Giovanna Megna
27 Gennaio 2019Rosanna Mutinelli
27 Gennaio 2019L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso.
Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. […]
Sapere aude! abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! è questo il motto dell’Illuminismo”. I. Kant.
L’ illuminismo e la pena di morte della Prof.ssa Giovanna Megna
Con il termine Illuminismo” ci si riferisce a quel movimento che tra la fine del Seicento e la fine del Settecento si sviluppò in tutta Europa; tale corrente tese a rischiarare con i lumi” della ragione tutta la realtà e lottò contro ogni residuo di oscurantismo” medievale.
Scrive al riguardo D’Alembert :La nostra epoca ama chiamarsi l’epoca della filosofia”, ed è proprio la filosofia che, attingendo al razionalismo cartesiano della chiarezza e della distinzione delle idee poste a criterio supremo della vita secondo ragione, ha dato all’Illuminismo la sua insegna e il suo motto. Nel secolo XVIII questa entra nei salotti, domina le corti, sale sui troni, rinuncia a una specificità di espressione per meglio far presa sulla gente, arriva addirittura a compenetrare del suo spirito anche le masse, indirizzandole verso sogni luminosi” di ricostruzioni sociali, di rivendicazioni e finisce per tradursi in energia rivoluzionaria pura. Il movimento illuministico infatti, trova la sua prima esplicazione in Inghilterra dopo la rivoluzione del 1688 e più tardi si incarna nell’ideale che muove i rivoluzionari francesi dall’89 al 94 nella proclamazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino” degli stessi anni.
Di particolare importanza è la posizione di Robespierre, che nell’Assemblea costituente del 10 maggio 1791 argomentò due tesi contro la legittimità della pena di morte: essa è essenzialmente ingiusta e non è la più repressiva ed efficace di tutte. Secondo Robespierre Nello stato di natura l’uomo può uccidere il suo nemico che tenta di ucciderlo, e ciò è legittimo per la sua difesa, ma nello stato positivo i mezzi naturali devono essere sostituiti da pene giuridiche e dato che il grado della severità da usare verso un nemico si misura sulla forza di colui che si vendica, indubbiamente la società deve usare maggior dolcezza nelle pene di quanto debba fare un uomo isolato che si difende. E dal momento che quando una società deve giudicare una persona colpevole, questa è ormai posta ormai in condizioni di non poter più nuocere a nessuno, la pena di morte è oggettivamente ingiusta.
Robespierre, riallacciandosi poi alle posizioni di Montesquieu e Beccaria, afferma che nei paesi dispotici in cui sono applicate pene particolarmente severa ed atroce, i crimini sono nonostante tutto, molto frequenti; in poche parole l’efficacia della pena non dipende dalla sua severità.
Certo è che la sua posizione appare in contraddizione con gli avvenimenti che avrebbero avuto luogo negli anni successivi. Come si può conciliare la sua passione contro la condanna capitale alla Convenzione, con la sua condotta durante il periodo del Terrore” quando molte condanne furono eseguite senza regolare processo? Il fatto è che nel 1791 dominava in Robespierre l’ideale morale e umanitario, ma durante gli eventi convulsi della rivoluzione prevalse l’esigenza politica ed utilitaristica. Ma in fin dei conti questa contraddizione di Robespierre è la contraddizione di fondo di tutta la Rivoluzione francese: il conflitto tra gli ideali volti alla costituzione dello stato di diritto e la pratica politica spesso in contrasto con essi. E dunque il conflitto tra morale e prassi politica, ma nonostante tutto la Rivoluzione Francese rappresenta una tappa fondamentale per la realizzazione dei futuri programmi politico-istituzionali che dall’Ottocento al Novecento porteranno a compimento il modello politico dello stato parlamentare, fondato sul diritto.
Per comprendere l’innovazione giuridica portata avanti dall’Illuminismo, è utile analizzare lo scontro con la prassi del Settecento secondo la quale la pena capitale aveva un vastissimo ambito di applicazione, che può essere schematizzato nel modo seguente:
1) Delitti religiosi, come l’eresia, la bestemmia, la magia…
2) Delitti autentici in senso giuridico e tuttavia di lieve entità, come furto e falsificazione di monete.
3) Delitti più gravi, come quelli di sangue, di alto tradimento e di lesa maestà. Per questi crimini la pena capitale veniva accompagnata da tortura, che rendevano l’esecuzione più atroce e dolorosa.
Riguardo al primo caso citato, l’Illuminismo prese una posizione radicale, sostenendo una laicizzazione del diritto penale, che consiste nel separare l’ambito giuridico da quello religioso.
I delitti religiosi, quindi, in quanto comportavano né danni alla società né violazioni dei diritti altrui, secondo il pensiero illuminista non dovrebbero essere puniti in alcun modo.
In rapporto ai delitti autentici gli illuministi ritenevano che questi non dovessero essere puniti con la morte, in quanto vi era una sproporzione troppo forte tra la colpa commessa e questo tipo di castigo.
Nel caso dei delitti di sangue, se tutti gli illuministi si oppongono alla presenza dei supplizi, considerati lesivi della dignità umana, non c’è invece la stessa avversione nei confronti della pena di morte: per alcuni essa deve essere mantenuta nel caso dei delitti più gravi, come l’omicidio.
Beccaria è stato il primo ad opporsi alla pena di morte in sé.
Le argomentazioni intorno alle quali si è sviluppato il dibattito fra pro e contro sono quella contrattualistica e quella utilitaristica: la prima può essere portata sia a sostegno della pena sia contro di essa, a seconda dei termini entro i quali si ritiene sia avvenuto il contratto; c’è chi, come Beccaria, pensa che esso consista nella rinuncia da parte di tutti di una minima porzione di libertà, ed essendo essa minima non può certo comprendere il diritto alla vita.
Inoltre, se, sia sul piano morale che su quello giuridico l’uomo non ha il diritto di uccidersi, come può cedere proprio questo diritto ad altri? Chi, invece, sostiene la pena, come Rousseau, dice che il contratto ha per scopo la conservazione degli individui e se si vuole che per la nostra sia sacrificata la vita altrui, bisogna anche essere pronti ad offrire la propria, se necessario.
Ci sono anche motivazioni utilitaristiche: la pena di morte è utile perché, con la propria atrocità, funziona da deterrente. Invece gli abolizionisti fanno notare che non ha alcuna utilità in questo senso, perché, come dice Beccaria, non è l’intensità della pena a distogliere
dal compiere un delitto, ma la sua tempestività, estensione e certezza. Un filosofo che difende la pena di morte è Jean Jacques Rousseau. Nel suo libro,
Il Contratto Sociale, uscito due anni prima di Dei Delitti E Delle Pene, Rousseau confuta in anticipo la tesi di Beccaria (per cui nel contratto sociale non è ammissibile la pena di morte, in quanto nessuno rinuncerebbe volontariamente al proprio diritto alla vita), affermando: […] è per non diventare vittima di un assassino che si acconsente a morire se si diventa tali […]. Egli sostiene in pratica la validità della pena di morte perché ogni contraente, nella stipulazione del contratto, accetta che per il mantenimento delle condizioni di sicurezza sono necessari strumenti che comportano necessariamente dei rischi. Dice ancora Rousseau:
[…] D’altra parte, ogni malfattore, violando il diritto sociale, diventa per i suoi delitti ribelle e traditore della patria; egli cessa di esserne membro violando le sue leggi; anzi le fa guerra.
Allora la conservazione dello stato è incompatibile con la sua; bisogna che uno dei due perisca, e, quando si fa morire il colpevole, lo si uccide non tanto come cittadino ma come nemico. […] poiché un tale nemico non è una persona morale ma solo un uomo: ed è in questo caso che è diritto di guerra uccidere il vinto. […] Del resto la frequenza dei supplizi è sempre un segno di debolezza o di indolenza da parte del governo. Non vi sono mai cattivi che non si possano rendere buoni a qualche cosa. Non si ha diritto di far morire, se non colui che non si può conservare senza pericolo […]”.
(J. J. Rousseau, Il Contratto Sociale; ed. Einaudi, Torino, 1949, pp. 51- 53)
Come si vede Rousseau è approva la pena di morte, ma è altrettanto forte in lui una condanna dell’uso indiscriminato che se ne faceva ai suoi tempi, dato che si possono redimere molti dei criminali, o quantomeno renderli buoni a qualche cosa”, sfruttando un tema utilitaristico che sarà presente anche in Beccaria e Voltaire. Montesquieu, svolge una severa critica in primo luogo contro gli ambiti in cui viene applicata la pena di morte. In particolare Montesquieu si rivolge al problema dei delitti religiosi”, che per lui non sono punibili, perché per farlo si parte dall’idea di dover vendicare la divinità, la quale in realtà va solo adorata: se si iniziasse a punire secondo l’infinità di Dio allora i supplizi non dovrebbero avere mai fine, in quanto si dovrebbe misurare la loro intensità contro qualcosa di incommensurabile. Montesquieu continua tuttavia ad ammettere la condanna capitale, seppur in un ambito più ristretto e privata di tutti gli aspetti più barbarici che ad essa erano collegati all’epoca:
[…] E’ una specie di legge del taglione che fa sì che la società privi della sicurezza un cittadino che ne ha privato o che ne ha voluto privare un altro cittadino. Questa pena è tratta dalla natura della cosa, attinta nella ragione e nelle fonti del bene e del male. Un cittadino merita la morte quando ha violato la sicurezza a un punto tale che ha tolto la vita o che ha tentato di toglierla. Questa pena di morte è come una medicina per la società malata […]
(C Montesquieu, De l’Esprit des lois)
Va comunque ricordata la sua critica volta al sistema giuridico in generale, riprendendo una critica già sviluppata da Beccaria per cui la pena più efficace a fini preventivi non è la più crudele o la più severa, ma occorre piuttosto la certezza del castigo. Se si è sicuri di riceverlo, «otto giorni di prigione o una leggera ammenda colpiscono un europeo quanto la perdita di un braccio incute timore a un asiatico”.
Forse il più grande nemico della pena di morte in quanto tale, in epoca illuminista, fu Voltaire, il quale si batté in primo luogo per il principio della progressività della punizione:
[…] è altrettanto assurdo e crudele punire le violazioni degli usi acquisiti in un paese, i delitti commessi contro l’opinione comune e coloro che non hanno fatto alcun male fisico con lo stesso supplizio col quale si puniscono i parricidi e gli avvelenatori […]
La posizione di Voltaire contro la pena capitale si impostava soprattutto su basi utilitaristiche:
un condannato a morte non ha nessuna utilità sociale, né redime se stesso né fa nulla di utile per la società. Scrive:
[…] un impiccato non serve a nulla. Probabilmente qualche boia, altrettanto ciarlatano quanto crudele, avrà fatto credere agli imbecilli del suo quartiere che il grasso dell’impiccato guarirà dell’epilessia […]
[…] I supplizi inventati per il bene della società devono essere utili a quella società. E’ evidente che venti ladri vigorosi, condannati a lavorare alle opere pubbliche tutta la vita serviranno lo stato come pena, e che la loro morte fa comodo solo al boia […]
[…] il grande obbiettivo è di servire il pubblico, e senza dubbio un uomo dedicato per tutti i giorni della sua vita a salvare una contea dalle inondazioni o a scavare dei canali per facilitare il commercio rende un servizio maggiore allo stato che non uno scheletro che dondola da un palo, appeso con una catena di ferro […]
Ma questa è probabilmente una motivazione di carattere più strettamente politico, volta a dare motivazioni razionali ad una assemblea. Il valore più alto dell’Illuminismo sta però nella dignità attribuita alla vita umana, che possiamo riscontrare nei brani seguenti:
[…] Sta a voi signori, stabilire in quale caso sia giusto strappare una vita simile alla vostra a chi Dio labbia donata […]
[…] Quando la giustizia penale condanna un innocente è un assassinio giuridico e il più orribile di tutti. Quando si punisce con la morte un crimine che nelle altre nazioni prevede castighi più leggeri la giustizia penale è crudele e non politica […]
[…]Poco tempo fa ho visto impiccare una ragazza di diciotto anni di rara bellezza in una città molto ricca. Quale era stato il suo crimine? Aveva preso diciotto tovaglioli a una bettoliera, la sua padrona, la quale non le pagava affatto il salario. Qual è l’effetto di questa legge inumana che mette sullo stesso piano una vita preziosa e diciotto tovaglioli? E’ di moltiplicare i furti […]
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