice. Carichi di fatica sono tutti i mortali sotto il sole”, trovo in Jaeger, p.280, citato come fr.15 ) ma può essere nobile e significativo se è impiegato per il bene della comunità. “Per Solone”, scrive ancora Jaeger, “invecchiare non è un doloroso estinguersi a poco a poco. L’inestinguibile vigor giovanile fa ogni anno metter nuovi fiori all’albero ancor verde della sua felice esperienza”.
Alla vita non mancano le gioie, come leggiamo nel fr. 13 D.:
“Beato chi ha fanciulli che ama e cavalli solidunghi
e cani da caccia e un ospite di terra lontana”, versi tradotti, pudicamente, da Pascoli in Solon dei Poemi Conviviali (1905):”Solon, dicesti un giorno tu: Beato/chi ama, chi cavalli ha solidunghi,/cani da preda, un ospite lontano”. Ho citato questa traduzione perché può essere un esempio di come i Greci vengano manipolati, tante volte “evirati” come denuncia Nietzsche da filologi o traduttori.
La sana risposta di Solone a Mimnermo sul valore della vita anche dopo i sessant’anni ci induce a un caloroso e convinto elogio della vecchiaia.
Per rendere omaggio a quella di Solone citiamo intanto alcune parole di Carlotta a Weimar di Thomas Mann :”è la fede della nostra giovinezza, quella che in fondo non perdiamo mai. Constatare che tale fiducia ha resistito, che siamo restati gli stessi, che l’invecchiare è fenomeno fisico esteriore incapace di influire sulla perennità del nostro intimo io, di questo pazzo io che trasciniamo attraverso ai decenni…Era una cosiddetta vecchia signora, si definiva ella stessa così, e viaggiava..ma ecco che lì distesa sentiva il cuore battere come una ragazzina pronta ad una grossa birichinata”[20].
Ma un bell’elogio dell’età provetta si trova già nel terzo canto dell’Iliade, quando Menelao chiede la presenza di Priamo perché stringa i patti in persona (o[fr j o{rkia tavmnh/-aujtov”, 105-106) poiché i figli sono arroganti e infidi (ejpeiv oiJ pai’de” uJperfivaloi kai; a[pistoi, 106) e i cuori dei più giovani svolazzano sempre (“aijei; d j oJplotevrwn ajndrw’n frevne” hjerevqontai”, 108), mentre il vecchio vede il prima e il poi, insomma ha la visione d’insieme (” a{ma provssw kai; ojpivssw-leuvssei“, III 109-110) e capisce quello che è meglio per gli uni e per gli altri.
Giovanni Ghiselli