Elisa Prearo
27 Gennaio 2019Luigi O. Rintallo
27 Gennaio 201910 Luglio 1976
di Gabriele e Laura Primativo
Era il 10 Luglio del 1976, verso mezzogiorno, il luogo era quello dello stabilimento chimico ICMESA di Meda, vicino Seveso; quel che avvenne fu l’improvvisa fuoriuscita di una nube tossica contenente diossina.
Durante la produzione consueta di triclorofenolo, un fungicida, avvenne una reazione incontrollata che fece scoppiare le valvole di sicurezza del serbatoio di un reattore, l’A-101, rilasciando il micidiale vapore chimico nell’atmosfera. Il vento fece il resto, disperdendo da subito la nube tossica in direzione Est: la diossina iniziò così a generare i suoi effetti catastrofici, colpendo gli abitanti della zona, ma rendendo anche inabitabile il territorio su cui si andava depositando.
Undici comunità nella campagna tra Milano ed il Lago di Como vennero direttamente colpite dalla nube tossica. I quattro municipi più colpiti, oltre a Seveso, la località più danneggiata in assoluto, furono quelli della stessa Meda, di Desio e di Cesano Maderno.
La zona dell’incidente venne presto divisa in tre aree, organizzate grossolanamente a seconda del livello di inquinamento: area A”molto inquinata, area B” poco inquinata, ed area C” di rispetto.
Dopo quattro giorni dall’incidente le foglie degli alberi ingialliscono e cadono, inizia la moria di galline, uccelli e conigli.
Nell’area interessata vivono circa 100mila persone e si verificano i primi casi di intossicazione nella popolazione.
Il 15 luglio il sindaco di Seveso emanò un’ordinanza di emergenza: divieto di toccare la terra, gli ortaggi, l’erba e di consumare frutta e verdure, animali da cortile, di esporsi all’aria aperta; Si consiglia un’accurata igiene della persona e dell’abbigliamento.
Il 16 luglio ci furono i primi ricoveri ospedalieri: uomini e donne intossicati.
Il 18 luglio parte un’indagine dei carabinieri del comune di Meda e il pretore decreta la chiusura dello stabilimento; si procede all’arresto del direttore e del vicedirettore della fabbrica per disastro colposo.
Gli operai dell’ICMESA si rifiutarono a quel punto di continuare a lavorare presso lo stabilimento.
Ma ancora il 23 luglio dalla prefettura non era stata presa nessuna decisione su come far fronte all’emergenza.
L’intera zona era stata nel frattempo militarizzata, reticolati sono posti per delimitare le zone pericolose e solamente dopo qualche giorno dall’incidente, quando ormai i danni erano evidenti, gli abitanti della zona A vennero evacuati: il 26 luglio tutte le persone che abitavano nell’area circostante l’impianto lasciarono le proprie abitazioni per essere ospitate in un residence e motel.
In molti, a centinaia, erano già stati esposti alle conseguenze negative della nube tossica.
I casi d’intossicazione aumentano di giorno in giorno, i più colpiti sono i bambini. Si dà nome a una malattia allora quasi sconosciuta: la cloracne, il sintomo più eclatante dell’esposizione alla diossina, che colpisce la pelle, soprattutto del volto e dei genitali esterni, se l’esposizione è prolungata si diffonde in tutto il corpo e aumentano i ricoveri ospedalieri tra la popolazione di Seveso, Meda, Desio e Cesano Maderno; nelle donne incinte si diffonde la preoccupazione per gli effetti della contaminazione sui futuri nascituri e molte decidono di interrompere la gravidanza.
Oltre a ciò, si ebbero circa tremila tra animali domestici ed animali di fattoria morti e settantamila macellati per impedire alla diossina di immettersi nella catena alimentare.
Come furono affrontati e risolti questi problemi? Che cosa accadde esattamente dopo l’emergenza?
Quel che accadde a Seveso sollevò problemi drammatici,che andavano ben al di là del semplice dibattito sulla sicurezza degli impianti industriali: in gioco vi erano problemi che riguardavano
la salute delle persone e dello stesso territorio…
Da una parte alcuni “esperti” tendevano a tranquillizzare tutti sminuendo gli effetti della diossina, dall’altra parte la televisione e i giornali continuavano a mostrare filmati e foto di bambini ricoverati in ospedale con i piccoli volti coperti da estese macchie rosse e le zone contaminate dove si aggiravano uomini in tute bianche sigillate che raccoglievano campioni di terreno e bruciavano carcasse di animali.
Il risultato concreto fu di privare quella gente, combattuta fra opposte versioni, di ogni certezza.
Accadde dunque che fin dalle prime settimane ci fu chi, abbracciando la tesi dell’incidente non prevedibile, si prodigò alla sua minimizzazione: si arrivò a dire che non era successo nulla di grave, addirittura che la diossina non fosse neppure velenosa.
Molti apparati dello Stato, ministri, autorità locali, politici, lavorarono PER EVITARE che la popolazione venisse a conoscenza della verità.
Alcuni giornali scientifici, come The Lancet, pubblicarono scritti a favore della tesi dell’innocuità della diossina; nella vicinissima Svizzera nessun quotidiano parlò mai del disastro; alcuni ricercatori, come il celebre Lorenzo Tomatis, all’epoca direttore del massimo ente comunitario di ricerca sul cancro, lo Iarc di Lione, furono invitati a smetterla di denigrare una società al disopra di ogni sospetto come la Hoffmann-La Roche, la società amministratrice degli stabilimenti di Seveso.
Quel che invece oggi si sa è che quello di Seveso non fu affatto un incidente non prevenibile o non prevedibile. Il dolo è anzi stato accertato.
Il disastro di Seveso ebbe un effetto particolarmente traumatico sulle popolazioni locali proprio perché la sua serietà fu riconosciuta solamente con colpevole ritardo. In molte circostanze si preferì glissare sulla gravità e sulle possibili conseguenze dell’evento, piuttosto che rischiare di far esplodere la crisi delle istituzioni regionali.
A ciò si aggiungeva la paura, il senso di contaminazione, un’angoscia montante che investi anche i rapporti sociali ed economici.
Molte comunità si videro rifiutati dal mercato i loro prodotti agricoli perché vicine al luogo del disastro, anche laddove non vi era effettivamente rischio.
In molte persone l’immagine della diossina divenne simile a quella della radioattività: si trattava di una sostanza invisibile, nociva anche in quantità molto basse, e veniva utilizzata in guerra come arma militare…
Si è ipotizzato, a tal proposito, che proprio a Seveso si producessero armi chimiche militari.
Nella realtà, all’ICMESA si produceva triclorofenolo altamente diossinato. La diossina di Seveso, avendo proprietà altamente cancerogene, non poteva servire per ciò che la Givaudan, un altra committente dell’impianto, sosteneva di produrre: disinfettanti ospedalieri e prodotti cosmetici. Inoltre, il prodotto era assemblato a Seveso ma venduto in Svizzera, per essere poi girato negli Stati Uniti dove, con molte probabilità, veniva miscelato con altri composti chimici fino a farlo divenire il micidiale Agent Orange, un defoliante che produce effetti mostruosi sul corpo umano e che tanta, drammatica diffusione ha avuto nella guerra del Vietnam.
Le varie inchieste che hanno portato a questa ipotesi non hanno in fondo mai trovato ufficiale smentita.
Prima di Seveso, in fondo, c’erano già stati altri disastri, altre morti, altri corpi storpiati ed habitat contaminati, come nel caso della MONSANTO, negli Stati Uniti, nel 1949, della BASF in Germania, quattro anni più tardi, della DOW CHEMICAL, ancora negli Stati Uniti, nel 1960, o della PHILIPS DUPHAR, nei Paesi Bassi, anno 1963.
Tutti questi incidenti produssero gravi malattie tra le persone colpite, molte delle quali croniche e trasmissibili alle nuove generazioni.
Ed i luoghi colpiti ancora oggi portano addosso, e porteranno a lungo, i segni delle contaminazioni.
Una conseguenza positiva del disastro fu l’impulso dato alla Comunità europea per l’elaborazione di un sistema nuovo di regolamentazione industriale.
“In seguito all’incidente di Seveso ed altri dovuti all’incuria dell’uomo in proposito di sistemi di sicurezza di impianti chimici e consimili, la Comunità Europea emanò nel 1982 la direttiva n° 82/501 relativa ai rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate attività industriali.
La direttiva prevedeva determinati obblighi amministrativi e sostanziali riguardo all’atteggiamento da seguire nella gestione dell’esercizio di attività ritenute pericolose sulla base della tipologia di pericolosità dei materiali, e del quantitativo detenuto.
La direttiva viene recepita dall’Italia 6 anni più tardi con il DPR 175/88.”
Una parte centrale della direttiva era costituita dai riferimenti all’obbligo di una trasparente informazione pubblica riguardo gli incidenti industriali, nonché nuove misure di sicurezza da adottare nel caso di incidente.
Sembrava essere definitivamente lontani dai giorni di Seveso: all‘ambiguità ed al segreto si andava apparentemente sostituendo il riconosciuto bisogno di sapere.
Se poi le cose fossero state effettivamente così, lo si sarebbe potuto scoprire già qualche anno più tardi, durante una tragedia ancor più inquietante e misteriosa: quella che, nell’aprile del 1986, colpirà la centrale nucleare di Chernobyl.
ICMESA
Lo stabilimento ICMESA comincia la sua attività nel territorio del Comune di Meda nel 1947. Lo stabilimento produce prodotti farmaceutici ed è di proprietà di una multinazionale. Nel 1963 diventa di proprietà della Hoffman-La Roche. Da subito iniziarono le proteste degli abitanti della zona e le denunce per gli effetti che l’impianto aveva sull’eco-sistema della zona: gas maleodoranti che fuoriuscivano dai camini, l’inquinamento del torrente Certosa o Tarò. Ma tutte le denunce sugli effetti nocivi della fabbrica e le varie accuse furono rigettate dai dirigenti dello stabilimento e non vennero mai presi provvedimenti. Al momento dell’esplosione del reattore chimico si era già al corrente tra gli addetti, che con il surriscaldamento dei materiali di lavorazione si sarebbe formata diossina, ma si sapeva anche, che aumentando la temperatura i tempi di reazione chimica dei prodotti sarebbe diminuita (da 5 a 1 ora) e si avrebbe avuto più prodotto in meno tempo. Gli addetti sapevano che altri incidenti da codesti impianti, erano avvenuti nel tempo in altre nazioni, e sapevano anche dei loro effetti catastrofici sull’ambiente. Sapevano anche che il camino sopra il tetto dell’impianto era privo di abbattitore. Sapevano che i termometri per controllare la temperatura degli impianti erano insufficienti a controllare la reazione. Perciò l’incidente fu provocato dalla omissione delle più elementari norme di sicurezza per un impianto del genere situato vicino al centro abitato E nonostante questo “la fabbrica dei profumi” ( così come la chiamavano gli abitanti del luogo), ha continuato a funzionare per anni celando la sua pericolosità anche agli stessi operai che vi lavoravano.
La Diossina
“Diossina è un nome generico che indica vari composti tossici; il più noto, indicato con la sigla TCDD, si forma come sottoprodotto nella preparazione del triclorofenolo, sostanza utile a produrre erbicidi e battericidi.”
“La diossina è una sostanza altamente tossica in grado di provocare seri danni al cuore, ai reni, al fegato, allo stomaco e al sistema linfatico“.
Il composto si deposita sui terreni E non assolutamente biodegradabile né viene intaccato dai microrganismi presenti nel terreno. Penetra nell’organismo umano attraverso la respirazione, per contatto e con l’assunzione di cibo, soprattutto carne, pesce e latticini. Nei casi di esposizione a concentrazioni elevate, poiché si deposita nei grassi, è soggetta ad accumulo biologico. Nei topi da laboratorio provoca tumori, disturbi al sistema nervoso, anomalie genetiche . Ancora non è stato accertato quali possano essere gli effetti a lungo termine sull’uomo. Gli abitanti di Seveso e zone limitrofe sono ancora oggi soggetti da laboratorio per lo studio degli effetti della diossina. La diossina non uccise nessun essere umano al momento, ma distrusse l’equilibrio eco-biologico di una vasta aera di territorio. Si sospetta che a 30 anni di distanza il terreno sia ancora intriso di diossina nonostante lo stabilimento chimico sia stato interrato ed al suo posto ci sia ora il ” Bosco delle Querce” impiantato in seguito nella zona, con flora e fauna importata a segnare con un itinerario della memoria un evento da non dimenticare.
Il disastro provocò una destabilizzazione socio-economica di tutta l’area con enorme disagio per gli abitanti che dovettero abbandonare la loro terra, le loro case, il loro lavoro, gli animali. Rinunciare a tutto quello che avevano costruito o progettato per il loro presente e per il futuro. Non si coltivò più. Molte donne in gravidanza in quel periodo preferirono abortire e le coppie smisero di fare figli. Famiglie intere furono sradicate delle proprie radici e subirono, nei trasferimenti coatti, anche l’umiliazione di sentirsi emarginati dall’ignoranza della gente che non sapeva cos’era la diossina, e vedeva in loro un pericolo per la propria salute. 80.000 gli animali morti o abbattuti.
Un numero imprecisato di bambini rimarranno sfigurati dalla cloracne e porteranno sulla propria pelle gli effetti di questa micidiale sostanza con problemi psicologici che mineranno la loro vita.
La responsabilità ricadde in sede processuale sui dirigenti dell’impianto che vennero condannati nel 1983 per disastro colposo e lesioni. I 200 milioni in vecchie lire pagate dalla multinazionale svizzera per il risarcimento furono usati per la bonifica dei terreni più contaminati come la zona A di Seveso dove tutto era stato raso al suolo perché irrecuperabile.
I danni materiali e morali di questo disastro ecologico provocato dall’uomo restano incalcolabili.
Trent`anni dopo
…Il territorio
Fino al 1976 al posto del parco c’erano le case. Un intero quartiere che gli abitanti hanno dovuto lasciare abbandonando tutto. 736 gli abitanti evacuati e 37 la case demolite.
Un quarto di secolo dopo, la zona A, la più colpita, è diventata il «Bosco delle Querce», un parco abitato da lepri e fagiani. L’area, ora bonificata, è ricoperta da decine di migliaia di alberi e arbusti.
Oggi la natura si è riappropriata dei luoghi, ma il veleno è sempre presente, infatti nel parco di 43 ettari è stato sepolto il terreno contaminato della «zona A», incapsulato in due vasche sigillate di cemento e plastica, ricoperte da una spessa coltre di terra. La collinetta è sotto controllo costante: ogni litro d’acqua che ne fuoriesce è esaminato per rilevare tracce di diossina, uno dei veleni più potenti al mondo e praticamente indistruttibile. Diverse centinaia di litri d’acqua attendono in un contenitore bianco di essere filtrati e distillati.
La salute
Dato che gli effetti a lungo termine della diossina sugli embrioni erano ancora sconosciuti, alle donne incinte era stato consigliato di abortire. Negli anni dopo il disastro tutta la popolazione di una vasta zona (oltre 200.000 persone) è stata sottoposta a controlli medici regolari.
Dopo 30 anni, le conseguenze del disastro di Seveso sulla popolazione sono ancora pesanti: secondo uno studio, citato dall’Istituto Superiore di Sanità, nell’area contaminata sono cresciute neoplasie, diabete e malattie cardiocircolatorie e respiratorie.
Secondo gli studi, per le donne che abitano nella zona a più alta contaminazione, nelle immediate vicinanze della fabbrica dell`Icmesa, ad oggi è più alto il rischio di cancro al seno, così come risulta più alto anche il rischio di tumori linfatici e del sangue per tutti coloro che abitano i distretti limitrofi, anche meno contaminati.
A questi danni “a lungo termine”, si deve aggiungere un`incidenza 6,6 volte maggiore di disfunzioni tiroidee nei figli di quanti hanno abitato nelle zone contaminate, rispetto a quelli nati da persone vissute in zone lontane dalla fabbrica.
E’ stato rilevato un maggior numero di bambine fra i nascituri. Sembra infatti che la probabilità di mettere al mondo una femmina aumenti con la maggiore concentrazione di diossina nel sangue dei genitori, soprattutto dei padri.
MA gli scienziati NON sono tuttora unanimi sul legame diretto fra l’esposizione alla diossina e l’apparizione di tumori e malformazioni.
Bibliografia:
Internet, articolo di Matteo Liberti
Libro, Seveso vent’anni dopo Dall’incidente al Bosco delle Querce” – Fondazione Lombardia per l’ambiente –
Libro, Seveso 1976-2006″ di Nunzia Penelope