Lettera a Francesco Vettori di Machiavelli – di Carlo Zacco
5 Agosto 2015La dedicatoria del Cortegiano di Castiglione – di Carlo Zacco
6 Agosto 2015
Castiglione – Il Cortegiano
E’un capolavoro del rinascimento italiano, ed opera tra l’altro fortunatissima a livello europeo, tradotta in varie lingue. Composta paradossalmente quando il sistema della corti italiano non era più nell’attualità di quello che sarebbe stato il progetto finale. Tanto più che la figura del Cortegiano qui raffigurata è una figura ideale, non realmente operante.
La genesi dell’opera
Una situazione unica. Di questo libro del Cortegiano noi abbiamo una situazione che è veramente peculiare. E su questo insiste, non a torto il Quondam perché fa notare che è un testo che ci dà una condizione estremamente ricca nella possibilità di costruzione della genesi, che ben difficilmente ci può essere data da un altro testo a nostra disposizione. Noi ci troviamo di fronte ad avere addirittura bel 5 manoscritti (a, b, c, d, L ) autografi o comunque molto vicini all’autore, dai primi abbozzi dell’opera fino ad arrivare alla stampa.
Le vicende biografiche
Composizione: 1508-1528. quest’opera fu iniziata, almeno da quanto ci risulta nei primi abbozzi, addirittura dal Castiglione di fatto nei primi anni dopo la morte di Guidubaldo da Montefeltro (Gubbio, 17 gennaio 1472 – Fossombrone, 11 aprile 1508): la morte di questi è un riferimento essenziale perché è la corte di Guidubaldo, la corte di Urbino, quella dove ha origine l’opera del Castiglione. E’ quella corte, e quel momento particolare della corte poco prima che morisse Guidibaldo, quando la corte di Urbino era nel suo massimo splendore, ad essere l’argomento della trattazione del Castiglione, della rappresentazione del Castiglione e della vera e propria messa in scena.
Reale – Ideale. Se l’argomento dell’opera è la formazione del perfetto cortegiano, ci viene data attraverso la rappresentazione eccellente della corte di Urbino e dei cortigiani in essa presenti, la rappresentazione in atto del perfetto cortigiano, il quale è al tempo stesso un ideale, essendo la perfezione non raggiungibile in re, nelle cose stesse, ma anche un ideale a cui ci si può approssimare, giungendo con questaapprossimazione al maggior grado possibile di perfezione ad un mondo eccellente come ci viene così rappresentato. Si tratta di una idealizzazione del mondo urbinate, che ci viene presentata nella dedicatoria però come una pittura della corte di Urbino, e ci vuole essere rappresentata come se fosse una pittura veridica della corte di Urbino, non una pittura fatta dalla grande arte di un autore come Raffaello. Non citato a caso: Raffaello fu un carissimo amico del Castiglione. Dunque non trasformata per arte ma così come può fare un pittore che non disponga degli stessi mezzi. E’ al tempo stesso una celebrazione che diventa una celebrazione di carattere memoriale.
La pre / postfazione. Se apriamo il Cortegiano però ci troviamo di fronte ad una situazione che può sembrarci paradossale: perché quella che ci si presenta come una dedicatoria che fa da prefazione è in realtà quella che in termini moderni definiremmo come una postfazione. Infatti siamo di fronte alla dedicatoria che presenta l’opera nel momento in cui essa sta per essere licenziata per la stampa. Questa stessa dedicatoria è posteriore alla conclusione della stesura del trattato. Teniamo presente che se i primi abbozzi risalgono immediatamente dopo la morte del duca Guidubaldo, quindi poco dopo il 1508, la fisionomia dell’opera, anche se non mancano ancora alcuni ritocchi ed aggiunte, è compiuta nel 1524: un opera che ha tre redazioni fondamentali e un genesi molto complessa. La dedicatoria viene scritta successivamente, ed è del 1527, non molto prima della stampa, quando appunti da lontano si stava occupando della stampa di questa opera.
Partenza / arrivo. Perché da lontano? Dove si trovava il Castiglione? Era in Spagna. E anche questo essere del Castiglione in Spagna è emblematico se noi pensiamo che il Castiglione parte, per così dire, come cortigiano della piccola Mantova (piccola ma importante), la corte gonzaghesca, e termina la sua vita come nunzio pontificio in Spagna, presso la corte di Carlo V. Questo ci permette bene di vedere la distanza dalla partenza all’arrivo: da una dimensione di una corte piccola, in un ambito locale in Italia, a quella che era allora la più grande corte europea, laddove sotto l’egida di Carlo V, che, ricordiamo, sotto di sé raccoglieva le due corone di Spagna e dell’Impero, si puntava nell’immagine che Carlo V dava, a rinnovare i fasti dell’impero universale: una prospettiva universale dunque, e una prospettiva europea.
La linea di sviluppo del testo. Nel Cortegiano questi mutamenti diprospettiva, da una locale, a una più ampiamente italiana ad una europea, possiamo quasi seguire i punti nodali dell’opera nella genesi del trattato. Una cosa in questo senso straordinaria proprio perché la possiamo vedere attraverso i manoscritti. Ora si potrebbe dire: c’è un’altro autore del 500 che ci mostra un cammino analogo: da una piccola corte, un po’ più importante di quella di Mantova cioè Ferrara, da una dimensione ferrarese, ad una dimensione italiana, a una dimensione europea; si tratta naturalmente di Ariosto, del quale abbiamo la possibilità di vedere questo percorso nelle tre redazioni che sono edite del Furioso.
Il dedicatario finale. Castiglione invece non segue lo stesso iter, ma lo possiamo ricostruire in quello che c’è nella genesi del testo: quando il testo esce noi lo abbiamo solo nella sua fase ultima, che è presentata a sua volta dall’autore nella sua postfazione al Reverendo ed illustre Signor Don Miguel de Silva: non è un caso che questo personaggio non sia italiano: egli non soltanto è un nobile illustre, è un portoghese vissuto al lungo in Italia, Vescovo di Viseo, e avrebbe avuto parecchi anni dopo la porpora cardinalizia; ma avrebbe avuto anche un compito significativo ed importante anche proprio dal punto di vista diplomatico e poetico: un personaggio importante che emblematicamente riassume la quintessenza di un cortigiano di alto stile a livello europeo. Oltretutto questo mostra bene il modo e la scelta del livello di interlocuzione prescelto dall’autore.
Il dedicatario originale: Alfonso Ariosto. Ma originariamente a chi era dedicato questo trattato? Ecco, qui ci sono diverse cose da dire: c’è una dedica che continua ad essere presente, e lo è come dedica proemio in ognuno dei 4 libri che costituiscono l’opera nella redazione definitiva, e che ci riportano in una dimensione ferrarese: Alfonso Ariosto, cugino di Ludovico. Alfonso però al tempo della scrittura della dedicatoria al De Silva era morto, così come erano morti per la stragran parte i personaggi rappresentati: si parte dalla morte di Guidubaldo che era quella che aveva indotto il Castiglione, come l’autore stesso ci dice, e si giunge ad un’altra morte eccellente, che era anche quella della duchessa. Questa prima parte della dedicatoria non è altro che un compianto memoriale che viene sulla penna del’autore nel momento in cui dice di aver ripreso in mano la propria opera per la stampa. E questo costituisce la prima sezione di questa postfazione.
La fase francese. In realtà nell’ambito del percorso compositivo c’è un aspetto di interesse, che per ora accenniamo soltanto: ad un certo momento nel 1515 in una fase compositiva di fatto in cui la prima redazione era conclusa, il cortigiano del Castiglione aveva anche un’altra dedica eccellente, oltre a quella dei quattro libri ad Alfonso Ariosto: era una dedica generale rivolta al re di Francia Francesco I: il giovane cavaliere vincitore Francesco primo: una figura che creò anche molti valori mitici di immaginazione nelle opere letterarie proprio perché era gioven, bello, cavaliere combattente. Un amante dell’arte e della letteratura; e ciò aveva un duplice senso per il Castiglione di allora che operava come cortigiano e diplomatico in più corti, ed era filo francese.
? le sorti della Francia. E d’altra parte la Francia aveva un peso con Francesco primo che sembrava imporsi per quello che riguardava le future sorti di Italia. Ma le sorti di Italia come sappiamo non sono certo favorevoli alla Francia.
Da filofrancese a filoimperiale. Ma ancora prima che venisse di fatto definitivamente sconfitto nel 1525(ma i combattimenti continueranno) nella battaglia di Pavia (Francesco primo sconfitto da Carlo V), ancora prima che si giungesse a questo evento che di fatto muta quello che poteva essere il percorso delle sorti d’Europa per quello che si aspettava la Francia, il Castiglione aveva già cambiato al sua posizione: era nunzio in Spagna, e la sua posizione era filospagnola e filoimperiale. Tra l’altro questa sua nuova posizione gli sarebbe costata non poco nei confronti di Clemente VII perché il Castiglione non si rese conto della svolta che stava intervenendo da un punto di vista militare, non se ne sarebbe reso conto negli sviluppi successivi nella battaglia di Pavia, né di quello che si stava preparando nel 1527 nel Sacco di Roma, quando Clemente VII fu fatto prigioniero. Da un punto di vista politico e diplomatico Castiglione pensava altro in relazione a Carlo V, ed avrebbe sperato altri sviluppi ed altri eventi.
Gratitudine verso un illustre scomparso. Il fatto che qui si rivolga a questo nobile cortegiano a livello europeo colloca la sua opera in un ottica europea che gli consente di presentare il suo libro a chi? Non aveva conosciuto la corte di Roma, quindi di mettere in questa prospettiva memoriale e di celebrazione anche il suo testo. Avevo detto che il Castiglione in questa prima parte rievoca il tempo della composizione e lo rievoca proprio in relazione alla figura di Guidubaldo, mettendo la sua opera sotto l’egida della dovuta gratitudine, del dono di gratitudine (vedi De Vita solitaria). Qui è un debito di gratitudine nei confronti di chi era scomparso e che era morto: Guidubaldo appunto, che appena scomparso lasciava ancora negli anni successivi, e questo poi si sarebbe prolungato permerito del Castiglione stesso, come si diceva allora «l’odore delle sue virtù».
? La rottura coi Gonzaga. Guidubaldo presso cui era stato accolto il Castiglione in anni molto difficili. Il Castiglione infatti aveva ad un certo punto dovuto lasciare Mantova in quanto era entrato in rotta di collisione col Signore di Mantova: e non è che un cortegiano potesse lasciare il proprio Signore così facilmente; questo comportava un vulnus, una ferita, un problema non da poco: in una qualche misura problema palliato perché cerano rapporti di parentela tra le corti italiane nella quale rientrava anche Urbino.
? L’accoglienza a Urbino. Ciò non toglie che il nostro Castiglione che era stato educato umanisticamente, aveva studiato alla corte del Moro a Milano, era letteratissimo e consoce bene latino e greco, ed era stato addestrato, com’era proprio dei cortegiani, ad essere uomo d’arme, cioè cavaliere; quando entra in rotta di collisione col Signore di Mantova trova ospitalità ad Urbino.
Cosa dice Castiglione circa la Redazione
Prefazione – I
Dalla prefazione. Uno dei grandi dei motivi di grande riconoscenza è proprio l’essere stato accolto ad urbino, ed aver potuto godere ad Urbino dell’amorevole compagnia di così eccellenti persone. E dunque aveva pensato, per l’eccellenza della corte di Urbino, per le grandi virtù di Guidubaldo, per il debito di riconoscenza di scrive subito la sua opera. E sostiene di fatto di avere subito scritto in pochi giorni quello che era l’origine del suo trattato, ma che, avendo avuto una vita molto travagliata, non era riuscito poi a portare in porto con una revisione del testo di cui fosse soddisfatto per poterlo stampare. E che cosa è successo? Ci racconta, ma non dobbiamo prenderlo alla lettera, che quando era in spagna viene a scoprire che circola la sua opera in una forma che non era stata approvata da lui: e questo è un fatto reale perché aveva mandato in visione il suo testo a diversi letterati in più momento, e tra gli altri lo aveva mandato ad una figura femminile importante, una donna nobile, letterata, di alto sentire, poetessa: Vittoria Colonna, ma gliel’aveva mandato in forma personale e privata; ella, nonostante avesse promesso di tenere riservato il libro ne aveva fatto trascrivere una gran parte. Sapendo che il suo libro girava in una forma che non era quella da lui autorizzata poiché non aveva avuto l’ultima mano, allora aveva preso la decisione di rivedere subito nel libro quel poco che il tempo gli consentiva, perché non poteva lasciarlo andare in giro in quella forma che avrebbe potuto essergli biasimata.
Cosa non dice della scrittura. In questo senso ci dà solo i due estremi della scrittura: ci fa credere insomma che avesse messo li, abbozzato una prima scrittura subito dopo la morte di Guidubaldo, non conclusa e non rivista in molti anni, circolante in questa forma che non era conclusiva, e allora, in fretta e furia, la prende in mano per rivederla e pubblicarla: quello che è vero, perché ci risulta, è l’inizio e la fine, perché in mezzo ci sta un percorso di scrittura ben altrimenti articolato. Ed è in questo momento che prendendo in mano il libro per rivederlo e metterlo a disposizione della stampa, gli vengono in mano le sue carte, e c’è questa lunga sequenza memoriale: c’è una lunga serie di personaggi carissimi: tra cui Guidubaldo, Alfonso Ariosto e la Duchessa. Quindi in questa parte fortemente ancorata ad una matrice fortemente memoriale e celebrativa che riguarda un tempo ormai passato e chiuso.
Le edizioni moderne
L’ultima redazione. La divisione in capitoli è degli editori, non dell’autore. Il testo è stato stabilito di fatto daMayer, e questo viene riprodotto nelle attuali edizioni. La questione dell’edizione del testo del Cortegiano si è riaperta, ed è rimasta di fatto aperta: perché mentre alcuni studiosi, tra cui appunto il Maier, hanno pensato di utilizzare di fatto quello che è il manoscritto della redazione ultima del Cortegiano, il cosiddettomanoscritto L (Laurenziano), che è stato di fatto scritto sotto la diretta supervisione in larga misura dell’autore, ed è l’esemplare che è andato alla tipografia degli eredi di Aldo, hanno ritenuto che fosse preferibile rifarsi a questo manoscritto piuttosto che alla stampa aldina del 1528.
La redazione della stampa. Però ci sono dei problemi: lo stesso Ghinassi, che uno degli studiosi di storia della lingua che più di tutti si è occupato degli studi del Ccortegiano, ha fatto notare che bisognerebbe discutere anche questo, poiché ha fatto notare che l’ultima volontà dell’autore è rappresentata appunto dalla stampa: non abbiamo alcuna ragione di pensare che il Castiglione, che nel 1528 era ancora in vita (muore nel 29) non avesse di fatto autorizzato la stampa aldina.
La revisione tipografica. C’è un problema: ed è che la stampa aldina è il frutto di una revisione in tipografia; il revisore si riteneva fosse stato incaricato direttamente dal Castiglione; altre testimonianze ci dicono che il revisore era stato incaricato dal quel gruppo di figure intellettuali e uomini socialmente elevati che erano amici del Castiglione, e che erano a loro volta a Venezia o comunque in contatto col tipografo, incaricarono appunto il Varier a fare questa revisione: quindi non è stato investito direttamente a questo compito, ma il Castiglione avrebbe lasciato il compito della curatela ad altri poiché si trovava appunto in Spagna.
Il ruolo del Valier. Tra l’altro si è anche detto che non è stato tanto facile per il Castiglione stampare il Cortegiano: ci furono anche dei problemi di carattere economico, infatti egli stesso dové contribuire alla stampa e poi non era così facile riuscire a stampare nella tipografia di Aldo. Sta di fatto che la stampa ebbe luogo. La mano del Varier, con la sua revisione, che è una revisione soprattutto di caratterelinguistico, non lessicale o sintattico, ma di carattere grafico e fono–morfologico, è una mano riscontrabile anche sullo stesso manoscritto L che fu quello che andò alla stampa.
D’altra parte di sono almeno due interventi importanti, che non si limitano soltanto a questo, ed è difficile pensare che il Valier potesse intervenire senza che il Castiglione fosse d’accordo, anche su questo: perché ci sono nomi che sono stati espunti o cambiati ed un intero episodio che è stato cambiato. D’altra parte noi non abbiamo altri documenti sotto questo profilo. Da parte del Ghinassi dunque, e poi da parte di altri studiosi, si è ritenuto che fosse indispensabile, di fatto fare una nuova edizione che fosse basata sullaprinceps, che a tutt’oggi non c’è: abbiamo una copia fotostatica della princeps, ma è una copia, non frutto di un confronto: una edizione critica della princeps non l’abbiamo; ricorrere alla stampa anastatica della princeps sarebbe a dir poco macchinoso ed anche un po’ discutibile, quindi ci atteniamo alle nostre edizioni che sono basate di fatto, anche se con confronti con il testo aldino e con altre fonti filologiche sulle quali non ci soffermiamo, sono basate dicevamo sul manoscritto L.
Le tre redazioni
Veniamo ad illustrare qual è la situazione che possiamo ricostruire attraverso i manoscritti che ci sono rimasti di quello che è la genesi del Cortegiano.
C’è una situazione di grande interesse, perché un caso quasi unico nella letteratura italiana: possiamo seguire per le diverse fasi, anche se non abbiamo tutto il materiale manoscritto, del processo della scrittura di questo libro. E lo possiamo seguire in maniera molto interessante poiché questo libro segue la storia dell’autore e i mutamenti intervenuti nella sua vita nonché nella situazione storico culturale del periodo in cui scriveva.
Ordine di partenza. Da quella che è una prima fisionomia del libro alla fisionomia definitiva si possono notare cambiamenti molto significativi: il libro parte in un modo ed arriva in un altro. La prima fase di elaborazione corrisponde, molto di più e anche abbastanza direttamente, a quello che era il gusto e la cultura delle corti che ancora all’inizio del cinquecento come pure alla fine del quattrocento, e che si rifletteva, come abbiamo visto in parte all’inizio stesso degli Asolani, in una serie di conversazioni eintrattenimenti di corte, e al tempo stesso in un modo più libero e vario rispetto agli sviluppi successivi.
? dimensione localistica. All’inizio è il libro di una corte; rimane la corte di Urbino come modello eccellente in tutta l’opera, ma la prima redazione corrisponde molto più direttamente a quello che era il gusto cortigiano nel senso più stretto del termine, nel senso di gusto cortigiano, e corrisponde a quello che sono gli interessi, della corte di Urbino: corte importante in Italia ma pur sempre una piccola corte. Teniamo presente che il Castiglione si trovava in una situazione particolare e potremmo dire difficile, poiché era entrato in un conflitto che al momento non era stato sanato, con i propri signori (Francesco Gonzaga di Mantova) e aveva trovato ospitalità presso la corte, imparentata, dei Montefeltro, ad Urbino.
? la situazione personale. C’è un rapporto significativo ed importante che rimarrà nel tempo, da parte di Castiglione nei confronti di Guidubaldo e della duchessa che lo avevano accolto e gli avevano dato favore. Alla corte di Urbino di fatto il Castiglione si trova ad avere un significativo successo come cortigiano; d’altra parte ha l’occasione di conoscere personalità significative ed importanti, anche dal punto di vista artistico, alcune delle quali risiedevano ad Urbino, come vedremo nel Cortegiano, ed altre vi affluivano.
Che situazione abbiamo dunque? Subito dopo la morte di Guidubaldo, come ci dice nella post-fazione della dedicatoria al De Silva, a Castiglione era venuto in mente di rendere omaggio e pagare il suo debito di riconoscenza nei confronti dei duchi che lo avevano accolto: aveva dunque messo mano ad una prima scrittura relativa alla corte di Urbino.
I primi abbozzi. Abbiamo in realtà in primo luogo degli abbozzi, ed abbiamo un certo numero di abbozzi ed altro materiale che non è facilissimo ricondurre poi agli sviluppi successivi in modo lineare; è materiale interessante poiché contiene già diversi temi che verranno poi inglobati e articolati nel trattato. Uno tra tutti, interessante per il clima in cui si inseriva allora: la parte che riguarda la discussione sulle donne (che rientrerà nel terzo libro), la discussione e la battaglia tra i misogini e i filogini, sembra nascere in primo luogo da questi materiali che noi abbiamo, addirittura dall’intenzione di scrivere un trattatello sull’argomento da parte del Castiglione. Trattatelli di questo genere ci sono rimasti nella letteratura di corte. Questa è la cosiddetta Lettera al Frisia, il Frisia è un personaggio di origine tedesca che si trovava alla corte di Urbino e che è il personaggio che rappresenta il ruolo dei misogini ancora all’altezza del terzo libro nella versione definitiva. Quindi in queste carte sono presenti una serie di spunti, tra cui questo, oppure ci sono dei tratti che riguardano riflessioni su altri temi tipo uno che sembra un abbozzo di trattatello sul principe, ed altro.
Prima redazione.
Alla fine dopo questi primi tratti si viene ad enucleare una scrittura vera e propria che si configura come la prima parte redazionale dell’opera che rispetto al seguito ha una connotazione peculiare: la parte della cornice, già piuttosto ampia nella versione definitiva, molto più articolata, molto più concentrata su quello che sono i giochi di corte.
La duplice direzione. Il libro comunque comincia ad assumere la propria fisionomia, e in un certo senso si pone in una duplice direzione che diventerà da un certo momento in poi, come vedremo, conflittuale. Questa duplice direzione è da un lato ancora quella matrice più fortemente cortigiana legata alla discussione di un amore che ha connotazioni di carattere cortigiano, ai giochi di corte, ai costumi della corte in genere, da un lato; e dall’altro invece ad una dimensione che rimanda alla trattatistica classica, in modo particolare a quella ciceroniana.
I primi due libri, e il terzo. Abbiamo queste due matrici che sono tra loro accostate entro la fisionomia del libro: i primi due libri hanno una dimensione che si articola appunto in una trattazione di tipo ciceroniano, ed il terzo libro che invece è molto più direttamente legato alla matrice cortegiana. [27:50] Oltre che nel terzo libro gli episodi a matrice cortegiana sono numerosi: la rappresentazione dei giochi è molto ampia e tocca anche la cornice, in larga misura la cornice iniziale. Abbiamo in questo senso la parte del trattato ciceroniano che è raccolta entro queste due dimensioni: cortigiana quella che si trova nella cornice iniziale e nello sviluppo poi del terzo libro.
Gli interessi di corte. Teniamo presente che in questo modo il libro è presentato in un ottica legata alla conversazione, all’intrattenimento cortigiano, agli interessi della corte urbinate. Se guardiano agli sviluppi di questa redazione e alle redazioni proposte, anche se non c’è una certezza assoluta, possiamo vedere che questa prima redazione ha una configurazione ormai stabile, intorno al 1515, forse proprio all’inizio del 1516. Se guardiamo alla situazione del Castiglione, anche a quelli che sono i suoi interessi di cortigiano, nonché ai suoi debiti di cortigiano, è facile capire che in larga misura questa prima stesura corrisponde anche ad una necessità: la celebrazione di Urbino che allora corrispondeva soprattutto, in questa fase, all’intrattenimento cortigiano, e, come abbiamo visto già a delle riprese ciceroniane, è legata ad una questione di legittimazione della corte di Urbino.
Successione. Che cosa succede infatti? Quando Guidubaldo muore, muore senza eredi nel 1508; per assicurare continuità al ducato, Guidubaldo aveva adottato, e fatto divenire suo erede, Francesco Maria Della Rovere, nipote del Papa Giulio II. Già in proposito di Machiavelli si era detto che Giulio II morì all’inizio del 1513, allora di fatto Francesco Maria della Rovere si trovò in una situazione diversa rispetto a quella iniziale che gli aveva ereditato Guidubaldo: non aveva più lo zio papa che lo appoggiava, e lo stato di Urbino si trovava nell’area, molto cruciale, di interessi e di riferimento per l’espansione della chiesa; il fatto di dare una legittimazione e di sottolineare l’importanza e il peso della corte di Urbino, assumeva anche una connotazione oltre che culturale anche significativa in termini diplomatici: non aveva visto in modo sbagliato il Castiglione, che l’anno successivo, nel 1517, Papa Leone investe il proprio nipote, Lorenzo il giovane, del ducato di Urbino, spodestando Francesco Maria della Rovere.
In questo stesso periodo nel 1515, o il primo tempo del 1516 viene a collocarsi anche quella che il Ghinassi ha indicato come la dedicatoria al Re di Francia: identificato con Francesco I. Qui occorre una precisazione: la presenza di questa parte così significativa in cui Castiglione si rivolge al re di Francia, secondo gli studi rinnovati sulle carte e manoscritti compiuti da Quondam, risulterebbe in realtà non una dedica a sé stante, ma sarebbe inglobata nella dedicatoria già fatta e prevista per Alfonso Ariosto: dunque Alfonso Ariosto di fatto, che risulta il dedicatario di ciascuno dei quattro libri, sarebbe stato secondo Quondam, fin dall’inizio il dedicatario anche di tutta l’opera. Però il dato che importante è che il Castiglione di fatto si rivolge anche direttamente come interlocuzione, seppur utilizzando come mediazione Alfonso Ariosto, innanzitutto riconoscendo nel re di Francia, o quantomeno volendo affermare questo, colui che lo aveva sollecitato alla scrittura dell’opera. Quindi il re di Francia viene cooptato nella scrittura, e viene svolto un appello ampio al re in relazione alla crociata: questa parte piuttosto ampia e articolata però viene a cadere negli anni successivi. E cade anche perché la situazione storica politica è mutata, e il Re di Francia di fatto non dà l’appoggio sperato al duca di Urbino di fatto consente all’azione di Leone decimo che fa spodestare il Della Rovere. Inoltre la situazione sullo scenario italiano cambia successivamente.
Questa prima redazione era arrivata ad una sua completezza: il Castiglione ne fa pervenire delle copie a degli amici importanti dai quali desidera avere un parere; questa circolazione dunque è indice anche di un lavoro di correzione sulla prima redazione che non impegna solo l’autore ma anche altri: anche il Bembo, come pure Sagoleto.
Attenzione agli equilibri politici. Ma il Castiglione si preoccupa anche di non urtare la sensibilità di certi personaggi. Per esempio, come sappiamo da delle lettere, viene ad un certo punto mandato a Ferrara perché vuole sapere se Ippolito aveva gradito o meno il modo in cui era stata introdotta la sua figura. Si tratta anche di un accorto dosaggio: la materia non è affatto facile laddove si tratta della rappresentazione di contemporanei. Così anche, nel gioco degli elogi, il Castiglione doveva stare ben attento anche in relazione all’evolversi della situazione nel tempo, e infatti ad un certo punto scompare la connotazione più fortemente elogiativa che riguarda il re di Francia, e in modo crescente si avanza come una sorta di profezia a distanza (perché l’opera è ambientata nel 1507, quando Francesco I non era ancora re, ne Carlo V era Re di Spagna) l’esaltazione di Carlo V: l’una diminuisce, l’altra aumenta.Dunque in relazione ai fatti storici si riduce l’elogio a certi personaggi, si riduce la parte di elogi che riguarda la nobiltà di alcune corti italiane mentre sono aggiunti altri nomi, in particolare nella terza redazione viene introdotto un amplissimo elogio di Isabella di Castiglia: la moglie di Ferdinando il Cattolico, e la nonna di Carlo V. Bisogna dunque tenere presente anche questo tipo di evoluzione: Castiglione è molto attento agli equilibri: non si tratta di una adulazione, badiamo bene, ma di una corrispondenza di un sistema, corrispondenza di parti all’interno di un sistema.
Questo lavoro di elaborazione, fatto in parte anche mandando in giro a destinatari privilegiati, e ristretti si rileva su uno dei manoscritti della prima redazione per tutta una serie abbondantissima di correzioni. Questo è un altro aspetto interessante: abbiamo cinque manoscritti, e di questi cinque manoscritti almenodue sono manoscritti in movimento: cioè ci testimoniano delle fasi diverse di scrittura da parte del’autore. Ad un certo punto si era resa necessaria una copia, cioè il Castiglione doveva dare ad un copista la redazione cui era giunto, con l’integrazione delle correzioni, perché evidentemente non era possibile seguire, talmente intricata e fitta doveva essere la rete di correzioni, da non rendere possibile la lettura. Senza poter seguire con precisione e certezza il movimento tra la prima e la seconda redazione, noi sappiamo che nel 1520 / 21 ormai il nostro Cortegiano è approdato alla seconda redazione.
Seconda redazione
La seconda redazione è una redazione particolarmente interessante, ed è tral’altro stata messa a stampa da Ghinassi per cui chi volesse rendersi contro delle differenze tra la prima e la seconda redazione, ha tutti i materiali per poterlo fare perché ce l’abbiamo a stampa.
Riflesso della realtà. Questa seconda redazione riflette una diversa posizione da parte di Castiglione: erano accaduti una serie di fatti importanti anche per quello che riguarda la vita personale del Castiglione. Il Castiglione si trova ad un certo punto di nuovo in difficoltà, ma questa volta nei confronti di Francesco Maria della Rovere.
Della Rovere Spodestato. Il problema era da un alto oggettivo (teniamo presente che Francesco Maria della Rovere era un uomo molto violento) e d’altra parte per la posizione in cui egli stesso come cortigiano si viene a trovare: Francesco Maria della Rovere viene spodestato, perché il suo ducato fu ceduto a Lorenzo de medici, Lorenzo il Giovane; cerca di recuperare con una guerra alla quale il Castiglione non partecipa creando una frizione; e per di più il duca viene scomunicato. Il Castiglione si trova nella imbarazzante situazione di dover cercare nuovamente un appoggio, e cerca di rientrare nel favore deiGonzaga: e ci riuscirà con la morte di Francesco Gonzaga e dunque la successione dinastica con il figlioFederico.
In missione a Roma. Con Federico egli si trova ad assumere una posizione diversa: nel 1519 viene mandato in missione diplomatica a Roma, e rimane là per un certo tempo dove di fatto si manifesta per Castiglione una situazione differente: assume un ruolo più alto sotto il profilo diplomatico e i suoi orizzonti non hanno più un ottica ristretta nelle dimensioni della corte, ma sembrano avere un ottica più ampia; con una visione più “itlaiana” e in una posizione di cortigiano in cui il rapporto con il principe viene ad assumere un significato maggiore: viene sviluppato in quello che allora era il terzo libro dell’opera, un discorso molto ampio, che riguarda i rapporti tra principe e Cortegiano.
Gli ordini. Inoltre si era verificata anche una situazione dolorosa ti carattere personale e che cambia del tutto la sua vita: Castiglione si era sposato nel 1516, ed era però rimasto poi vedovo; muore la moglie nel1519 mentre metteva al mondo il terzo figlio, ed egli stesso si trova a cambiare status. Assume gli ordiniminori, cioè entra in una dimensione ecclesiastica. Questo non deve stupire se si tiene presente che una collocazione nel contesto ecclesiastico è una collocazione piuttosto frequente nell’ambito degli intellettuali del 500: avevamo avuto modo di accennare al fatto che lo stesso Bembo fa una scelta di questo genere, più tardi il Della Casa, poi il Bibbiena, e dunque il Castiglione.
Avvicinamento a Carlo V. L’entrata in questo ambito provoca un un ulteriore cambiamento di prospettive: viene ad assumere incarichi importanti in funzione della curia. Soprattutto quando diventa papa il cardinale Giulio de medici col nome di Clemente VII. Leone X muore nel 1521, quando già le prospettive del Castiglione erano mutate aprendosi come avevamo detto; diventa papa dopo di lui Adriano VI, Adriano di Utrecht, precettore di Carlo V, quindi cambia molto la prospettiva sotto questo profilo per quello che riguarda il potere imperiale e la sua espansione: Carlo V ha un grandissimo potere avendo su di se la corona si Spagna e la corona dell’impero.
Nunzio in Spagna. Nel 1523 il papato torna ai Medici col cardinale Giulio fino al 27: ora con i Medici il Castiglione aveva avuto stretti rapporti, e proprio da Clemente verrà incaricato di divenire nunzio pontificio in Spagna: quando parte per andare in Spagna di fatto si è conclusa l’ultima redazione del Cortegiano.
Nel codice L abbiamo un indicazione di data che ci porta appunto alla data del 1524, abbiamo una sorta di notazione in calce trascritta dal copista quando Castiglione era ancora a Roma e si accingeva a partire per la Spagna. A Roma il Castiglione aveva maturato una visione che possiamo definire, non a torto, europea ed aveva maturato una visione che possiamo definire filoimperiale che aveva una matrice imperiale ed anche religiosa: Castiglione era convinto che Carlo V avrebbe potuto riunire l’Europa, ed avrebbe potuto con questo porsi in un ambito di superamento di quello che erano state le controversie gravi e le lotte religiose causate dalla riforma (ma le cose non sono andate così, come sappiamo).
Castiglione rappresentava nella curia pontificia il versante filo-imperiale: in realtà dopo la battaglia di Pavia e la sconfitta di Francesco I, la posizione di Clemente è filo francese, ovvero nella curia prevarranno posizioni filofrancesi, e questo porterà poi alla sconfitta della curia ed alla vittoria imperiale come sappiamo con il sacco di Roma.
Teniamo presente che le ultimissime correzioni fatte nel Cortegiano avvengono nel contesto conclusivo di queste vicende, anche se si tratta di correzioni apposte ad un opera che era ormai nella sua fisionomia formata. Sappiamo che la dedicatoria al De Silva è del 1527, dunque una vera e propria post-fazione.
Il passaggio tra la seconda e la terza redazione
Un passaggio radicale. Cosa succede nel passaggio tra la seconda e la terza redazione? In realtà il punto critico e la vera e propria trasformazione più radicale avviene tra la seconda e la terza redazione. Si era verificato nella seconda redazione questo: il libro era suddiviso in tre libri e di fatto il terzo di questi tre libri aveva una dimensione di gran lunga superiore rispetto alle altre due. C’è un problema strutturale rilevante. E d’altro canto in questo terzo libro erano compresi degli argomenti che non consentivano un andamento lineare:
a) erano compresi argomenti che riguardavano appunto l’amore, svolto soprattutto in termini di un amore di corte, quindi con una casistica di corte;
b) si affacciava anche una dimensione spirituale di carattere neoplatonico. Il discorso relativo relativo alla dimensione neoplatonica, è portata avanti dal Bembo nel terzo libro ma non era accettata dagli altri personaggi, e quindi non aveva un vero e proprio svolgimento; mentre veniva accettata e preferita una discussione su quello che il cortegiano doveva fare per essere a sua volta gradito nel contesto della corte e quali erano i comportamenti da tenere e quelli no.
c) Insieme era sempre inserito in questo terzo libro la discussione sulla donna, con tutta una serie di esempi di figure femminili che dovevano sostenere soprattutto la posizione di chi difendeva le donne contro i misogini.
d) Inoltre, sempre dentro questo libro era rivolta una trattazione sul rapporto tra il principe e il cortigiano, ma che non era completamente conclusa.
La terza redazione
Primi due libri. Insomma una struttura che così com’era era disarmonica e sproporzionata. Per quello che riguarda i primi due libri non c’erano stati grandi cambiamenti rispetto alla prima redazione: c’era stata una diminuzione di quello che riguardava i giochi di corte; c’era stata una serie di elementi aggiunti e corretti, però la struttura dei primi due libri non era di fatto grandemente mutata.
Struttura quadripartita. Il terzo libro invece era aumentato a dismisura; allora che cosa succede? Con la terza redazione cambia struttura di questo terzo libro che viene ad essere suddiviso, per il materiale che allora era presente, in due libri. Ed arriviamo quindi alla struttura in quattro libri.
Riscrittura. Ma non è che il Castiglione abbia preso una parte dei materiali mettendola nel terzo libro e una parte nel quarto. Di fatto ha riscritto una parte e ne ha introdotta una nuova di particolare importanza e cioè tutta la parte che riguarda la formazione della dama di palazzo. Non c’è dunque solo la formazione del perfetto cortigiano, ma viene ad essere introdotta, parallelamente a quella del perfetto cortigiano, la figura della donna di palazzo. Tutto il discorso relativo alle donne viene poi ad assumere una connotazione diversa: perché viene collegato alla trattazione relativa alla donna di palazzo.
Trattazione da cortigiana a Ciceroniana. Quindi sia da un punto di vista strutturale, sia da un punto di vista funzionale, il discorso di fatto cambia, e ne cambia l’impostazione; ne cambia il livello. Anche la parte che aveva l’impostazione più direttamente legata al cortigiano di fine 400, inizio 500, viene messa pienamente nel trattato ciceroniano: perfetto cortigiano / perfetta donna di palazzo. Un articolazione parallela. L’operazione non riesce perfettamente al cento per cento, vedremo che sono rimaste delle discontinuità. Inoltre il tema dell’amore: viene questo dislocato in due momenti diversi.
L’amore tra il terzo e il quarto libro. All’interno del terzo libro viene ripresa, ma rivista ampiamente, la parte relativa alla casistica amorosa: perché si punta a delineare una formazione etica del cortigiano anche sotto il profilo amoroso. Alla perfetta donna di palazzo corrisponde il perfetto cortigiano e viceversa, e dunque il perfetto cortigiano amerà la perfetta donna di palazzo: due figure ideali costruite in parallelo eticamente e moralmente, come modelli cui pertiene la trattazione dell’amore. Nel terzo libro però non è introdotta, se non per qualche cenno, la trattazione relativa all’amore spirituale che è dislocata svolta nel quarto libro.
Il quarto libro. Il quarto libro è il più innovativo in relazione alle redazioni precedenti, ed è bipartito: una prima parte di questo libro tratta interamente il rapporto tra principe e cortigiano, ed il cortigiano ora porta a compimento la figura dell’istitutore del principe, ma elevandosi ulteriormente.
Il fine della cortigiania. Il cortigiano ha il compito di dire la verità al principe, di formare il principe, e perché lo passa fare è evidente che si profila una posizione di questo genere: il perfetto cortigiano, che ormai è maturo negli anni, che diventa istitutore del principe giovane. Come possibilità prospettata naturalmente, ma questo diventa il vero fine ideale della cortigiania. E questo punto di fatto cambia le carte in tavola: all’inizio del libro quarto, si dice a colui che svolge la parte trattatistica sul rapporto tra principe e cortigiano, che tutto quello che è stato detto nella parte precedente del Cortegiano, risulterebbe monco,frivolo, se non ci fosse un fine così alto: dato che, aristotelicamente, le cose si giudicano dal loro fine, il fine del perfetto cortigiano è quello di divenire l’istitutore del principe. E se il fine del cortigiano è quello di divenire istitutore del principe, ed il suo ruolo è quello di dire la verità al principe, ed impedire che il principe sia vittima degli adulatori, che rimanga nell’ignoranza di sé stesso, e che si comporti male, nelle mani del cortigiano si pone di fatto quello che è il fine etico stesso e morale del migliore dei governi possibili, posto che per Castiglione il migliore dei governi possibili è quello monarchico.
L’amore platonico. Però se il nostro cortigiano per maturare tutta questa sua condizione deve giungere ad una certa età, che non è più quella del giovane cortigiano, allora come è possibile che possa adeguarsi a lui l’amore? Allora, in che termini sta l’amore in rapporto alla figura del perfetto cortigiano? Ed è qui che viene attribuito al Bembo-personaggio del Cortegiano il compito di svolgere la trattazione sul tema dell’amore platonico. Dunque con un innalzamento in tono morale e religioso in chiave dell’amore platonico che parte dalla contemplazione della bellezza della donna, fino a giungere al vero e proprio inno nella contemplazione del divino, si svolge questa seconda parte del cortegiano. Questo per quello che riguarda l’impianto e le tematiche del quarto libro. Molto più complesso, anche come materia in questo senso, ed a questa complessità corrisponde anche un diverso modo sul piano stilistico del trattato che diventa più rigorosamente classico sia nell’impianto sia per quello che riguarda lo stile.
Altro esempio interessante si può fare relativamente ai personaggi. I personaggi non rimangono sempre gli stessi: c’è un movimento interno ed il sistema dei personaggi, nel rapporto dei singoli personaggi tra di loro non rimane invariato: Florian è arrivato a delle conclusioni molto significative: nella prima fase abbiamo molta maggior varietà di posizioni; è dato spazio anche ad atteggiamenti più liberi, burleschi, scanzonati; si riflette il mondo di una corte meno gerarchicamente organizzata, o meglio, organizzata in un modo meno rigido: c’è più spazio per scherzi e giochi, nonché per personaggi minori. Nelle corti ci sono anche i buffoni del resto.
? Il movimento dei personaggi
Gerarchizzazione. Un mutamento già intercorre nel passaggio tra la prima e la seconda, ma quello che a noi interessa è quello tra la seconda e la terza. Questo movimento di personaggi, questa riduzione dei margini di maggior disinvoltura ed estemporaneità, giunge ad una gerarchizzazione molto più rigorosa nella terza redazione: da un lato vengono o eliminati del tutto o circoscritti i personaggi che non avevano avuto quel successo dal punto di vista sociale o di corte che si poteva aspettare da loro; dall’altro vengono poi o ulteriormente compressi o ulteriormente ridotti quei personaggi che sono portatori di una dimensione quasi caricaturale: ad esempio il Frigio, che rimane, è una sorta di macchietta comica che però viene connotata in modo più vivace nella seconda redazione: alcuni suoi interventi molto pittoreschi e vivaci verranno poi fortemente ridimensionati nella terza redazione.
Nella seconda redazione abbiamo una vera e propria battaglia tra filogini e misogini, con una serie di rappresentazioni metaforiche di battaglia cavalleresca, anche a volte con battute vivaci ed interventi scherzosi. Tutto questo si riduce e si può vedere solo quasi in filigrana nella terza redazione. Cene rendiamo conto naturalmente solo confrontando le due redazioni: leggendo solo l’ultima potremmo vederlo solo in parte. Sempre a proposito dei personaggi, per esempio, c’è un personaggio nella seconda redazione che svolge la parte del difensore-cavaliere che interviene in difesa delle donne: quella parte che in prima battuta è svolta nella versione definitiva da giuliano de Medici, era svolta da un personaggio che è stato poi fatto scomparire: si chiamava Camillo Paleotto. Floriani ha visto che questo difensore delle donne, Camillo Paleotto, era stato professore, all’università di Bologna, nel 1512 / 13 e poi era diventato segretario del Bibbiena, poi morto nel 1518: questo personaggio aveva fatto ben sperare di sé e del suo successo in ambito di corte, ma non era prima di morire giunto a dei risultati significativi. Inoltre Floriani ha dato una interpretazione che pare giusta relativa al fatto che i personaggi non sono visto in relazione al ruolo che essi stessi esercitano, ma anche in relazione alla posizione mediante la quale sono legati ad altri dei personaggi presenti nel libro: in poche parole, noi abbiamo uomini di corte più importanti di altri, e uomini di corte che sono in un certo senso clienti di questi ultimi, ecco: il Paleotto rientrava in una certa misura tra i clienti del Cardinal Bibbiena; questo poi aveva avuto una posizione molto eminente con leone X: addirittura ad un certo punto fu chiamato scherzosamente l’alter papa. Poi il cardinal Bibbiena si trova in una posizione, diciamo così, discendente, tanto che al momento della morte circolavano anche delle ipotesi piuttosto sinistre su un suo possibile avvelenamento. Sparito dalla scena, storicamente parlando, il cardinal Bibbiena, il cardinale rimane nel testo, ma chi a lui era legato, come il Paleotto, viene tagliato fuori. [1:05] Questo per dire che c’è un sistema di personaggi in evoluzione che corrisponde a quello che è l’equilibrio diverso che muta nel tempo delle corti, e la misura diversa del successo sociale e della riuscita che viene ad essere commisurata con il ruolo dei personaggi. Infatti nell’ultima redazione alcuni personaggi acquisiscono un ruolo decisamente permanente, e sono quelli che sono i portavoce dell’autore. Quello che è caratteristico di questo trattato rispetto agli altri che abbiamo visto è che ha un numero di personaggi molto più ampio, che apporta anche la necessità, nell’ultima redazione, di rendere più chiaro il ruolo di ciascuno, quindi questa gerarchizzazione diventa funzionale anche sotto questo profilo. [1:06]
Dunque, noi ci troviamo in una situazione in cui il testo ci viene consegnato nella sua redazione definitiva, e lo vediamo con la dedicatoria al De Silva, scritta dopo, e che ci presenta tutto questo mondo: laddove il testo era stato scritto in fieri, la dedicatoria ce lo presenta nel momento della conclusione. Per cui il lettore ha una prospettiva di fatto opposta rispetto a quello che nella sua storia è la genesi del testo. Noi abbiamo il risultato concluso e da questo punto di vista noi vediamo il libro come ci è consegnato: cioè in una prospettiva memoriale, poiché quella corte non esiste più come ai tempi di Guidubaldo, e d’altra parte questa corte viene ad assumere un importanza di carattere paradigmatico, un modello ideale e assoluto. Assume una connotazione che potremmo definire metastorica: e questo ci fa capire anche il successo di questo libro: il Cortegiano, nel giro di un secolo ha circa 100 edizioni, in pochi anni viene pubblicato prima a Venezia, poi a Firenze, poi subito tradotto in altre lingue europee, e diventa il paradigma della figura del gentiluomo di corte dove di fatto tutto quello che è il portato, la summa, il succo della grande arte di Castiglione diventa in qualche misura la proiezione ideale della figura che nel contesto italiano, in realtà, non era più operativa: il sistema delle corti italiane, dopo la situazione che si era definita con la vittoria di Carlo V, non aveva più la ragion d’essere di prima; si trasferisce in un certo senso idealmente a livello europeo: ciò che storicamente esisteva nelle corti italiane cessa di essere, ma viene proiettato idealmente come paradigma, modello, norma, sia di comportamento, sia da un punto di vista etico ed ideale e appunto accolto con grande favore e grande successo.
E’stato anche detto, non a torto, che si tratta anche di una sorta di risarcimento, quasi che persegue il Castiglione, a posteriori: c’è la rovina dell’Italia, ma c’è questo modello di disciplina esemplare, che muove da Castiglione ed ha una proiezione europea. Lo stesso Castiglione poi come personaggio risultò particolarmente apprezzato come gentiluomo, cortigiano, uomo di corte, e per la sua competenza. E’ famosa la battuta di Carlo V alla morte di Castiglione: «è morto il miglior cavaliere del mondo». Il successo è europeo e lungo nel tempo, ma naturalmente non nella dimensione che ebbe il Galateo: siamo in due situazioni molto diverse: qui si propone un ideale etico ad un livello decisamente superiore, per la sua complessità; e l’opera in sé diventa anche un modello vero e proprio nella letteratura del classicismo cinquecentesco: per armonia di scrittura, per eleganza dello stile, per l’articolazione, per il suo stesso impianto. Questo in termini generali per quello che riguarda la genesi del testo.
Castiglione scrive un trattato e lo presenta come se fosse un gioco di corte; ma l’elemento del gioco non è secondario: perché ci presenta la materia tutta intera entro la rappresentazione dell’intrattenimento cortegiano: non più rimasto entro il livello di rappresentazione estemporaneo, dispersivo, che ha molte face diverse, com’era tra 4/500. Questo aspetto peculiare della corte, che rappresenta la messa in scena della corte, non può non calarsi all’interno di come la corte rappresenta sé stessa: la corte rappresenta sé stessa soprattutto attraverso la festa, soprattutto attraverso il gioco, e il teatro. Abbiamo omesso per il Castiglione un aspetto importantissimo: Castiglione è anche un uomo di teatro, non perché scrivesse per il teatro, ma perché era estremamente competente nel mettere in scena spettacoli di corte: Castiglione ebbe un ruolo importante nella rappresentazione che si tenne ad Urbino nel 1513 della Calàndria del Bibbiena: una delle più felici commedie rinascimentali, estremamente scanzonata; e lì venne riprodotta, attraverso la Calàndria, una vera e propria festa rinascimentale che rappresenta di fatto la celebrazione stessa della corte, che nella magnificenza della festa riflette se stessa.
C’è un aspetto: il gioco è un raddoppiamento-rispecchiamento attraverso la finzione. La duchessa inizia proponendo un gioco che consiste nel proporre un gioco, ecco il raddoppiamento-rispecchiamento. Un gioco di specchi e di raddoppiamento. Questo rapporto paradossale di raddoppiamenti è anche quello che regola il rapporto tra realtà e finzione: la corte mette in scena sé stessa, mette in scena la propria simulazione: la messa in scena della corte è molto teatrale: il dialogo condotto registicamente dal narratore è una messa in scena di carattere teatrale.
Questi cortigiani parlano del perfetto cortigiano, rappresentando al tempo stesso attraverso le proprie voci la perfetta corte di Urbino. Essi stessi danno voce e rappresentazione alla figura di cui parlano; si giunge ad una effettiva armonia, ad una complessità proprio nell’ultima redazione, e noi vediamo il prodotto finito, ma seguendo le fasi noi vediamo anche i tentativi, i passaggi intermendi. Nella sua prima fase l’opera assomiglia di più ad un testo del primo cinquecento. ]
La dedicatoria
Parte prima
Partenza e arrivo. Si rivolge ad un intellettuale cortigiano, diplomatico di alto stile, uomo di successo, personaggio che aveva frequentato Roma, ed a lui si rivolge il Castiglione come ad una sorta di alter ego dell’immagine stessa sia del perfetto Cortegiano sia dell’autore. Abbiamo visto come è scandita all’inizio del trattato la dedicatoria. Il Castiglione aveva ricostruito, ma in modo tale da darci il punto di partenza e il punto d’arrivo, dicendo che aveva cominciato a scrivere l’opera come atto di riconoscenza per rendere qualche onore alle virtù di Guidubaldo, e poi si era deciso di riprendere in mano il suo lavoro perché, avendone fatto delle copie e datele a Vittoria Colonna, temeva che il libro potesse essere stampato da altri. Quindi l’aveva ripreso in mano.
? il tempo. La dimensione del Tempo è fondamentale nel contesto del Castiglione, anche nel contesto della dedicatoria: Il tempo della corte di Guidubaldo, il tempo attuale dell’autore, l’elemento di contrasto dato dalla fortuna: la fortuna come elemento che porta disordine, come ostacolo e impedimento. Questo conflitto virtù fortuna, tipico del rinascimento, lo troviamo più volte presente nella dedicatoria.
Una serie di morti illustri. Presa in mano l’opera dunque, si trova di fronte ad una sequenza di personaggi ormai scomparsi: c’è una celebrazione memoriale di essi, a partire dal dedicatario Alfonso Ariosto, per arrivare alla massima perdita possibile che è la Duchessa.
? motivo ciceroniano. Questa evocazione memoriale la troviamo anche in apertura del 4 libro: ed è un motivo ciceroniano per quello che riguarda il 4 libro: Cicerone, nell’ultimo libro del de oratore, aveva fatto una commossa celebrazione di tutti quegli autori della precedente generazione e che egli aveva rappresentato nei libri precedenti e che erano ormai scomparsi; questa riflessione di cicerone era dolente perché si connetteva con le condizioni gravi in cui verteva allora la repubblica romana. Nel Castiglione questo motivo non c’è, ma c’è quello del dolore della scomparsa. Paradossalmente il tempo ha fatto si che anche sotto questo profilo l’opera del Castiglione si avvicinasse ancora di più al modello ciceroniano: il tempo lungo dall’inizio della scrittura nel 1508 alla pubblicazione nel 1528 ha portato alla scomparsa progressiva di quasi tutti i personaggi: di questi viene celebrata ora la morte.
Le virtù morali dei personaggi. Nel piangerne la morte in questa evocazione vengono messi in evidenza i tratti significativi che in larga misura puntano sulle loro virtù etico-morali e sul loro costume. Solo per il Bibbiena c’è una notazione diversa che riguarda l’ingegno.
La morte della Duchessa. La prima parte della dedicatoria, sono tre parti, si conclude con una lunga lamentazione relativa alla morte della duchessa che riassume in sé tutte le morti: è la perdita più grande e più dolorosa. Il debito contratto con la morte di Guidubaldo, alla morte della duchessa acquisisce il massimo grado. Egli anche per questa ragione vuole rendere memoria di così eccellente signora per chi non li ha conosciuti; tranne due, il De Silva non aveva potuto conoscere alcun personaggio del Cortegiano; come pure non aveva potuto conoscere l’eccellenza della corte di Urbino.
Il dipinto veridico. Questa prima parte della dedicatoria si conclude con il consueto topos modestiae: Castiglione vuole fare un ritratto della corte di Urbino, ma è un ritratto fatto da un semplice pittore, non come quello di Raffaello o Michelangelo, e con questo ci vuole dire che si tratta di un ritratto veridico, che rappresenta con colori propri quella che era la realtà, non era un ritratto opera di un pittore per il quale l’immagine stessa dipinta sia superiore a quella della realtà; in questo modo vuole accreditare l’eccellenza della corte nella rappresentazione fatta. In poche parole: non un dipinto tanto bello da superare la la realtà stessa, ma un dipinto veridico.
Seconda parte
Le possibili riprensioni. La parte successiva della dedicatoria è relativa ai biasimi in cui l’autore può incorrere per i modi di scrittura dell’opera, e problemi che riguardano la lingua. Anche questo può essere un topos di carattere retorico, ma come dicevamo prima il trattato era già circolato ed era stato letto. Quali sono i due biasimi: a) che non abbia scritto imitando il Boccaccio; b) che non abbia scritto nellalingua toscana di oggidì.
Boccaccio. Il Boccaccio non poteva né doveva imitarlo, sia perché il soggetto è diverso sia perché la lingua del Boccaccio non è più in uso.
Il toscano d’oggi. Perché poi non doveva imitare il toscano di oggidì? Perché sono molte le nobili città di Italia, e dunque ci sono più persone di Buon Giudizio, di bei costumi, di animo nobile, che usano una lingua che non può essere ridotta al solo toscano, e dunque: come c’è commercio tra le città, come si scambiano le merci, così si scambiano anche le parole: dunque l’uso stesso di parole diverse da parte dei più nobili personaggi, consente che si scelgano le più elette, quelle che hanno più grazia, le più appropriate, le più eleganti di tutte le nobili città di Italia. [1:31]
La propria lingua. Inoltre sempre per la lingua e per il discorso sull’uso, c’è il problema che riguarda il Castiglione, che toscano non è: e rivendica la possibilità di parlare la propria lingua, che è lombarda, nel senso più ampio del termine, che non ritiene affatto inferiore, come possibilità di scelta questa lingua rispetto al toscano.
Posizione anti bembiana. Qui si inserisce una osservazione già fatta quando si parlava delle prose della volgar lingua, quando si diceva che l’ideale del Bembo è quello di considerare da un lato la lingua latina e dall’altro l’evoluzione della lingua volgare, che non deve essere di nuovo riportata sul latino; il Castiglione la pensa diversamente: ritiene che sia più elegante e più appropriata quella parte della lingua volgare che risulta meno corrotta rispetto al latino. E per questo rivendica una corruzione inferiore del lombardo rispetto al Toscano: un obiettivo opposto rispetto a quello di Bembo.
L’affettazione. C’è inoltre un ultima cosa che è l’affettazione: il nemico numero uno del Castiglione è l’artificiosità, l’affettazione, il voler mostrare l’arte della propria presunta perfezione: nella lingua succede che chi non essendo toscano, voglia parlare troppo toscano, cioè vuole parlare in un modo perfettamente adeguato ma non naturale, ma imparato sui libri, viene immediatamente riconosciuto come non toscano dal suo parlare affettato: riporta un aneddoto citato sia da Cicerone che da Quintiliano, un aneddoto relativo allo scrittore greco Teofrasto, il quale fu subito scoperto da unavecchiarella in Atene, la prima con cui ebbe modo di parlare, che lo scoprì per non ateniese perché parlava troppo Attivo, affettava talmente tanto la lingua attiva tale per cui era evidente che non poteva esserlo, perché non era in nessun modo naturale, era costruito, artificioso.
Selezione del pubblico. E qui poi, senza fare troppi complimenti, il Castiglione distingue il suo pubblico: dice di non conoscere quella lingua tanto recondita, ma se ai suoi riprensori non dovesse piacere, poco male: non leggano l’opera! Qui c’è quel discorso relativo al pubblico scelto e rifiutato già emerso più volte nei vari trattati.
Lezione 13
Terza parte
Le obiezioni che il Castiglione dice gli siano state poste riferendosi dunque o a quella circolazione della sua opera di cui già si è detto, o a quello che un topos retorico, ovvero la risposta ai detrattori, sono due.
La prima: eccessiva perfezione. Dopo quella relativa alla lingua, le obiezioni e sono innanzitutto la prima relativa alla presunta inutilità della sua opera: dal momento che è così difficile, quasi impossibile trovare un uomo così perfetto come egli vuole sia il cortigiano, gli si dice che è stato inutile scrivere quest’opera perché vana cosa è insegnare quello che non si può imparare.
Collegata a questa obiezione, anche se non sembra ad essa connessa (ma in realtà lo è) è la seconda obiezione: è un’imputazione di presunzione, e cioè che abbia avuto la pretesa in realtà di mostrare sé stesso nelle vesti del perfetto cortigiano.
Il principio di imitazione. La risposta alla prima è ironica nella forma e molto significativa nella sostanza: si dichiara innanzitutto ben contento di aver sbagliato con così grandi modelli quali quelli che qui cita (quelli antichi); si rileva qui il principio di imitazione, il principio normativo del modello (principio umanistico in primo luogo) ed è un principio assunto in pieno nell’ottica del maturo classicismo del Castiglione.
? Platone, Senofonte, Marco tullio. I modelli che ci mette davanti sono alti ed esemplari: in primo luogo viene fatto il nome di Platone: quindi ci risponde che sarebbe grato di aver errato con Platone, con Senofonte e Marco Tullio. [2:40]
? carattere non-filosofico. Non è l’intento di Castiglione di svolgere un discorso di carattere filosofico, e in fatti mette in evidenza quanto abbia lasciato «il disputare del mondo intelligibile delle idee».
Trafila. Però in relazione alle idee, cioè della raffigurazione ideale mette la sua opera nel contesto di una trafila che vede l’opera do Platone, cioè l’idea della perfetta repubblica, quella di Senofonte, cioè del perfetto Re, quella di Cicerone del perfetto oratore, e mette la propria opera come quarta in questo senso: «così è ancora quella del perfetto cortegiano».
Modestia. Che poi d’altra parte sia ben consapevole della difficoltà che c’è da un lato per quello che riguarda la scrittura dall’altro per quello che riguarda il passare dallo scrivere al fare ci viene messo in evidenza dall’espressione ironica che segue. Dice: «alla immagine della quale» cioè del perfetto cortegiano, «s’io non ho potuto approssimarmi col stile, tanto minor fatica avranno i cortigiani d’approssimarsi con l’opera a termine e meta che io col scrivere ho loro proposto» qui si avvale del consueto topos modestiae per fare dell’ironia nei confronti dei detrattori: cioè dichiarando di essere consapevole della difficoltà e dello sforzo di approssimarsi nella scrittura del perfetto cortegiano, e nel caso in cui il suo scopo sia riuscito meno del desiderato, così meno fatica dovrà fare chi vorrà mettere in pratica ciò che egli scrive.
La similitudine dell’arciere. Quello che è importante per capire meglio quello che il Castiglione intende è quello che segue, dove troviamo di nuovo (come nel VI capitolo del Principe machiavelliano) la similitudine dell’arciere: «e se con tutto questo non potran conseguir quella perfezione qual che ella si sia» espressione importante, poi ci ritorniamo, «ch’io mi son sforzato di esprimere, colui che più si avvicinerà sarà il più perfetto, come molti arceri che tirano ad un bersaglio, quando niuno ve n’è che dia nella brocca, quello che più se l’accosta senza dubbio è miglior degli altri».
? Realtà e ideale. Allora anche qui emerge il carattere di tensione come sforzo innanzitutto di scrittura, perché è nella scrittura in primo luogo che egli definisce e forma il perfetto cortegiano: come lo sforzo è nella scrittura così lo sforzo è nell’operare. La perfezione (l’espressione a noi può sembrar paradossale perché la perfezione dovrebbe essere il massimo compimento di una cosa, qui invece si parla di ciò che è perfetto e meno perfetto, quindi i gradi di perfezione a cui si giunge) può essere considerata a giusto titolo non in termini assoluti: allora, avevamo visto come era il significato della similitudine dell’arciere per Machiavelli, il puntare più in alto come fa l’arciere quando il bersaglio è lontano non per giungere a così alta mira ma per riuscire a fare con proprio sforzo il conseguimento di un obiettivo difficile, quindi una tensione, un ideale normativo perché cercando di imitare questi si riesca, sforzandosi, ad ottenere risultati più alti di quelli che si potrebbero ottenere se non ci si sforzasse, e dunque un discorso di carattere individuale quello di Machiavelli che come riguarda gli arcieri che puntano lontano così riguarda lo sforzo del principe.
Qui il discorso è diverso perché opera in un contesto sociale di confronto tra più arcieri: non la perfezione in assoluto, ma il maggior grado di perfezione possibile, attraverso una tensione che si risolve in unaapprossimazione, un senso significativo e importante da tener presente perché i due poli tra i quali pure si muove il Castiglione sia nella scrittura sia nell’indicazione operativa sono quelli della realtà e della idealità. Non c’è un capovolgimento per cui una realtà sia vista sotto la scorta dell’ideale c’è un rapporto di tensione tra i due poli: certamente quelli cui punta Castiglione è quello della idealizzazione, ma è ben consapevole dello scarto che c’è tra realtà ed ideale.
Il fatto di aver citato il de oratore non è casuale: non soltanto questa opera di cicerone che è modello e fondamento dell’opera di Castiglione, ma complessivamente a quello che scrisse lo stesso cicerone dell’oratore per esempio in un’altra opera cui tra pochissimo troviamo le tracce proprio nel primo proemio ad Alfonso Ariosto cioè nell’Orator, che non è un dialogo diegetico, al contrario del de oratore, Cicerone esprime con grande chiarezza questo: e cioè, anche se non si riesce a raggiungere il fine desiderato, perché questo risulta essere troppo alto, non bisogna disperare di raggiungere le vette più alte da un lato, e dall’altro nelle cose importanti che danno lustro, sono grandi quelle che sono le più vicine alle ottime. Cioè questa tensione nella figurazione dell’ideale è ripresa da Castiglione attraverso quello che è proprio nel modello che egli assume nella propria opera rendendolo funzionale al proprio discorso.
E d’altro canto, sempre in relazione a quello che cicerone dice rivolgendosi a Marco Bruto cui è dedicato l’orator, cicerone dice che formerà un oratore quale forse non c’è mai stato: quindi c’è un duplice ambito, da un lato quello che è proprio degli inevitabili limiti del reale ma dall’altro la tensione all’ideale, l’approssimazione massima al grado di perfezione massima è il massimo risultato che si può raggiungere; il massimo grado di perfezione è quello che dà maggior lustro e successo a chi la realizza.
La seconda accusa. A questo aspetto, anche se sembrano due questioni diverse, è collegata anche la seconda accusa e la relativa risposta: perché se non ci fosse stata da parte del Castiglione un’esperienza del mondo reale e del mondo delle corti, dell’attività del cortegiano e di ciò che è proprio del cortegiano non avrebbe mai potuto scriver quest’opera. Quest’opera in cui si configura un cortegiano tale per cui il Castiglione ben sa di non poter essere paragonato non essendo privo di difetti, e infatti conclude questa risposta alla seconda accusa: «ma io non son tanto privo di giudicio in conoscere me stesso, che mi presuma saper tutto quello che so desiderare».
Il giudizio dei lettori. Però la difesa non spetta soltanto all’autore: l’autore fa in propria persona, con la propria voce la difesa della propria opera ma achi affida di fatto la difesa di queste accuse e di altre che possono essere fatte? A chi rimette il giudizio per ora? Lo rimette alla comune opinione. Quindi lo rimette al comune consorzio dei lettori. Qui c’è un’osservazione, anche se in un contesto del tutto diverso, sulla moltitudine nei discorsi machiavelliani, perché «il più delle volte la moltitudine ancor che perfettamente non conosca, sente però per instinto di natura un certo odore (altra espressione ricorrente che rende concreta la rappresentazione) del bene e del male e, senza saperne rendere altra ragione, l’uno gusta ed ama e l’altro rifiuta ed odia» per cui se universalmente il libro piacerà l’autore ne sarà contento, se il libro non piacerà riterrà che debba essere dimenticato e cadere in oblio.
Il giudizio del tempo. Se però i suoi accusatori non si accontentano del giudizio della comune opinione, allora si dovranno accontentare del giudizio del tempo. La categoria del tempo che è continuamente ricorrente già in tutta questa prefazione al De Silva, ma anche in tutta l’opera: il tempo scopre i difetti, ma manifesta anche la verità di ogni cosa.
Conclude con un espressione proverbiale, la troviamo ripresa da più autori, qui è probabilmente tratta dalle Notti Attiche di Aulo Gellio ed è la nota espressione per cui il tempo è padre della verità e giudice senza passione. E quindi affida il giudizio ai posteri: «il quale d’ogni cosa al fin scuopre gli occulti diffetti e, per esser padre della verità e giudice senza passione, suol dare sempre della vita o morte delle scritture giusta sentenzia». E si può aggiungere come chiosa che la grandissima edizione che il libro ebbe diede ragione al Castiglione.
Il problema della lingua
Una piccola chiosa per quello che riguarda il problema della lingua: vi ricorderete che si era accennato al fatto che il manoscritto subisce una revisione editoriale, si parlava del manoscritto della versione definitiva, la terza, il manoscritto cosiddetto L, approntato con poi interventi successivi nella sua forma globale con una data successiva al 1524, e si era detto che questo manoscritto è quello utilizzato per la stampa e abbiamo la mano del revisore che è appunto il Valier, Valiero che è questo letterato veneziano a cui fu affidato questo compito dal gruppo di letterati che si occuparono della stampa. Compito di ricondurre l’opera dal punto di vista ortografico e fonomorfologico a quello che sono le norme toscane: di fatto un adeguamento anche se non in forma minuta a quelle che sono le dottrine bembiane: il Valier è vicino al Bembo. La dedicatoria non fa parte del manoscritto L perché fu mandata direttamente per lettera dalla spagna e non ci risulta alcun autografo ne apografo di questa dedicatoria. Quindi la dedicatoria va tratta dalla princeps aldina del 1528. Questo per dire che questa dedicatoria andò direttamente in tipografia, e che cosa viene fatto di questa dedicatoria sarebbe da studiare meglio. Dico questo perché sarebbe facile per chi ha presente quelle che sono le norme bembiane, ed è sufficiente che si abbia presente il lavoro correttorio che in relazione alle norme bembiane si curò di fare l’ariosto in modo particolare nell’edizione del 21, per scoprire che qui c’è qualcosa che non torna in relazione a quello che sono le norme bembiane: guardate questo «il scriverlo» ecco l’articolo il davanti ad s+consonante sarebbe segnato come grave errore da parte del bembo, è una cosa che dico perché come tutti sapete fin dalle elementari è un errore anche oggi dal punto di vista grammaticale. Alcune di queste forme emergono maggiormente in questa dedicatoria. D’altra prte l’opera del Valerio è un opera complessiva, ci può essere qualche aspetto che non sia sottoposto ad un lavoro di correzione, quello che si può dire complessivamente che certo attraverso l’oepra del valerio ottiene quella regolarizzazione che da solo ai suoi testi Castiglione non era riuscito a dare. Aggiungo un’altra cosa rispetto aa quello che avevo osservato a suo tempo a proposito dello sforzo di Bembo si duperamento di quelle che erano forme dialettali dal punto di vista grafico e fonomorfologico dell’area padada o l’ombrado veneziana complessivamente: problemi analoghi li troviamo nel Castiglione. Se noi prendiamo le lettere del Castiglione noi vediamo il suo modo di scrivere: un esempio per tutti gli scambi ahce abbiamo visto dove abbiamo per esemio paccia invece di pazzia; giaccio invece di ghiaccio, eccetera.
Il Castiglione però aveva cercato a sua volta di eliminare alcuni degli aspetti più vistosi di questi tratti dialettali padani sia da un punto di vista grafico che fonomorfologico: se noi vediamo le stesse lettere scritte da Castiglione e per così dire il percorso cronologico delle lettere e anche quello che ci risulta dai cinque manoscritti che però solo in parte sono autografi, delle diverse redazioni del coregiano, possiamo notare che c’è stata una serie di interventi da parte del Castiglione il quale da solo è riuscito a superare una serie di fenomeni dialettali. Però, come giustamente ha scritto Ghinassi, per quanto riguarda il modo operare del Castiglione è come una «tela di penelope» perché continuava a proporre delle correzioni perpoi tornare indietro a proporre forme già a bbandonate. Quello che il Valier non tocca è quello che riguarda il lessico e l’assetto della sintassi: ci sono due interventi di qui uno particolarmente significativo, di sotanza e di contenuto, per ragioni di opportunità: è della penna del Valier, documentabile su L, però è amio avviso impossibile che il Castiglione non avesse avuto parte perché questo è un punto effettivo che tocc ail contenuto, quindi il Castiglione deve aver approvato la correzione. D’altra parte questa princeps è accolta da Castiglione in vita, e sappiano che voleva correggere alcune cose perché aveva mandato per una seconda impressione un cartiglio con le correzioni che purtroppo non ci è giunto.
Testo
Torniamo al nostro discorso. Abbiamo visto l’importanza dei modelli e il riferimento a Cicerone, che in modo particolare al De Oratore ma anche all’Orator ed altri testi, è in primo luogo di carattere normativo, regolativo, che punta nella figurazione del cortegiano ad una dimensione idealizzante.
Le micro-traduzioni. Ma il modello ciceroniano agisce anche da altri punti di vista (attenzione: non è l’unico modello ma è il modello portante anhe per quello che riguarda molti aspetti della struttura): agisce per quanto riguarda la strutturazione del libro, ed agisce anche in quelle che Floriani ha definito dellemicro traduzioni: cioè Floriani studiando il testo, ma altre se ne possono trovare, ha riscontrato una serie di riferiemnti in particolare all’Oratore e De Oratore che sono delle vere e proprie micro traduzioni, tessere, che sono funzionali al discorso del Castiglione. Non si tratta di copiare, si tratta di prendere spunto, anche tradurre alcune parti, anche dissimulandole all’interno del proprio discorso, anche facendole riconoscere per mostrare la differenza. A questoproposito in modo più minuto ci fermeremo in relazione al terzo libro perché ci sono delle cose interessanti che possiamo vedere più precisamente.
La struttura. Per quello che riguarda la struttura per adesso mi limito a dire che in primo luogo la strutturazione è quella del libro nel suo complesso e non è una novità del Castiglione questa ripresa del modello, per quanto riguarda il dialogo, del modello ciceroniano del de oratore, ne abbiamo già parlato nel primo modulo per esempio col bruni: è il bruni che introduce nella letteratura umanistica in modo significativo il modello ciceroniano per modellare i suoi dialogi.
? Alberti. Abbiamo visto che, anche se si avvale di più modelli ed è un opera sperimentale, il de oratore è un modello essenziale per i libri della famiglia dell’Alberti. Anzi avevo accennato al fatto che Alberti coglie alcuni punti focali del dialogo ciceroniano e rifonda il dialogo in volgare utilizzando non solo il modello del de oratore ma anche il modello del de oratore per strutturare almeno quello che è l’impianto generale del trattato. Fermo restando che l’alberti utilizza una forma mista, come abbiamo visto, da un lato la forma diegetica (all’inizio e alla fine di certi punti del libro) dall’altra una forma mimetica.
La forma diegetica. Al contrario il Castiglione adotta in pieno la forma diegetica. La forma diegetica che comporta una unitarietà di tutta l’opera ed è tale da dare una funzione strutturante in senso forte. Che cosa comporta l’uso della forma diegetica? Lo ripetiamo: c’è una cornice narrativa e poi d’altra prte viene introdotto attraverso la voce dell’autore che si fa narratore, il dialogo, cioè non sono direttaemnte i personaggi a parlare ma sono introdotti dall’autore, tipo «egi disse ridendo» eccetera. Che cosa significa questo? Significa che l’autore mantiene in pieno il controllo sull’opera e che sull’opera ha un controlo che potremmo definire di carattere registico e reso operativo proprio attraverso la voce narrante dell’autore che introduce come narratore i personaggi. Voce dell’autore che è proprio nei termini diegetici, cioè non compare in prima persona, ma compare come voce di narratore.
In relazione al modello ciceroniano, contrariamente a quello che avevano fatto sia il bruni sia l’alberti, il Castiglione, sceglie di essere assente: come cicerone è assente dalla rappresentazione dei dialoghi del de Oratori: c’è una ragione diversa rispetto a questa assenza perché cicerone non avrebbe potuto anche volendo, essere presente, in quanto il dialogo ciceroniano in quanto scritto intorno al 55 a.C. è collocato cronologicamente nel 91 a.C. in un tempo passato e presenta una generazione di oratori che sono ormai scomparsi.
Quella generazione più anziana e prestigiosa: perché nel contesto del dialogo ciceroniano c’è unità per quello che riguarda i personaggi: cioè appartengono tutti all’ambito dell’oratoria, ma non c’è la stessa corrispondenza per quello che riguarda l’età: il Nume Crasso è il personaggio di Maggior Età, poi ci sono altri oratori più o meno della stessa età e poi c’è il gruppo dei più giovani e fra l’altro da uno di questi più giovani cicerone dice di aver sentito raccontare i dialoghi come si erano svolti.
Per quello che riguarda il Castiglione, il Castiglione prende lo spunto la lo modifica: come lo modifica lo vedremo tra poco. Quello di cui si avvale per la strutturazione dell’opera riguarda la strutturazione dei singoli libri: come aveva fatto cicerone (nel de oratore sono tre, un questo caso sono quattro) ad ogni libro viene premesso un proemio, proemio in cui parla in voce propria l’autore, proemio che impegna l’autore e i giudizi dell’autore. Il primo intervento strutturante del primo libro perché ci introduce alla materia del primo libro, e poi cede il passo alla cornice direttamente è di fatto la dedica ad alfonso Ariosto: a lui sono rivolti di fatto tutti e quattro i proemi. Per molti aspetti anche in altri di questi proemi il Castiglione si rifà ai proemi dei libri ciceroniani, e se ne avvale con una funzione per certi versi analoga, strutturante da un lato, funzionale in termini di poetica, di rappresentazione del mondo.
Alfonso Ariosto. Il primo, rivolto ad alfonso Ariosto mette in evidenza quali sono gli intenti del Castiglione. Ricordiamoci che noi abbiamo già letto e visto quella che è la dedicatoria al De Silva, ma quella compare come introduzione a quello che è il trattao concluso. Qui si rivolge ad Alfonso Ariosto in relazione al tempo della scrittura che lascia un senso indeterminato perché come sappiamo il tempo della scrittura non è breve, cioè si rivolge ad Alfonso Ariosto che noi della dedicatoria al De Silva sappiamo morto, ma che qui ci appare vivo naturalmente, Alfonso Ariosto tra l’atro aveva avuto da parte del castiglio un breve ritrattino nella dedicatoria al de silva, si paralva di lui come «giovane affabile, discreto, pieno di suavissimi costumi, ed atto ad ogni cosa conveniente d omo di corte». Ormai Alfonso Ariosto era morto nel 1525, quindi morto al tempo della pubblicazione dell’opera, vivo fino alla conclusione di tutta l’opera, fino alla conclusione appunto del alvoro che aveva fatto nell’ultima redazione il Castiglione.
? Le responsabilità dell’autore. Alfonso Ariosto viene ad essere non soltanto l’interlocutore privilegiato per quello che riguarda il tempo della scrittura ma viene ad essere cooptato nelle comuni responsabilità dell’autore. Alfonso Ariosto, secondo quello che l’autore ci dice in questa redazione definitiva in questo primo proemio al primo libro, era colui che lo aveva sollecitato alla scrittura dell’opera. Così come il Castiglione per corrispondere al dsiderio di Alfonso Ariosto aveva compiuto quest’opera così difficile da realizzare e tale da rischiare di causare un biasimo a Castiglione stesso, così allo stesso modo viene ad essere cooptato come compagno di questo eventuale biasimo. C’è un consueto rapporto di captatio benevolentiae e di interlocuzione ma che viene costruito in modo retoricamente orchestrao in questa duplice prospettiva. Questa non è una invenzione del Castiglione ma è una ripresa funzionale dell’inizio dell’Orator. All’inizio dell’Orator cicerone si rivolge a Marco bruto in relazione al dubbio che qui viene esplicitato, appunto là per aver scritto in relazione alla forma perfetta di eloquenza, qui per aver scritto sul perfetto cortigiano. Ecco la stessa orchestrazione retorica, lo stesso gusto armonico, quella che è con concimnitas ciceroniana si riflette nel dettato in volgare del Castiglione.
Prima dedicatoria ad Alfonso Ariosto
Vediamo questo primo ampio paragrafo. «Fra me stesso lungamente ho dubitato» ecco qui tra l’altro c’è la combinazione, una micro tessera, perché è l’inizio famosissimo del De Oratore ?cogitanti mihi saepe numero «messer Alfonso carissimo» rapporto affettivo privilegiato con l’interlocutore che non è un superiore ma è un pari grado, è un cortigiano della corte ferrarese. «qual di due cose più difficil mi fusse; o il negarvi quel che con tanta instanzia più volte m’avete richiesto, o il farlo: perché da un canto mi parea durissimo negar alcuna cosa, e massimamente laudevole, a persona ch’io amo sommamente e da cui sommamente mi sento esser amato; dall’altro ancor pigliar impresa, la quale io non conoscessi potercondur a fine, pareami disconvenirsi a chi estimasse le giuste riprensioni quanto estimar si debbano» quindi qui pone con la disgiuntiva in modo dicotomico le due alternative del dubbio: o il negare ciò che con così tanta sollecitudine ciò che Alfonso ariosto aveva richiesto, o il farlo. E poi spiega il perché delle due alternative: anche qui potremmo dire: anche qui c’è un andamento dilemmatico ma il senso è completamente diverso rispetto a Machiavelli. Questo è propro esemplato sul dettato ciceroniano. Sul dettato ciceroniano è esemplata anche l’articolazione del discorso nel parallelismo, vediamone soltanto uno: «a persona ch’io amo sommamente e da cui sommamente mi sento esser amato» tra l’altro anche con questo chiasmo, parallelismo da una parte, chiasmo dall’altra.
Alla fine scioglie questa riserva: «In ultimo, dopo molti pensieri, ho deliberato esperimentare in questo quanto aiuto porger possa alla diligenzia mia quella affezione e desiderio intenso di compiacere, che nell’altre cose tanto sòle accrescere la industria degli omini» quindi per affetto per amorevolezza, per voler compiacere ad alfonso ariosto si è messo a fare una cosa di cui conosce bene le difficoltà, il cui esito non è scontato è e che può portare più biasimo che lode.
Poi l’attacco, a sua volta sull’orator: «Voi adunque mi richiedete» sull’oratore è ?queris igitur. Che cosa gli aveva richiesto Alfonso ariosto? Qui le parole sono pesate: «ch’io scriva qual sia, al parer mio» quindi ilgiudizio dell’autore, «la forma di cortegiania» ?forma che corrisponde al latino genus loquendi, «più conveniente a gentilomo che viva in corte de’ príncipi per la quale egli possa e sappia perfettamente loro servire in ogni cosa ragionevole» il compito del cortigiano è servire il principe, non i tutto, perché bisogna seguire la ragione, la ragionevilezza. «acquistandone da essi grazia e dagli altri laude» il rapporto con il principe è da inferiore a superiore. Se il servizio del cortigiano è il servizio che deve essere reso, il cortigiano deve a sua volta conseguire grazia da parte del principe; c’è questo rapporto corresponsivo: la grazia del principe da un lato, e la lode degli altri cortigiani; perché il cortigiano non ha un rapporto solo col principe ma un rapporto con tutta la corte. La corte è da vedere nel suo ambito sotto il profilo di vita associata nella corte. «in somma, di che sorte debba esser colui, che meriti chiamarsi perfetto cortegiano, tanto che cosa alcuna non gli manchi» per quale ragione costruire questa figura è considerato tanto difficile da considerare temerario il nostro autore? Perchpè il nostro autore è ben consapevole della difficoltà di individuare una figura di questo genere quando vi è una estrema verità di costumi. Il fatto che si riferisca al costume fa ben chiaro riferimento a quello che è l’ambito operativo del Castiglione e del nostro trattato: al contrario di quello ciceroniano non si tratta di stabilire una rapporto che là era stabilito tra retorica ed eloquesza da un lato e possibilità di investigazione filosofica dall’altro; ma si tratta di definire il perfetto cortigiano in relazione ai costumi delle corti della cristianità. Come c’è molto forte il senso del tempo, con il variare del tempo, così il Castiglione ha molto forte il senso del variare degli usi e dei costumi. La varietà porta cambiamento, il fissare la figura del perfetto cortigiano significa individuare al massimo grado nella persistenza i valori più altri, da cui una diffrazione, un rischio, e un paradosso: perché la variazione non si ferma, nel momento in cui l’opera viene messa sulla pagina, i costumi continuano la loro variazione e potremmo anche dire, visto il modo della rappresentazione e della cortruzione della corte di Urbino di quel tempo è evidente che l’opera stessa si fonda su un paradosso che è ben presente all’autore, non è fuori dall’ottica dell’autore, è su questo che viene ad essere costruita. «come difficil cosa sia, tra tante varietà di costumi che s’usano nelle corti di Cristianità, eleggere la più perfetta forma e quasi il fior di questa cortegiania, perché la consuetudine» l’uso, la moda, continua a cambiare «la consuetudine fa a noi spesso le medesime cose piacere e dispiacere» da cui una relatività che non si può governare «onde talor procede che i costumi, gli abiti, i riti e i modi, che un tempo son stati in pregio, divengono vili, e per contrario i vili divengon pregiati» un rapporto di contrapposizione e di rovesciamento tra ciò che è in pregio e ciò che è vile e viceversa. E d’altra parte ciò che è l’uso più che la ragione ha la forza di introdurre cose nuove e cancellare le antiche. E dunque qui si tratta di giudicare ciò che per l’appunto continua a cambiare. «delle quali chi cerca giudicar la perfezione, spesso s’inganna» l’opera dunque insidiata dal rischio. E qui ritorna alla excusatio in cui coopta il proprio interlocutore privilegiato, «Per il che, conoscendo io questa e molte altre difficultà nella materia propostami a scrivere, son sforzato a fare un poco di escusazione31 e render testimonio che questo errore, se pur si po dir errore, a me è commune con voi» concludendo dunque che se c’è biasimo questo è diviso con chi glielo ha chiesto: non è minor colpa del Castiglione l’aver accettato questo in carico che l’altro per l’appunto gli ha proprosto un incarico superiore alle sue forze.
Dopo questa introduzione ed excusatio viene a spiegare che cosa farà e come svolgerà la materia.«Vegniamo adunque ormai a dar principio a quello che è nostro presuposto e, se possibil è» c’è sempre questa indicazione che ci viene data della consapevolezza della difficotà e del fatto che sia sempre relativo come compito «formiamo un cortegian tale, che quel principe che sarà degno d’esser da lui servito, ancor che poco stato avesse, si possa però chiamar grandissimo signore» anche questa è una cosa importante: la dignità del rincipe non dipende dalla grandezza dello stato, e d’altra parte il nostro perfetto cortigiano non può che essere un cortigiano che serve un principe degni di questo nome. Questa ulteriore connotazione ci riporta a quello che è proprio dell’origine del trattato: ovviamente guidubaldo da Montefeltro, il Principe della corte di Urbino, è principe si di una corte significativa nel contesto delle corti italiane del primo cinquecento, ma certo lo stato della corte di urbino non rendeva la corte di unbino una grande corte sotto il profilo della estensione.
E poi c’è la spiegazione della modalità che è esemplata su cicerone: «Noi in questi libri non seguiremo un certo ordine o regula di precetti distinti» cioè non c’è una trattazione che viene fatt ainmodo sistematico«che ‘l più delle volte nell’insegnare qualsivoglia cosa usar si sòle» contrariamente alle forme del trattato svlte in forma precettistica. «ma alla foggia di molti antichi, rinovando una grata memoria, recitaremo alcuni ragionamenti, i quali già passarono tra omini singularissimi a tale proposito» quindi l’eccellenza di coloro che svolsero questi dialoghi. «e benché io non v’intervenissi presenzialmente» quindi viene dichiarata subito, in limine al’opera, l’assenza dell’autore «per ritrovarmi, allor che furon detti, in Inghilterra, avendogli poco appresso il mio ritorno intesi da persona che fidelmente me gli narrò, sforzerommi a punto, per quanto la memoria mi comporterà, ricordarli, acciò che noto vi sia quello che abbiano giudicato e creduto di questa materia omini degni di somma laude ed al cui giudicio in ogni cosa prestar si potea indubitata fede» prima di leggere l’ultima frase fermiamoci unmomento. Una serie di elementi significativi: il riferiemnto a un modello che muove dai modelli antichi, Cicerone; non vuole seguire una trattazione di carattere sistematico e precettistico ma vuole avvalersi della grata memoria di quanto avvenuto tempo prima alla corte di Urbino. Al contrario di cicerone il nostro autore non er apresente presente sotto un profilo di temporaneità: cioè Cicerone non poteva appartenere al mondo degli oratori della passata generazione, non poteva per ragioni di età; il Castiglione invece partecipa del mondo della corte, di Urbino, dove furono svolti questi ragionamenti, in quesl momento non era presente perché si trovava in inghilterra. Questa indicazione, che corrisponde effettivamente al tempo in cui il Castiglione si trovava in Ignilterra: i dialoghi si svolgono in quattro sere, come ci ice Castiglione, nel Marzo el 1507. Nel marzo 1507 Castiglione si trovava in inghilterra per un incarico diplomatico di carattere onorifico: in relazione ad una onoreficienza che era stata attribuita a Guidubaldo dal re di Inghilterra Arrigo VII: quindi il Castiglione non soltanto ricorda se stesso qui, ma ricorda se stesso in relazione ad un incarico che gli aveva dato il suo signore che dà onore anche al Castiglione s tesso oltre che al signore e a tutta la corte. Assente temporaneamente ma di fatto partecipe in pieno della corte di urbino che rappresenta. Essendo assente il Castiglione deve, nella finzione, recuperare i dialoghi dal racconto che gli è stato fatto. Qundi c’è un testimone partecipante a questi dialoghi che poco tempo dopo il suo ritorno gliene aveva parlato, allora il Castiglione diche che «persona che fedelmente glieli aveva narrati». A sua volta si deve sforzare, per quanto la memoria comporterà, ricordarli. E questi non sono elementi casuali: perché quella che è la memoria del Castiglione è una memoria di secondo grado: chi glieli ha narrati lo ha fatto fedelemnte ma a sua volta secondo il ricordo che ne aveva in mente; a sua volta il astiglione si sforza di ricordare quello che gli è stato detto e raccontarlo. In questo spazio ci viene fatto intendere, si pone la riscrittura dell’autore. La responsabilità della sua opera è dell’autore stesso; la responsabilità di quelloc he era stato detto viene lasciato a coloro che avevano parlato nei dialoghi. In questo modo gioca in relazione alla propria assenza: non partecipa direttamente, quindi è più libero nella sua funzione autoriale, ovviamente funzione e finzione nei confronti del lettore: non è lui che prende parola direttamente ma sono i suoi personaggi che parlano, apparentemente l’autore li fa parlare come essi effettivamente avevano parlato, però di fatto la fissazione sulla pagina è dell’autore, così come dell’autore è la messa in scena dei dialoghi. L’autore mantiene in pieno la propria responsabilità dell’oper aintera ed è il regista della mess ain scena. E’ stato giustamente detto che in questi dialoghi è la corte che parla, è la corte che parla perché il Castiglione la fa parlare, quindi in questo senso c’è una rappresentazione della corte che al tempo stesso è una rappresentazione di carattere memorialistico, una rappresentazione c he è al tempo statto una celebrazione della corte, e una rappresentazione che al tempo stesso è una idealizzazione mediante la scrittura. Quindi un operazione di fatto piutosto complessa e che ha come esito una scrittura studiata e che al tempo stesso secondo gli ideali del Castiglione vuole nasconder el’artificio e presentarsi nella forma più naturale possibile anche nella rappresentazione dei cuoi dialoghi. Subito dopo ci spiega che bisogna mettere in evidenza come fu la causa di questi ragionamenti e la introduzione della cornice: «Né fia ancor fuor di proposito, per giungere ordinatamente al fine dove tende il parlar nostro, narrar la causa dei successi ragionamenti» e questo comporta l’introduzione della cornice narrativa.
La cornice: paragrafi II – XII
Un precedente negli Asolani. Una cornice che nella parte iniziale dell’opera è estremamente ampia, molto più ampia di quella ciceroniana e di altre su di esso esemplate e che può aver avuto uno spunto semmai in un’altra opera, cioè gli Asolani di bembo, stampati nel 1505 per la prima volta. Che cosa c’è in comune con gli asolani? Alcuni aspetti della presentazione del luogo, il fatto che ci sia la corte; il fatto che i personaggi cono personaggi in una corte; il fatto che si tratti di argomenti di corte. Poi però ci allontaniamo in modo notevole: l’unico che rimante forse è solo l’ampiezza.
Viene molto sfruttata dal Castiglione nelle sue potenzialità narrative: ricorderete che negli asolani abbiamo una cornice di gusto decameroniano, c’è la centralità del giardino, qui invece il dialogo è ininterni, nel palazzo, ricorderete anche che ci sono nomi fittizi negli asolani non della regina ma dei personaggi. Qui invece siamo in ambito storicamente individuato con personaggi storici, come era nella cornice decameroniana per altro.
Il territorio di urbino. Allora, come ci viene presentata questa cornice? E’ una cornice piuttosto elaborata. Innanzitutto ci viene presentato il luogo, urbino. Abbiamo una sorta di visione per momenti successivi. [57:00]. In primo luogo il luogo stesso da un punto di vista generale, Urbino, che cosa si dice di Urbino? Si dice quello che riguarda la bellezza e l’amenità del luogo, la fertilità della terra, la salubrità dell’aria.
Gli ottimi Signori. Si passa subito a celebrare la maggior felicità del luogo stesso che dipende dall’aver avuto ottimi signori, qui si introduce una dimensione che riguarda il tempo: nelle coordinate spazio-temporali abbiano, primo: il luogo in generale; poi il tempo in una duplice prospettiva: il passato e il tempo in generale dei dialoghi. Nella prospettiva del tempo per quello che riguardail passato innanzitutto, per la celebrazione degli ottimi signori, c’è la celebrazione di colui che nel mondo umanistico-rinascimentale era considerato per eccellenza uno dei grandi principi, e cioè Federico da Montefeltro, qui delineato nei tratti propri umanistici del principe ideale. Federico da Montefeltro morto nel 1482. Allora: rassegna di virtù del principe ideale: prudenza, umanità, giustizia liberalità.
? Le Armi. E d’altra parte principe grandee prudente d’animo, ma grande e prudente dal punto di vistamilitare: grande condottiero; animo invitto grande nella disciplina militare. Allora, un principe paragonabile ai grandi modelli antichi, quindi come una sorta di riproposizione nell’attuale dei grandi modelli antichi.
? Le lettere. Secondo la prospettiva del principe ideale del mondo rinascimentale accanto alle armi ci stanno le lettere. Grande conoscitore il nostro federico da montefeltro, uomo colto.
Il Palazzo di Urbino. D’altra parte che cosa si deve a federico da montefeltro? E qui abbiamo un ulteriore avvicinamento per quello che riguarda il luogo: lo splendido palazzo di urbino, che si potrebbe definire una città in forma di palazzo. Splendido palazzo costruito dal Laurana, le lodi sono più che giustificate se qualcuno conosce il palazzo di urbino che è veramente una cosa straordinaria; il palazzo di urbino viene celebrato per la sua bellezza architettonica, per la sua funzionalità e per i tesori che racchiude. Bellezza per ciò che riguarda gli ornamenti, ma bellezza anche per gli aspetti dell’arte.
? il mecenatismo. Un altro degli aspetti importandi di federico fu il suo mecenatismo che qui viene appunto celebrato: si tratta di una celebrazione che riguarda le arti ma riguarda anche le lettere: una cosa importante che ne conclude il ritratto è in relazione ai libri: «Appresso con grandissima spesa adunò un gran numero di eccellentissimi e rarissimi libri greci, latini ed ebraici, quali tutti ornò d’oro e d’argento, estimando che questa fusse la suprema eccellenzia del suo magno palazzo». Abbiamo una costruzione continuata a climax ascendente che conclude così il ritratto di federico da montefeltro. Teniamo presente che questi bellissimi codici sono pressoché quasi tutti attualmente conservati presso la biblioteca vaticana. Sono i preziosi codici Urbinati.
Guidubaldo da Montefeltro. Questo elogio di federico lascia subito dopo il passo all’elogio del figlio guidubaldo che era quello cui si doveva venire in questo processo di avvicinamento, abbiamo visto da un un punto di vista geografico urbino nell’insieme e poi il palazzo di urbino; poi da un punto di vista cronologico il padre, e poi il protagonista del tempo in cui sono ambientati i dialoghi. Il ritratto di guidibaldo in una certa misura corrisponde a quello del padre nella delineazione del principe ideale però si contrappone a quello del padre perché tanto ebbe successo e fortuna il padre federico da montefeltro, tanto fu soggetto ad insuccessi e colpi della sfortuna il nostro Guidubaldo.
? colpito dalla sfortuna. Il nostro guidubaldo è di nuovo rappresentativo nel tema che avevamo visto nella dedicatoria al de silva, dell’intervento negativo della fortuna, contro la virtù: la fortuna si accanisce contro guidubaldo e contro la sua virtù. Si accanisce da un punto di vista fisico, poiché guidubaldo è gravemente malato tanto da essere impossibilitato a muoversi, ormai anche quando era di fatto poco più che un ragazzo colpito dalla gotta, e guidubaldo è molto sfortunato nelle proprie azioni, anche quelle dotate di maggiore virtù. Ciononostante, stoicamente (questa è la rappresentazione di una figura di fermezza stoica) resiste ai colpi della sfortuna e si mette in luce con le proprie virtù militari e di animo e ingegno.
Circondato da uomini eccellenti. Uno dei meriti grandi di guidubaldo è l’essersi circondato da uomini nobili ed eccellenti: il principe grande ed eccellente nella sua corte ha un concorso di nobilissimi ingegni. Ci viene delineato in quello che l’editore ha messo come capitolo III quanto accande nella corte di guidubaldo: non entra in particolari, ma sono indicati alcuni aspetti che riguardano quello che potremmo definire il il tempo del negotium, cioè le attività, e dell’otium durante il giorno.
Durante il giorno. Allora, il principe esercita il proprio ruolo e la propria presenza durante il giorno perché durante la sera a causa delle sue condizioni di salute è costretto a ritirarsi presto nelle proprie stanze. Durante il giorno egli dà regola e norma, quello che non può più fare negli esercizi di cavalleria, lo può fare esercitando il proprio giudizio e la propria funzione attraverso le parole e la propria presenza in relazione all’agire degli altri. Questo si traduce in una serie di enunciazioni delative ad esercizicavallereschi. Su cui non entro nel merito e sono aspetti che facilmente si deducono dalla lettura. Questo riguarda le ore del giorno che sono suddivise in occupazioni e in divertimenti (convenienti, onesti e piacevoli).
La sera. Quando guidubaldo però a causa della malattia e della stanchezzala sera si ritira nella propria stanza allora di fatto la corte si riunisce nelle stanze della duchessa. E’ la duchessa che presiede al tempo dell’otium per eccellenza: quello del desinare, dopo cena, e quello in cui si sono i veri e prorpi intrattenimenti cortigiani. Questa è la consuetudine nella corte di urbino. Consuetudine che per quello che riguarda la duchessa ha uno spazio nella rarappresentazione della cornice che ci dà l’autore piuttosto ampio. Si concentra sulla figura della duchessa, come il principe è nei confronti dei cavalieri durante il giorno, così la dichessa è per tutta la corte durante la sera: la duchessa rappresenta la norma e la figura regolatrice dei divertimenti serali. Il modello, al massimo grado gerarchico naturalmente, di comportamento, colei cui si ispirano tutti quelli che sono nella corte. Quindi, onestà e convenienza, dignità e maestà di comportamento, e al tempo stesso anche piacevolezza: tutti sono tra loro legati d aun onesta catena di affabilità reciproca e il mondo di urbino in questi diverimenti serali rappresenta un mondo di concordia e di amore cordiale. Sempre nella massima onestà: c’è una libertà dei rapporti, perché ci sono uomini e donne, senza alcuna licenza: e non è necessario che ci siano stabiliti dei freni, perché basta la presenza della stessa duchessa per essere per tutti regola e norma: nessuno mai si periterebbe ad un comportamento disonesto in relazione a quello che è proprio di questa situazione di cui è regina a pieno titolo la duchessa.
? La condizione della Duchessa. Non soltanto la duchessa ha queste connotazioni esemplari che diventano modello e regola per tutta la corte, ma a sua volta ha prudenza e fortezza d’animo che sono significative importanti, rare virtù. Massimo esempio di ciò che in una donna può essere di virtù e di animo. Si chiarirà meglio, e questo emergerà con chiarezza nel nostro terzo libro, la condizione peculiare in cui si trova la duchessa: sposata a guidubaldo malato è come se fosse vedova ancor con il marito in vita. Una sorta di vedova bianca, perché ovviamente date le condizioni di guidubaldo non è posssibile che ci sia la vita di relazione comune tra marito e moglie. La duchessa a sua volta ha sempre a sua volta voluto condividere pienamente la condizione del marito. Anche nel tempo in cui le condizioni stesse del marito e dello stato avrebbero reso possibile un suo allontanamento. Quindi la fedeltà è uno degli elementi di fondo che connotano la duchessa e la virtù oltre che prudenza e grandezza d’animo.
I divertimenti di corte. Dopo aver introdotto questo allora viene a spiegarci nella cornice quali erano i divertimenti di corte , e qui abbiano una sorta di spaccato di quello che poteva essere fatto nelle corti: giochi, danze, ragionamenti, questioni amorose, anche una sorta di giochi a indovinelli, allegorie ed altro. E ci vengono rpesentati i personaggi: a questo punto abbiamo l’idea di un ampiezza di presenze piuttosto notevole. Ci sono i cortigiani residenti e quelli che spesso sono attirati li dalla corte e frequentano molto spesso la corte di urbino. Rispetto ad altri trattati in forma di dialogo qui i personaggi si moltiplicano. Si potrebbe vedere in questo, e in parte anche è stato visto, un altro modello, oltre che la volontà di dare un idea di ciò che significa la corte, ci spiò essere anche un rimando specifico al mondo effettivo delle corti, però se vogliamo vederne un altro modello la presenza di un numero rilevante di personaggi che parlano è il modello del trattato in forma conviviale: ricordiamo che il modello di carattere conviviale, che presenta un notevole numero di personaggi ed anche introduce la possibilità di una notevole varietà di argomenti. ??? [1:12]
I personaggi
Qui ci sono presentati i personaggi. I personaggi che ci sono rpesentati sono in una certa misura messi in ordine di entrata, cioè noi abbiamo in primo luogo i personaggi principali, quelli che saranno di fatto i portavoce dell’autore in diverse parti dell’opera. Tra questi nobilissimi ingegni celeberrimi sono: (io qui mi limito ad enunciarne i nomi, poi le connotazioni dei personaggi e le loro caratteristiche le ricavate nelle notazioni):
I personaggi principali:
? il signor Ottaviano Fregoso: a lui spetterà nel quarto libro una dellet rattazioni capitali: il rapporto tra il principe e il cortegiano. Gli spetterà perchp il fregoso fu tra l’altro, non nel tempo fittizio dei dialoghi ma in anni successivi, doge di Genova, e avrà di fatto una posizione molto importante.
? Il fratello: messer Federico, a sua volta un personaggio significativo ed importante, che divenne prima arcivescovo poi cardinale; federico fregoso è di fatto il personaggio che di fatto introduce il gioco del perfetto cortigiano, e è quello a cui è affidata la trattazione principale del secondo libro.
? Il magnifico giuliano de medici (nostra vecchia conoscenza!) è colui al quale in prima battua viene affidato (non è l’unico interlocutore né l’unico che svolge questa trattazione) nel terso libro il compito della formazione della perfetta dama di palazzo: il difensore delle donne per eccellenza.
? Messer pietro bembo: non ha bisogno di presentazioni, bembo, personaggio pure principale del quarto libro a sua volta, condivide con ottaviano fregoso la funzione principale nel quarto libro, nella seconda metà del quarto libro è il bembo che tratta il tema dell’amore spirituale. Il bembo non interviene nella discussione sulla lingua: nel secondo libro c’è un ampia digressione sulla lingua ma li il bembo non ne ha parte.
? Messer Cesare Gonzaga: uno dei personaggi più spiritosi e brillanti. E’ personaggio molto caro al Castiglione, era suo cugino, il gonzaga è il secondo campione delle donne nel terzo libro.
? Il conte Ludovico da Canossa, è un personaggio dalla carriera ecclesiastica e gli è affidata la trattazione principale del primo libro dell’opera.
? Gasparo Pallavicino: questo è un personagigo particolare, uno dei più giovani tra i personaggi di corte qui presenti ed è quello che per eccellenza ha il ruolo di contraddire, è potremmo dire il bastian contrario di questi dialoghi, ed è anche quello che ha la funzione di misogino: lo troveremo spesso nel terzo libro perché è colui che di fatto sostiene una tesi già di fatto sostenuta nel secondo libro, secondo la quale le donne sono non animali (esseri animati) perfetti ma piuttosto imperfetti. Il nostro pallavicino introduce nel dialogo la voce dell’aristotelico, non dello sciocco aristotelico, ma dell’aristotelico comunque, e anche su questo lo vedremo.
Ce ne sono anche degli altri che mi limito a citare:
? morello da ortona: il più anziano e che diventa quasi una macchiettà in questo suo essere anziano;
? al contrario messer roberto da Bari è il più giovane in assoluto e poi ce ne sono degli altri. Queste sono le punte indicate perché la corte aveva molti altri nobilissimi cavalieri. C’è poi la schiera di quelli che non erano sempre presenti perché non erano residenti alla corte: ci sono i cortigiani che sono al servizio del signore e che possono essere o direttamente stipendiati dal signore o che per rapporti di carattere feurale appartengono alla corte; poi ci sono personaggi nobili che sono attratti dallo splendore della corte e molto spesso partecipano a quello che sono le attività della corte: tra quest ultime cito Bernardo Bibbiena. Con il gonzaga è uno dei personaggi più brillanti e arguti e per questa ragione al bibbiena viene affidato nel secondo libro il compito di trattare delle facezie: il bibbiena lo abbiamo ricordato in quanto autore della fortunatissima commedia «la calandria» ce fu rappresentata ad urbino nel 1513 per l’allestimento curato dallo stesso Castiglione. Tra questi ultimi personaggi non residenti ricordo l’ultimo citato: Nicolò Frisio, il Frigia, che avevo citato ieri; di origine tedesca, l’altro nemico delle donne ma molto meno elaborato nel discorso e fine rispetto al pallavicino e quello per il quale castil’ione aveva scritto in origine quella lettera al frisia che è il nucleo originario, la matrice del trattatello sulle donne. Adesso nell’ultima redazione, le parole più vivaci, più pittoresche del frigio sono tagliate ma qualcuna ne rimane.
Questa schiera di personaggi è conclusa per l’appunto da un indicazione di carattere generale che dice che sempre «sempre poeti, musici e d’ogni sorte omini piacevoli e li più eccellenti in ogni facultà che in Italia si trovassino, vi concorrevano» alla corte di Urbino. Abbiamo così definito il luogo in generale e il tempo in generale: la corte al tempo di Guidubaldo.
Ulteriore restringimento: l’occasione
Abbiamo anche circoscritto il luogo: abbiamo visto Urbino, il palazzo, le stanze della duchessa: ora ci vienecircoscritto il tempo: queste occupazioni che si svolgevano, occupazioni piacevoli che si svolgevano sempre ebbero un esito particolarmente significativo e superiore addirittura al consueto in quattro sere consecutive nel Marzo 1507: viene introdotta l’occasione: come vedete è una cornice molto elaborata, molto ampia, costruita con una serie di cerchi concentrici possiamo dire, e siamo arrivati adesso al centro dei nostri cerchi.
Allora, le circostanze quali sono? Innanzitutto viene ricordato un dato sotto il profilo storico e politico: dell’anno precedente il Papa Giulio II aveva dato luogo alla spedizione di riconquista di Bologna. Aveva concluso la propria conquista nel corso del 1506 e all’inizio del 1507 di era trovato, ormai conclusa la spedizione, a ritornare indietro e a ritornare alla prpria corte a roma, ed era passato con la propria corte da urbino, dove era stato onosta. Addirittura si erano trovati nella corte il Papa i cardinali e tutto il seguito del papa e questi personaggi erano stati soddisfatti della corte di urbino. Quando il papa e la sua corte erano ritornati, una parte di personaggi erano rimasti, attirati dalla bellezza della corte di urbino, ed erano rimasti li pèer molti giorni. E oltre ai divertimenti ordinari i cortigiani della corte di Urbino avevano voluto onorare gli ospiti eccellenti con giochi e divertimenti superiori al consueto e al tempo stesso avevano voluto dare un ulteriore prova della propria eccellenza. In questo contesto si inserisce il gioco per perfetto cortegiano.
In cerchio. Ci viene appunto detto che il giorno dopo alla partita del papa, riunitisi ogni sera si trovano i cortigiani e come ogni sera la Duchessa ha fatto sedere in un cerchio tutti i cortigiani presentei: sedere in cerchio, motivo già decameroniano ricordiamo e ripreso anche negli asolani. Questo indica che tra i cortigiani c’è una parità di condizioni. D’altra parte c’è un’altra cosa che viene specificata: vengono messi alternati uomini e donne finché il numero delle donne era sufficiente ( ma c’erano più uomini che donne, eda nche questo viene specificato).
Il ruolo di Emilia Pio. Come goni sera la duchessa deve dare l’inizio e lascia il carico come ogni sera adEmilia Pio. Allora, dopo la duchessa, la donna che ha il ruolol più significativo nella corte per quello che riguarda questi intrattenimenti serali è appunto Emilia Pio, citata in precedenza tra le presenze presso la duchessa, e la Pio (a sua volta rimasta vedova di uno dei montefeltro) aveva l’incarico di proporre per prima il gioco. Allora emilia pio dopo aver rifiutato l’impresa di proporre il gioco, dato che la duchessa vuole che sia lei a proporlo, ha l’idea di proprorre come gioco: il proporre un gioco che non sia mai stato fatto prima.
Un gioco continuo di raddoppi. Aveva già accennato ieri che c’è qui in gioco di raddoppiamenti, una virtualità che viene mesa in atto specularmente per cui di fatto in questo senso si viene a creare un immagine che virtualmente ci rappresenta la corte e il suo doppio: con il gioco che consiste nel proporre un gioco, cioè questa ottica di raddoppiamento che è un ottica interna importante e significativa, propria della messa in scena della corte.
La schermaghia. In questo senso allora, emilia pio passa la parola a quello che aveva prossimo, e qui c’è una schermaglia: inizia come se fosse una gistosa schermagli di corte; il modello potrebbe davvero essere quello degli asolani, infatti il Pallavicino cui toccherebbe parlare naturalmente subito si lamenta perché la proposta reale toccherebbe farla ad Emilia. Allora interviene la duchessa ridendo e dice che si deve ubbidire ad Emilia Pio che viene nominata Luogotente della duchessa: quindi sarà Emilia Pio a svolgere per conto della Duchessa 8quindi anche qui abbiamo du figure: la duchessa che è gerarchicamente più altra che incarica ad Emilia pio di controllare lo svolgimento) quindi Gasparo è costretto a parlare e aproporre il gioco dicendo che appunto le donne sempre si sottraggono e lasciano la fatica sempre agli uomini. Allora gasparo propone un primo gioco.
Allora, i giochi che come dicevano erano nella prima redazione ancora più ampi, nella seconda erano ancora 14, qui si dimezzano di numero e sono ridotti. I giochi ruotano quasi tutti intorno a tematiche amorose varie, brevemente:
1) per Pallavicino si tratterebbe del gioco che ciascun dicesse di che virtù soprattutto volesse fosse ornata la donna amata e quale vizio avesse che fosse meno da biasimare. Teniamo presente che finché non interviene emilia pio a dire che il gioco va bene, tutti devono proporre un gioco. Essendo accanto al pallavicino dall’altra parte un’altra donna, che è Costanza fregosa, dovrebbe parlare Costanza, ma dato che è stato sottratto questo compito ad Emilia pio, viene sottratto a tutte le altre donne: solo gli uomini hanno il compito di proporre il gioco. Allora dopo il Pallavicino, non parlando la donna che è di fianco, la parola passa a Cesare Gonzaga. Troviamo qui introdotto un altro motivo: il paradisso.
2) Cesare Gonzaga che è personaggio molto brillante e arguto ha in mente il tema della pazzia. E qui noi ci troviamo specularmente al tema della perfezione di cortigiania: il paradossa della perfezione della pubblica pazzia. Dato che ciscuno ha in se un seme di pazzia, che sollecitata viene a manifestarsi pubblicamente, così facendo riferimento a questo spunto, il gioco che propone il Gonzaga è questo:«vorrei che questa sera il gioco nostro fusse il disputar questa materia e che ciascun dicesse: avendo io ad impazzir publicamente, di che sorte di pazzia si crede ch’io impazzissi e sopra che cosa» eccetera. (cap IX) E questo naturalmente suscita vivacemente i cortigiani, tutti ridono di questo gioco e non c’era nessuno che si trattenesse dal proclamare di quale genere di pazzia sarebbe egli stessi impazzito, c’era chi diceva che impazzirebbe nel pensare, chi nel guardare, chi diceva io sono impazzito in amare eccetera.
3) Interviene a questo punto il personaggio che ha la funzione del buffone: Fra Serafino. Ora, la parte delbuffone era molto più ampia precedentemente edè ora molto ridotta, e come vi ricordavo qui c’è una riconsiderazione più rigorosa della funzione dei personaggi e viene immediatamente tacitato da Emilia, perché che cosa vorrebbe fare? Vuole introdurre delle ciance relative al parere che ciscuno può avere del fatto che quasi tutte le donne hanno in odio i topi e amano i serpenti, e solo lui ritiene di averne la soluzione. Intervine Emilia Pio in maniera piuttosto secca poiché ci viene detto «ma la signora Emilia gli impose silenzio». Allora la parola passa ad un poeta di corte presente: bernardo accolti detto l’unico aretino.
4) Qui si inserisce una sorta di siparietto: questo Accolti mostrava di essere segretaemnte innamorate della Duchessa, la quale naturalmente non corrispondeva, e allora, l’accolti metteva in campo il tema della sofferenza in amore proprio e della crudeltà in amore, nei confronti di cortigiani che l’amavano da parte della duchessa. Quindi introduce una questione di carattere più personale e propone «che ognun dica ciò che crede che significhi quella lettera S, che la signora Duchessa porta in fronte». A questo punto il siparietto conclude poiché questa cosa la poteva sapere solo lui, e nell’invito di fatto a dire un sonetto che egli finge di improvvisare. Un sonetto apprezzato dalla corte ma che per la sua eccellenza non è creduto improvvisato come l’Unico voleva fingere che fosse. Dunque, il motivo anche della poesia recitata nella corte che ci ridà effettivamente uno dei costumi della corte.
5) Intervengono ancora con una questione amorosa, sia Ottaviano fregoso sia il Bembo. Ottaviano fregosovuole che si dica, avendo ad essere sdegnata seco con se quella persona che egli ama, quale causa vorrebbe che la inducesse a tale sdegno.
6) Bembo si inserisce sulle parole del fregoso e a sua volta vuole che si dica da chi vorrebbe che nascesse la causa: una casistica amorosa.
7) L’ultimo che parla è appunto federico fregoso che sposta il discorso in un’altra direzione e propone un gioco del tutto diverso un gioco che riguarda la lode stessa della corte: «chi volesse laudar la corte nostra, lasciando ancor i meriti della signora Duchessa» ben potrebbe, e parafraso, senza essere sospettato di adulazione dire che in nessun’altra corte di italia si possano trovare dei corigiani così eccellenti. Eccellenti oltre quella che è la principale profesisone del cortigiano che è la cavalleria: perché in primo luogo il cortigiano come sua professione doveva essere uom d’arme, vale a dire cavaliere. «se in loco alcuno son omini che meritino esser chiamati bon cortegiani e che sappiano giudicar quello che alla perfezion della cortegiania s’appartiene, ragionevolmente si ha da creder che qui siano» dunque questo gioco della perfezione della cortigiani a pieno titolo si introduce in questa corte che è rappresentata come la più eccellente possibile fra tutte le corti di Italia. E questo vale a rintuzzare chi non è cortigiano e vuole acquistarne il nome pur non avendone le competenze e le capacità. Allora gioco proposto qual è?«Vorrei che si formasse con parole un perfetto cortigiano». Formar con parole, che riprende in micro traduzione oratione fingere, quindi formare con il discorso il perfetto cortigiano. Il fatto che ci si avvalga di questa espressione non è secondario: l’ambito in cui qui ci si pone è il formar con parole, l’ambito dunque di carattere retorico: discorso. Ccosì come il modello, che è il De Oratore, si pone in un ambito retorico e argomentativo nel’ambito di un piu ampio rispondere.
I motivi della scelta. Il gioco è considerato tra i migliori proposti da Emilia Pio con naturalmente l’approvazione di tutti i circostanti. Abbiamo notato l’impostazione diversa fatta data al gioco fin dall’inizio da parte del Fregoso. Mentre le altre questioni proposte erano amorose, qui ci si rivolge all’ambiente stesso della corte. Il formare con parole il perfetto cortegiano pone un particolare rapporto tra reale e ideale. Perché il fregoso aveva introdotto le sue consideraizioni con una grande lode della corte di urbino. In questo senso il gioco pone un rapporto nell’enunciazione che è stata fatta tra il formare con parole la figura ideale del perfetto cortegiano e quello che è di fatto nella rappresentazione che ci viene data dallo stesso autore del fregoso della corte di urbino. D’altra parte abbiamo visto come la formazione della figura del perfetto cortigiano era giustificata anche in relazione a la volontà di controbattere chi pretendeva di giudicare se stesso un buon cortigiano e invece non ne aveva in nessun modo la capacità e le competenze.
Le regole del gioco. Il gioco viene proposto anche con delle modalità: viene proposto che si scelga uno dei cortigiani presenti che formi il perfetto cortigiano e tutti gli altri in quelle cose che non pareranno convenienti possono contraddirlo.
? La contraddizione. In questa contraddizione si introduce, ma è una per così dire un richiamo analogico(perché non è un discorso filosofico che qui viene fatto) «come nelle scole de’ filosofi a chi tien conclusioni» introduce in questo senso un procedimento dialettico che qui però è in funzione dellaconversazione. In alcuni punti vedremo la discussione verte su temi di caratterepiù propriamente filosofico e allora c’è un dibattito che introduce anche elementi di disputatio in questo senso.
Il contraddire d’altra parte ha anche la funzione di rendere il gioco più vivace, perché altrimenti riuscirebbe freddo. Interviene Emilia, dicendo «piace, sarà il nostro gioco per ora». Il richiamo della Duchessa non è da sottovalutare: è la Duchessa che investe Emilia Pio del compito di essere la luogotente; ma il potere delle serate è sempre nelle mani della duchessa, che ha si investito Emilia pio come luogotenente, ma è sempre la Duchessa cui si fa capo per l’autorità che la duchessa rappresenta. Emilia Pio si rivolge alla duchessa perché sia lei a scegliere chi debba condurre questa trattazione sul perfetto cortegiano. Vorrebbe sottrarsi Emilia Pio alla scelta per non fare torto a nessuno. Ma la duchessa la richiama ai suoi doveri e dunque sarà lei a decidere.
Il “Paradosso” . Un altro aspetto è il paradosso: il carattere del gioco apre il campo da un lato del divertimento (gli aspetti ludici legati al gioco) e dall’altra la possibilità e virtualità nel discorso. In questo si inserisce anche quello che è proprio del paradosso. Noi ci dovremmo aspettare da parte di emilia la scelta del cortegiano miglio in assoluto che possa trattare del perfetto cortigiano. E invece la scelta di Emilia Pio è proprio giustificata al contrario: sceglie il conte ludovico da Canossa dicendo per l’appunto che scegliendo lui ci sarà uno spazio alla contraddizione senza la quale il gioco diverrebbe freddo. Se si scegliesse un altro che potesse dire la verità sul perfetto cortegiano non lo si potrebbe contraddire. Quindi colui che ha scelto è scelto apposta perché venga contraddetto: è un motivo di carattere paradossale, e di carattere luidico che dà luogo d’altra parte a scherzi, poiché il canossa dice per esempio che essendo Emilia Pio una che sempre contraddice non c’è pericolo che la contraddizione possa venire meno.
Ma c’è anche l’introduzione di una chiave di lettura che per quanto possa essere interpretata anche nell’ottica della sprezzatura, che più oltre sarà enunciata dallo stesso Canossa, cioè da parte dell’autore l’introdurre un argomento serio e significativo, come se fosse il più bel gioco del mondo, la scelta sul canossa chè è identificato da Emilia Pio come personaggio meno adeguato a svolgere questo compito, è indicativa proprio perché il Canossa può dire di se che per l’appunto quello che per burla ha detto Emilia Pio è in realtà verissimo, nel senso che c’è differenza tra quello che egli sa, e quello che sa operare: e cioè potrà dire qual è il miglior cortigiano, ma non come diventa tale. Quindi viene sottratto lo spazio a quello che è un vero e proprio insegnamento: non sarà infatti un libro di precettistica, anche se qualche indicazione di tipo precettistico pur sarà data, ma una trattazione relativa alla figurazione del perfetto cortigiano, cui saranno date delle regole universalissime.
E d’altra parte il nostro canossa spiegherà che è ben difficile identificare la vera perfezione: bisogna investigare in modo ragionevole cercando la perfezione nascosta: ci sono molti che pensano di parlare di una virtù in realtà utilizzando il vizio propinquo, vicino a questa virtù. E’ difficile trovare la verità, investigare. Non è un investigazione quella che verrà qui fatta, ma l’espressione del giudizio di chi parla: infatti il canossa diche che non vanterà di avere questa cignizione di questa cosa così occulta e difficile che è la vera perfezione ma non potrà altro nel suo discorso se non lodare quella sorte di cortigiani che più apprezza, e approvare da parte sua quello che gli sembra più simile al vero, secondo il suo poco giudizio.
Questo ha a che fare con il topos modestiae e col paradosso di cui sopra, ma ci riporta anche a quell’ottica, quella concezione di approssimazione che abbiamo visto nella dedicatoria al de silva, e d’atra parte anche a ciò che c’è di relativo al giudizio, non soltanto di relativo del giudizio del canossa nei confronti dei giudizi degli altri; ma anche di relativo del giudizio del canossa di oggi rispetto a quello che potrebbe essere domani il giudizio del canossa. Infatti dice: «il qual seguitarete, se vi parerà bono, o vero v’attenerete al vostro, se egli sarà dal mio diverso. Né io già contrasterò che ‘l mio sia migliore del vostro; ché non solamente a voi po parer una cosa ed a me un’altra, ma a me stesso poria parer or una cosa ed ora un’altra». Non è dunque una trattazione fatta per da un insegnamento determinato, volutamente qui si pone uno dei cortigian, tra gli altri cortigiani della corte, che esprime i propri giudizi. Giudizio che è giudizio dell’oggi. E questo evidenzia ulteriormente quali sono i termini in cui si muove il trattato. Ben consapevole il Castiglione della difficltà dell’individuare questa figura di perfetto cortigiano, della variazione dei giudizi, della variazione di questi nel tempo, e di quanto vi sia di spazio, di confronto, di tensione tra le parole che vengono dette e la figurazione del cortigiano, quindi l’approssimazione all’ideale nelle parole e al tempo stesso al rapporto di tensione tra cio che è nella realtà e cio che è dell’ideale.
Per mettere più in evidenza l’ambito di questo ragionamento, ho omesso un passo che precede quello or ora letto e che ci interessa da un altro punto di vista, e cioè per quello che riguarda la struttura e l’impostazione. Secondo anche qui il modello ciceroniano che poi è seguito come abbiamo visto nei tratti che si rifanno al de oratore, si vuole iniziare la trattazione, nell’ambito della prima parte del libro, nella prima serata in questo caso, senza che vi sia una predisposizione del discorso: questo aspetto qui è esplicitato con chiarezza, perché quanto questo compito è attribuito al canossa il gonzaga interviene facendo presente che l’ora è già avanzata ed essendoci altri piaceri predisposti sarebbe possibilerimandare alla serata successiva, in maniera che il canossa abbia tempo di pensare ed impostare bene il suo discorso.
Ma il canossa rifiuta, e anche qui c’è una voluta dissimulazione e una finzione della naturalezza di questi dialoghi, e non vuole fare la figura di quello che si toglie gli abiti che non gli consentono di saltare, e poi salta meno che con l’abito che lo impacciava. E quindi vuole dare prova di sé e iniziare subito a parlare, impostando un discorso non preordinato: e questa è una finzione di naturalezza che viene messa in atto scenicamente dall’autore. Il modo di procedere del canossa è un modo in cui il canossa prende l’arbitrio del proprio discorso, si asssume l’arbitrio delle scelte di quello che vuol dire: «io voglio adunque che sia». E’ una formazione fatta con parole.
Inizia la formazione del cortegiano
Nobile e Generosa famiglia. Allora ci sono alcune cose che dobbiamo ricordare di questo libro, determinanti per questa figura del cortegiano: la scelta che fa il canossa è in primo luogo relativa alla condizione di origine del cortigiano: vole che sia nobile, nato nobile e di generosa famiglia. Mette in evidenza i motivi di questa scelta sia di quello che riguarda la convinzione del canossa che la nobiltà di orgini sia uo stimolo eduna spinta a fare cose lodevoli, sia quello che riguarda il nome, la fama, l’impressione che questo elemento di orgine porta con sé.
Primo contenzioso. Sul fatto che il perfetto cortigiano debba essere nobile si apre immediatamente il contenzioso. Perché il Pallavicino si assume immediatamente il ruolo del contraddittore per eccellenza. Ora non entriamo nel merito delle ragioni dell’uno e dell’altro ma il canossa ad un certo punto fa presente che quella è la sua scelta e va avanti, poiché è lui che sta formando il perfetto cortegiano. Scelta che si basa non solo sulle sue convinzioni ma anche proprio in relazione di quel tema della fama e di ciò che è importante in termini di apparenza.
? L’apparire. Teniamo presente che il mondo della corte è il mondo di ciò che appare, l’essere per il cortigiano non è sufficiente: l’avere buone qualità non è sufficiente se queste qualità non si manifestano e non sono riconosciute. Questo non significa che al Castiglione interessi l’apparenza e non la sostanza, non è così in effetti, però è vero che viene sottolineato questo motivo dell’apparire, l’impresisone che viene data; anzi, addirittura la prima impressione: se un cortigiano va in una corte dove non è mai stato prima è importante. Ed è importanche non solo in relazione al principe, ma in relazione all’opinione universale che si ha di lui.
La grazia. D’altra parte si connette a quello che fin dall’inizio dice il canossa, il tema cardine della grazia: la grazia può essere un dono del tutto naturale. Qui viene collegato a quello che viene ben accetto, grato, il cortigiano a partire dal suo essere nobile, e viene appunto collegato questo dicendo poi in conclusione: «voglio che il cortigiano abbia una certa grazia e un sangue che lo faccia a chiunque lo vede grato ed amabile». L’essere pieno di grazia può essere un dono totale della natura, ma c’è anche chi non si trova in queste condizioni: quindi con fatica e studio deve correggere i difetti della sua natura.
Un esempio: Ippolito d’Este. Quindi, chi viene riconosciuto tra coloro che sono illustri nelle corti, si trova in una condizione elevata, ma non nella corte di urbino bensì nella corte di ferrara, è il cardinal Ippolito, che a sua volta era reggente del ducato di ferrara. Si introduce nell’esempio anche una serie di motivi di carattere encomiastico. L’uso degli esempi è funzionale: in linea di massima gli esempi però non sono solo esempi positivi, come in questo caso, molto spesso sono esempi di atteggiamenti e attitudini da evitare, e danno anche la concretezza e la vivacità dell’aneddoto.
Dovendo però e volendo scegliere cio che è proprio del perfetto cortigiano gli attribuisce anche una certa grazia naturale venuta lui dalla natura, il tema della grazia ritornerà poi oltre, e vi si soffermerà perché è un tema cardine di tutta l’opera.
La professione del Cortegiano. Passa poi a metter ein evidenza quelle che sono le professioni del cortigiano: che cosa deve essere e saper fare il cortigiano. E la pria professione è la professione delle armi: il cavaliere. Uom d’arme è colui che esercita la professione delle armi a cavallo, è il cavaliere. E anche qui si mette in evidenza come questa professione delle armi si colleghi anche a ciò che è proprio del modo di essere del cortigiano che deve essere dotato di coraggio e forza d’animo e al tempo stesso, in relazione alla professione delle armi cviene messo in evidenza come la manifestazione dell’essere il nostro cortigiano competente e abile, pronto, capace nella professione delle armi, debba essere manifestato a luogo e tempo debito: e qui abbiamo una serie di esempi molto gustosi sull’eccesso di non curanza che viene esibito, come quello che essendo stato trapassato dalla lancia nella coscia, fingeva di essere stato colpito da una mosca; oppure quello che sosteneva che non si poteva guardare nello specchio quando era armato perché senò si sarebbe fatto paura da sé.
La medietas. Attraverso anche aneddoti di questo genere si mette in evidenza la misura. La concezione propria della medìetas che è un concetto naturalmente oraziano, ma ancora prima aristotelico per la verità, ripreso ampiamente nell’umanesimo: la misura e il controllo; l’evitare gli eccessi. Eccessi che possono venire da un eccesso di esibizione da un lato, ed un eccesso di mancata esibizione dall’altro. Gli eccessi del tropo e del troppo poco.
I commenti e le facezie. Prima di procedere oltre teniamo presente qual è la funzione degli altri personaggi: abbiamo visto la funzione di contraddizione del pallavicino. Ma ci sono anche altre funzioni che sono quelle del fare commenti, dell’introdurre osservazioni, e in questo modo si aggiungono anche altri elementi e considerazioni. E poi c’è quello che è proprio del gioco di corte: l’elemento faceto, le battute facete. E in questo i due personaggi più brillanti sono il Bibbiena, e Gonzaga. Questa parte legata al riso, presente e sottolineata anche attraverso elementi di carattere diegetico, che noi troviamo nella terza redazione è sotto l’attento controllo dell’autore.
Anche in questo senso non ci devono essere eccessi, anche su questo la regia dell’autore ha esercitato la sua potatura rispetto alle redazioni precedenti. Anche nella messa in scena dei suoi personaggi il Castiglione è estremamente attento ad evitare gli eccessi: se ci fosse una trattazione continuata e condotta per voce dello stesso personaggio in modo tale da non dare adito all’intervento degli altri personaggi, o non fosse la trattazione del personaggio principale fatta in modo piacevole, oltre che utile, incorrerebbe in un eccesso negativo, che colpirebbe negativamente il lettore, così si deve evitare l’eccesso degli elementi faceti, scherzosi del riso. La medietà deve essere anche proprio in un conguaglio attento in modo che la nostra sia rappresentata come un conversazione piacevole, varia, dignitosa ed adeguata a quello che è proprio il pubblico interno della corte. E c’è un attenzione da parte del Castiglione dal punto di vista stilistico all’eleganza e al decoro nello stile, ma al tempo stesso una capacità notevole a riprodurre una finzione elegante di oralità, in modo che non si incorra nel vizio dell’affettazione.
Le domande. Abbiamo detto che ci sono delle regole nel gioco: la regola è che canossa parli, e quando canossa dice qualcosa che non viene giudicato conveniente e condiviso dagli altri si intervenga. Non è previso il fare domande all’inizio.
? La trasgressione del Bibbiena. Ma a questo punto c’è una trasgressione, una prima trasgressione fatta daBibbiena che laddove si parla degli esercizi del corpo che sono collegati con tutto quello che è esercitazione per diventare abili nelle armi (perché per diventare abili nelle armi ci sono tutta una serie di esercizi) il bibbiena introduce una battura faceta che riguarda anche il corpo e la prestanza del corpo del cortigiano, e d’altra parte anche la bellezza del cortigiano stesso, visto che il bibbiena non è particolarmente prestante. Su questa domanda del bibbiena, e cioè su come si possa fare se la prestanza fisica del cortegiano non corrisponde con quello che ha detto, il canossa aveva risposto e subito dopo interviene il Gonzaga rilevando l’infrazione commesas da Bibbiena che aveva fatto la domanda, e rivendicando dunque a sé lo stesso diritto. Ma a questo punto non gli viene passata questa, perché la duchessa non può consentire che le regole del gioco vengano infrante.
? la nuova regola. Allora interviene come mediatrice Emilia Pio che consente che si introduca questa ulteriore regola che modifica la prima: non più soltanto contraddire, ma anche fare domande. E qui si vede bene il gioco delle aprti: Emilia pio luogotenente ha a sua volta il compito di rappresentare la duchessa, ed investita del ruolo di luogotenente riesce ad ottenere dalla duchessa che si modifichi in parte la regola posta. Quindi si introduce la possibilità di domandare e non viene punito il fallo commesso.
Questo consente di dare ulteriore vivacità al dialogo, mettere a fuogo i ruoli rispettivi, ma anche di introdurre un elemento che è proprio del dialogo diegetico, anche nella matrice ciceroniana, quello che il Tasso aveva indicato come la maniera più facile: che domanda chi non sa. Qui viene introdotta la possibilità di fare domande, e il canossa dunque non continua solo per la sua strada rispondendo alle obiezioni, ma deve anche rispondere anche a specifiche questioni che gli vengono poste. E questo ampia il campo della trattazione. [30:00]
Come si acquista la grazia? Qui viene introdotta proprio dal gonzaga una domanda cruciale: è il fatto che il Gonzaga, molto attento (presentato come uno dei personaggi più acuti) ha notato che nelle cose dette dal canossa la parola grazia ricorre quasi «come se fose un condimento di ogni cosa». E allora che cosa vuol saper eil gonzaga? «con quale arte, con quale disciplina e in quale modo i cortigiani possono acquistare questa grazia» e mette in evidenza il fatto che secondo lui da come è stato inversito del ruolo di svolgere il compito di formare con parole il perfetto cortegiano al canossa spetti dare anche questo insegnamento.
Come è non come si diventa. Il canossa si sottrae: non è obbligato a fare questo, il suo compito non è insegnare, quindi quello che il canossa non è obbligato a fare è il come si possa essere perfetto cortigiano ma il suo compito è stabilire quale sia il perfetto cortigiano. «Così come un soldato può spiegare al fabbro quael sia l’arma che vule ma non dire al fabbro come deve essere fatta l’arma» in questo senso si sottrae anche alla possibilità di fare tutto, ci sono cose che non può fare, lui può solo dire come deve essere: può dare solo delle regole universalissime, rifiuta l’insegnamento e una specifica precettistica.
? i migliori maestri. Tornando agli esercizi del corpo tra queste regule universalissime troviamo in primo luogo, fermo restando che la grazia non si possa imparare, e che ci debba essere quantomento una attitudine ad avere la grazia, sugli esercizi che riguardano il corpo la prima delle regole universali è che bisogna avvalersi fin dall’inizio della propria formazione dei migliori maestri. E dai migliori maestri bisogna apprendere le cose migliori che questi insegnano: e qui introduce una similitudine che è quella dell’ape, l’ape che sugge il nettare da diversi fiori e poi appunto produce il miele.
Regola universalissima: evitare l’affettazione. Ma la regola universalissima, la cosa più importante che riguarda la grazia nel capitale capitolo XXVI è quella dell’evitare come uno scoglio l’affettazione e invece dare di sé, usare in ogni cosa una certa sprezzatura, per usare una parola nuova, una disinvoltura nel fare le cose che nasconda l’alrte: l’arte deve essere acquisita ma nascosta. Quello che si fa deve essere mostrato come se fosse proprio, dato dalla propria natura, deve essere semplice e naturale, non deve essere mostrata l’arte.
[Parentesi: anche il Valerio usa l’articolo in modo diverso rispetto a quanto prescritto dalle prose. C’è tra l’altro qui un esempio «evitare il sforzare»]
Un esempio: la danza. La facilità genera grandissima meraviglia. L’apparenza, ciò che appare è fondamentale: non si deve manifestare la fatica e lo studio con cui si sono acquisite le capacità, ma queste devono apparire come se fossero naturalmente appartenenti a chi le manifesta; evitando tassativamente di mostrare l’artificiosità.
? l’affettazione di messer Pierpaulo. L’artificio è il nemico numero uno del perfetto cortigiano. L’esempio che viene fatto è proprio del mondo cortigiano nella sua concretezza, l’esempio della danza. E viene viene posto in evidenza che quando «il nostro messer Pierpaulo danza alla foggia sua, con que’ saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la testa, come se tutto fosse un legno, con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi?» Quindi questo è un esempio che mostra bene l’effetto di ridicolo, di caricatura, esempio di affettazione, caricata naturalmente.
? l’eccesso di sprezzatura di messer Roberto. D’altra parte anche la sprezzatura è una forma di equilibrio, di controllo di sé: al tempo stesso non deve essere esibita un eccessiva disinvoltura. Questa è un’affettazione all’opposto: è altrettanto affettato esibire una noncuranza assoluta delle cose. Tra i due esempi, di chi è affettato per eccesso mostrando lo studio e la fatica che fa per compiere il ballo, e dall’altra parte chi mostra di non curarsi affatto (altra caricatura) messer roberto da bari (introdotto dal Bibbiene) che quando «per mostrar ben di non pensarvi si lascia cader la robba spesso dalle spalle e le pantoffole de’ piedi, e senza raccórre né l’uno né l’altro, tuttavia danza» si comporta come se fosse così naturale per lui ballare che non controlla assolutamente nulla dei movimenti del proprio corpo, ecco, tra questi due eccessi del troppo e del troppo poco si inserisce non casualemnte la grazia di molti nella corte di urbino nel ballare.
La rappresentazione in atto della sprezzatura: Urbino. Guardate alla fine del cao XXVI: «Qual occhio è cosí cieco, che non vegga in questo la disgrazia della affettazione? e la grazia in molti omini e donne che sono qui presenti, di quella sprezzata desinvoltura (ché nei movimenti del corpo molti cosí la chiamano), con un parlar o ridere o adattarsi, mostrando non estimar e pensar più ad ogni altra cosa che a quello, per far credere a chi vede quasi di non saper né poter errare?» dunque la corte di urbino in sé, e tutti i suoi perrsonaggi [fuorchè messer Pierpaolo!] sono espressione di questa grazia.
In definitiva. Questa grazia che è acquisita nello studio delle cose; nasce da un attitudine naturale che se non c’è non possibile acquisire quelle capacità, che però una volta acquisite vengono mostrate come se fossero un dono naturale: si tratta di un lavoro di nascondere l’arte: la vera arte è quella di sapere nasconder el’arte. In questo modo si viene ad acquisirte anche una maggiore Fama. La fama che si ha nella corte è legata alla manifestazione di sé che fa vedere le capacità di ciascuno e le fa supporre superiori rispetto a quelle che ciscauno abbia; se si sa nascondere bene l’arte, si dà prova di sé per cui si fa pensare che se si è così capaci naturalmente, se si è così abili nel fare le cose, molto più si otterrebbe se si facessero con studio. Su questo punto il discorso dell’illusione, della finzione s cenica della corte assurge a dei livelli ulteriori. La grazia però attraverso la sprezzatura include non solo quello che riguarda il corpo ma anche ciò che riguarda il controllo di sé e l’equilibrio della persona. [41:07] Non è soltanto un elemento collegato ad aspetti e connotazioni esteriori, ma richiede anche capacità interiori da parte del cortigiano.
Prima digressione: la lingua
Verso la prima digressione. Una dimostrazione di sprezzatura ulteriore ci viene data dall’autore attraverso il modo in cui introduce quella che è la digressione più importante di questo primo libro: attraverso esempi di affettazione per ciò che riguarda la musica: perché l’eccesso di perfezione è affettazione (e questo riguarda tutto il campo di operazioni dell’uomo, e del cortigiano specialmente): per questo la variazione, l’introdurre delle variazioni nelle note in maniera tale che non vi sia un suono continuamente perfetto; così pure la pittura e tutte le altre operazioni.
? introdurre arcaismi. Questo ci porta quasi insensibilmente a parlare della lingua. Un modo di affettazione del cortigiano è quello di introdurre le parole antiche toscane. Così come al tempo stesso era stato introdotto nel discorso l’uso, quando si viene da una corte straniera, l’uso di parole che appartengono a quella corte. Viene introdotto con questo il tema della lingua.
Le digressioni nel cortegiano. Abbiamo qui la prima ampia digressione ed è questa una delle altrecarattereistiche del Cortegiano: le digressioni, le questioni che comportano elementi da discutere partitamente e che introducono uno spazio che interrompe il filo del discorso che si sta svolgendo. Anche questo aspetto di introdurre digressioni è legato anche solo parzialmente al modello ciceroniano. Questo si vede molto di più nel secondo libro, perché la più ampia digressione del secondo libro riguarda le facezie, ed è molto esemplata sul modello ciceroniano.
Fregoso: il contraddittore. Noi non ci soffermiamo sulla discussione della lingua, mi limito a dire che in questo caso il ruolo di maggior contraddittore è preso da Federico Fregoso. Canossa è di fatto il portavoce del Castiglione, il Fregoso è colui che si contrappone al Canossa e al Castiglione.
Canossa: portavoce dell’autore. E come facciamo a dire che Canossa è portavoce del Castiglione? Su questo non ci possono essere dubbi perché la posizione del Canossa è analoga a quella che ci ha espresso in apertura di libro nell’edizione a stampa il Castiglione e cioè nella seconda parte delladedicatoria al De Silva: quindi non possono sussistere dubbi sul fatto che il Canossa costituisce la voce del Castiglione.
Le ?Prose’. Il Fregoso, vi ricorderete che è a sua volta un personaggio delle Prose della Volgar Lingua delBembo, libro che è nella sua genesi in costituzione parallela alla scrittura del Cortegiano, così come personaggio delle Prose comune al Cortegiano (sono due) è il De Medici. Questo due personaggi, Federico Fregoso e Giuliano de Medici sono entrambi presenti sia nelle Prose che nel Cortegiano e in tutti e due i luoghi parlano della lingua.
Portavoce del Bembo. La figura del Fregoso qui è quella del contraddittore: viene detto in più luoghi, e anche la Carella, che rappresenterebbe la posizione del Bembo. Rappresenta solo in parte la posizione del Bembo il Fregoso però il Fregoso è di fatto un amante degli arcaismi in termini di gusto, quello che il Bembo non è: cioè il Bembo introduce arcaismi perché si rifà alla lingua del trecento (petrarca per la poesia Boccaccio per prosa) come modello, ma perché il Bembo ritiene questo l’oro della lingua; invece il preziosismo dell’arcaismo è nel gusto del fregoso, c’è differenza.
Parlato e scritto. L’altro aspetto molto importante è la distinzione netta che viene fatta dal dal punto di vista del Fregoso, al contrario per quello che riguarda il Canossa tra il dire e lo scrivere: il Fregoso fa una netta distinzione fra l dire e lo scrivere, dice che non si possono usare nel parlare parole antico toscane ritenendo che si tratti di una affettazione; ritiene invece che questo vada fatto nello scritto perché questo impreziosirebbe lo scritto. Il Canossa rifiuta questa distinzione e pone in un rapporto molto stretto il parlare e lo scrivere: lo scrivere è la vita delle parole che rimane dopo che si è parlato: non pone differenza da un punto di vista linguistico, lo pone certamente da un punto di vista delle scelte stilistiche che si fanno nella scrittura.
Digressione troncata. Ma il filo del discorso è stato interrotto a lungo in questo sesnso e deve essere ripreso. Il filo del discorso viene ad essere ripreso parecchi capitoli dopo: la questione della lingua viene introdotta nel capitolo XXIX e dopo il capitlo XL viene ripreso il filo del discorso: la discussione viene troncata tra l’altro, perché il fregoso non si dà per vinto.
? mancata conciliazione. Questo è un altro aspetto da tenere presente e lo troveremo anche nel terzo libro quando ci sono posizioni incompatibili il termine di mediazione non viene trovato, ma viene bloccata la discussione da parte della signora Emilia Pio che perentoriamente interrompe il fregoso che vorrebbecontinuare a parlare e invita il Canossa a riprendere il filo del discorsco. Il Canossa si rammarica dicendo che è difficile riprenderlo; lo riprende comcomunque e continua il suo discorso per quello che riguarda gli ornamenti.
Il filo riprende. Continua a mettere in evidenza quali sono gli aspetti più significativi che devono riguardare il cortigiano introducendo le condizioni che non devono essere solo relative al corpo ma anche sotrattutto all’animo, e introducendo elementi e motivi qui solo accennati di carattere etico-morale, e poi introducendo altri elementi.
Le competenze del cortegiano? Che cosa deve avere come competenza il cortegiano? Teniamolo presente perché poi la perfetta donna di palazzo viene commisurata alla figura del cortegiano. Umanisticamente il cortegiano deve essere formato, deve avere una formazione di carattere ancheletterario. Ma non un informazione soltanto, una vera e propria formazione: deve conoscere bene le lingueclassiche, anche il greco, e deve essere versato sia nella letteratura antica che nella moderna e volgare.
Armi o lettere? Si apre a questo punto un’altra quesione: il Bembo non era intervenuto a discutere per la lingua, interviene ora a discutere su questa questione: se sia maggior ornamento per il cortigiano quello dell’arme o quello delle lettere. discussione fra l’altro di un tema largamente trattato fin dai tempi classici, su cui Canossa e Bembo hanno opinione opposta. Se il Bembo vuole che il cortegiano sia competente di lettere e formato artisticamente il Canossa attribuisce la palma alle armi, mente il Bembo alle lettere.
? altro troncamento. Anche in questo caso la disputa viene troncata dal Canossa che dice che non vole proseguire la disputa più a lungo, è lui che sta formando il cortegiano, e così resta interrotta la questione. Il cortegiano non solo deve avere competenza nelle lettere ma anche nella musica. Non solo in questa ma tra le altre cose deve avere capacità nel disegno e competenze nella pittura. Si fa dunque anche dell’ironia perchp viene rappresentato come un vaso in cui si mettono dentro troppe cose.
Uno spaccato delle discussioni cinquecentesche. Tra le altre questioni moniri che vengono fuori c’è anche una discussione pure umanistica se sia superiore tra le arti la stautaria o la pittura: e vengono confrontati tra di loro Michelangelo e Raffaello. Cioè ci viene dato qui uno spaccato anche della varietà delle questioni discusse nelle corti.
Dalla pittura: la bellezza femminile. Introdotte come se fosse una cosa naturale proprio attraverso questa presentazione della figura del cortegiano e questa varia discussione che dunque in ciò si apre. Il tema della pittura fa introdurre il tema della bellezza, che è prossimo a quello dell’amore. Perché si discute in modo acceso se sia più piacevole vedere di fatot una bella donna o vedere una pittura in cui la donna figurata sia figurata come al perfezione di bellezza. Quindi se faccia piùà piacere la visione di ciò che è reale o la visione ideale della bellezza femminile. E qui naturalmente il faceto gonzaga propende per la bellezza della donna reale: si introduce questo motivo che introduce a sua volta anche a tematiche fatte a schermaglie di carattere amoroso.
Un’interruzione: l’arrivo di F.M. Della Rovere
Arriva gente. Il discorso non viene ulteriormente condotto avanti perché c’è un interruzione: anche qui la matrice rimane ciceroniano, l’interruzione è data dall’intervento della presenza di altri personaggi chearrivano sulla scena della nostra conversazione di corte.
? la partenza del Papa. Nella cornice si diceva che la prima serata è quella successiva alla partenza del papa. Sono rimasti a corte alcuni cortigiani del seguito del papa, ma altrettanto altri erano andati ad accompagnare il papa, come si usava: cioè da Urbino erano pertiti per accompagnare per un tratto di strada il papa una serie di personaggi ed anche un personaggio di cui viene fatto l’encomio, importante per la corte di Urbino perché è colui che viene ad essere l’adottato di Guidubaldo da Montefeltro, quello che sarà il duca dopo la morte di Guidubaldo e cioè Francesco maria Della Rovere.
Canossa si interrompe. Arriva francesco maria e il movimento stesso dell’arrivo è realisticaente rappresentato: le voci i suoni le persone, fanno sì che si interrompa il filo del discorso. Il canossa dichiara che il discorso è stato interrortto ormai è stanco e quindi vuole porre fine al ragionamento. E qui abbiamo il modo in cui viene ad essere itnrodotto il passaggio da questo primo libro al secondo libro. Perché il discorso del Canossa ha portato avanti la figurazione di quelle che sono le condizioni del perfetto cortigiano, ma non ha concluso il discorso sul cortigiano.
Interviene a questo proposito nel capitolo LV il magnifico Giuliano: dice che non vuole che il Canossa sottragga quella parte che era rimasta. E cioè che cosa doveva ancora dire il canossa? In che modo siano da usare quelle buone condizioni che sono convenienti al cortigiano. Francesco Maria della Rovere non vorrebbe che per causa sua si interrompesse il discorso, ma il Canossa si sottrae dal continuare il discorso: aveva già detto prima che era stanco e ancora qui si apre uno scherzoso dibattito-schermaglia con Emilia pio: il Canossa accusa Emilia Pio di essere parziale, di pretendere che voglia continuare lui a svolgere questo compito, avere lui questo carico mentre gli altri non ce l’hanno. Emilia risponde celiando, dicendo che il Canossa vuole ascrivere a fatica ciò che in vece gli è ad onore (cosa non secondaria): è quindi onorevole il compito svolto da Canossa.
Nuova regola per il Fregoso. Anche qui attribuisce una parte ad altro personaggio e chiama in campo il fregoso: se il fregoso era stato quello che aveva introdotto il gioco del perfeto cortegiano, allora si ail Fregoso a farsi parte in causa: sarà il Fregoso a continuare il discorso. Il fregoso vuole sottrarsi perché dice che il discorso è stato avviato, e dovrebbe essere chi l’ha condotto fino a quel momento ad andare avanti. Qui c’è un ulteriore paradosso introdotto da Emilia Pio che dice: «Fate voi cunto d’essere il Canossa e dite quello che pensate che esso direbbe» quindi al fregoso viene fatto assumenre il ruolo, potremmo dire la maschera del Canossa. Come se ci fosse traloro due una intercambiavbilità dei ruoli.
La virtualità di tutto il discorso. Ma questo è paradossale: perché il fregoso come abbiamo visto non aveva le stesse opinioni del canossa e qui invece è chiamato in causa e dovrà parlare come se fosse il canossa. Infatti all’inizio del libro successivo il fregoso dirà che non vuole contraddire in niente di quello che ha detto sulle condizioni del perfetto cortigiano il Canossa e continuerà sulla falsa riga di quello che ha detto. Ma anche questo è un modo anche sottile di metter ein gioco e di rendere paradossale, di aprire il campo della possibilità, della virtualità e della negazione stessa di ciò che si sta facendo, quello di insinuare ciò che è nel rischio stesso del gioco che si stà compiendo.
E’ tardi. E’ iun altro cortigiano, tra quello che sono appena arrivati, il Calmeta a far notare che si è fatto troppo tardi, ormai si può passare adltri divertimenti e sarà meglio differire all’indomani. Questo stabilisce i giorni, il fatto che non si finisce in questa serata e si produrrà a lungo il discorso e il gioco si protrarrà nella serata sucessiva.
? il congedo della Duchessa. E’ necessario che intervenga la duchessa: è lei che deve dare conferma, è lei che riprende il proprio ruolo di autorità: la Duchessa impone dunque che si passi ad altro. Impone a madonna Margherita e a madonna Costanza fregosa che danzassero. Allora alle donne spetta la gestualità: la rappresentazione in atto della grazia. Della grazia della danza. Le danze di corte che vengono indicate con il loro preciso nome e vengono danzate con estrema grazia e singular piacere di chi le vide. Poi dato che la notte è ormai avanzata la duchessa si alza: è la duchessa che scandice il tempo. Alzandosi significa che dà il congedo per cui «e cosí ognuno reverentemente presa licenzia, se ne andarono a dormire» con ciò finisce la prima serata.
Fine prima giornata
Seconda serata
Se la trattazione fin qui c’è stata rappresentata come improvvisata non più così è nella seconda serata. Anche questo è un modo proprio che è esemplato su quello ciceroniano del de oratore, Crasso aveva svolto il suo discorso sulla formazione del perfetto oratore nel rpimo libro senza che fosse preordinato. Il compito di trattare ulteriormente la questone viene affidata ad Antonio e rimandata al giorno successivo. E d’altra parte vien da cicerone stesso ripreso il movimento dei personaggi: nel caso di cicerone ci sono dei personaggi che escono dalla casa di crasso e altri che sentendo ciò di cui si era trattato, arrivano.
L’avvio al terzo libro. Questo spunto viene ripreso dal Castiglione ma liberamente gestito. Così come viene ripreso ma liberamente gestito lo spazio proemiale. Sul secondo libro ci soffermiamo molto meno su quello che è l’assetto del libro, e invece ci soffermiamo molto di più sulla conclusione perché attraverso la conclusione del secondo libro che si imposta quella ch è la nuova trattazione, quella non prevista inizialmente dal gioco (il gioco prevede la formazione del perfetto cortegiano) alla fine di questo secondo libro si introduce l’argomento non previso che è la formazione della figura della perfetta donna di palazzo.
? Novità della terza redazione. Quindi diciamo che la figura che sta in parallelo a quella del perfetto cortigiano e che comporta una svolta interna, una svolta che è legata alla genesi stessa del libro, perché questa svolta è la svolta della terza redazione: la formazione della perfetta donna di palazzo è di fatto impostata ex novo per come viene svolto il trattato nella terza redazione.
Dedicatoria: i laudatores temporis acti
La voce autoriale. Del secondo libro però alcune cose vanno dette perché hanno una loro importanza. Innanzitutto come abbiamo visto c’è il proemio dove di nuovo l’autore prende il controllo diretto nei confronti del dedicatario Alfonso Ariosto. E’ la voce autoriale scopertamente autoriale.
I laudatores temporis acti. Qui viene trattato un tema che frequentamente trattato nella letteratura e in altro, che è quello relativo ai laudatores temporis acti. Quelli che lodano il passato e condannano il presente.
? i discorsi machiavelliani. E’ stato giustamente notato che appunto nella considerazione in relazione ai laudatores temporis acti noi possiamo avere una possibilità di confronto con un analogo proemio neiDiscorsi da parte del machiavelli. Non è un tema che qui intendo trattare però è significativo che in entrambi gli autori sia introdotta la trattazione di questo tema.
Celebrazione del presente. Qui mi limito a dire come è risolta la questione da parte del Castiglione il quale naturalemte non accetta che vengano lodati i tempi passati ee condannati i tempi presenti. E questo è per noi del tutto ovvio: come si potrebbe celebrare la corte di Urbino se si facesse un discorso di questo genere. Ovvio se si tiene presente che la celebrazione della corte di urbino dell’anno 1507 e complessivamente la corte di Guidubaldo, è legata a quella che è la celebrazione anche degli sviluppi successivi della corte di Urbino: tutto il corso del tempo della corte di urbino e questo viene detto con chiarezza in altri proemi ma risulta con chiarezza anche dalle inserzioni encomiastiche, per esempio quella di francesco Maria dell rovere dove si fa riferiemento a quello che sarebbe stato il frutto effettivo che già si manifestava quando era molto giovane.
Metafora della navigazione. I laudatores temporis acti sono identificati qui in special modo nei vecchi che lodano le corti del passato. In sintesi estrema, che cosa dice il Castiglione?
? una distorsione prospettica. Il Castiglione si avvale a sua volta dell’ampia metafora della vita come navigazione e fa presente in realtà i vecchi non si rendono conto che lodano i tempi passati ritenendoli pieni di virtù e di cose egregie perché i tempi passati sono i tempi della loro giovinezza. E non si rendono conto che sono strettamente collegati nella loro rievocazione memoriale con quella che l’evocazione di quello che er ail tempo migliore della loro stessa vita. E quindi guardano al presente con quella prospettiva, e non si rendono conto di incorrere inquello che è un errore di giudizio. E’ l’errore del loro giudizio, non il peggioramento dei tempi recenti.
Ma è vero? Se i tempi presenti peggiorassero rispetto al passato, posto che questa lamentazione si trova scritta in tutte le storie, da tempo antico ad oggi, ilmondo sarebbe rovinato completamente, perchép si sarebbe arrivati ad un pegioramento tanto costante da produrre una rovina totale. Quindi è un errore di prospettiva, e lo stesso vale appunto come sul piano generale nella vita e nella storia, così per quello che riguarda il rapporto tra le corti.
Vizio e virtù sempre presenti. Da che cosa dipende questo errore di prospettiva oltre che questa questione che i vecchi dicono? Non si rendono conto del rapporto che c’è tra il vizio e la virtù: della concatenata contrarietà del vizio e della virtù, un tema platonico che qui accenno soltanto nella soluzione data dal Castiglione. Se il vizio è molto grande, ed in effetti nei tempi presenti c’è un vizio molto grande pochè quanti uomini scelerati ci sono lo si vede dappertutto, pure significa che c’è una virtù molto grande: perché i due estremi in questo senso si toccano e dunque se c’è un grande vizio c’è una grande virtù. Maggiore è il vizio maggiore è la virtù.
Una cartina di tornasole: gli antichi. E d’altra parte se questo è così è perché gli ingegni sono molto superiori al presente rispetto agli ingegni delle corti del tempo precedente. Sono questi ingegni da paragonare non con quelli delle corti precedenti, ma con i grandi antichi: se si va a guardare cosa succedeva nella parte della storia antica dove ci sono grandi personaggi e grandi ingegni si vede che c’erano anche grandi virtuosi e grandi scelerati. E così è nel tempo presente più si produce da un lato il vizio dall’altro la virtù. Quindi questo discorso non è accettabile.
L’eterno cambiamento dei costumi. D’altra parte se noi confrontiamo le corti del passato a quelle di oggi da un altro punto di vista, per quello che riguarda i cortumi, anche qui l’errore di prospettiva dei vecchi emerge con evidenza: i costumi delle corti cambiano: quello che era di ?moda’ nelle corti quattrocentesche, adesso farebbe ridere tutti. Dunque c’è una variazione, un mutamento: il tempo muta, mutano i costumi, muta la situazione. Questo appunto errore dei vecchi non deve portare ad un giudizio negativo sul tempo repsente.
L’eccellenza attuale. D’altra parte l’eccellenza dei cortumi attuali della corte di urbino mostra che non si può parlare di una decadenza del presente rispetto al passato. Ciò premesso viene ad essere reintrodottala cornice. Altro aspetto del proemio è l’introduzione della cornice, qui molto ridotta naturalmente rispetto a quella del primo, e poi si passa al discorso.
La cornice
Il problema d ella memoria. Il modo in cui viene fatta questa introduzione di cornice è molto interessante proprio sul tema della memoria. Ed è un altro indizio che ci dà il Castiglione. Che cosa succede quando si ascoltano le altre conversazioni? Che ciascuno ne trae quello che è la sua stessa impressione sia per il giudizio che dà di quello che viene detto, sia per il ricordo di quello che gli rimane in mente. Perché viene detto questo? Perché quelli che erano assenti hanno bisogno di sapere quello che è stato detto il giorno prima, perché se il discorso continua, continua sulla base di quello che è stato detto. E allora il prefetto, cioè il nostro Francesco maria della Rovere, domanda ai presenti, ma variamente gli viene risposto.
La responsabilità autoriale. Quindi questo è un altro aspetto da tener presente che rimanda di nuovo alla responsabilità autoriale. E’ una grata memoria che viene appunto rievocata dal Castiglione, il Castiglione era assente, gli è stato riferito da persona degna di fede, ma gli è stato ppunto riferito appunto quello che era stato ascoltato, e dunque se i pareri degli ascoltanti sono vari, se la loro memoria è varia, questo significa appunto sottolineare in modo sottile, anche quello che è proprio anche della responsabilità autoriale. E’ una sorta di gioco da parte dell’autore che è molto consapevole anche potremmo dire sul piano della metascrittura della sua opera, del modo di scrivere la sua opera e di far riflette su come la sua opera è scritta.
Riprende il Fregoso. Allora qui si tratta delle condizioni del cortigiano, come queste condizioni debbano essere esercitate. Il nostro Fregoso come avevo detto si rifà a quello che aveva detto il Canossa, anche qui riprende quel gioco di contraddizioni e battute che avevamo visto, c’è però una grande aspettativaquesta volta quindi il compito del Fregoso è da questo punto di vista più impegnativo perché non è più un discorso fatto all’improvviso e qui per semplificare possiamo dire che qui viene messa in evidenza un’accorta serie di avvertenze che toccano aspetti diversi.
Il discernimento. C’è naturalmente un impostazione di carattere generale difficile da sintetizzare, e possiamo vederla alla fine del capitolo VI. Come indicazione generalissima che introduce la serie di avvertenze. «Però il governarsi bene in questo parmi che consista in una certa prudenzia e giudicio di elezione, e conoscere il più e ‘l meno che nelle cose si accresce e scema per operarle oportunamente o fuor di stagione. E benché il cortegian sia di cosí bon giudicio che possa discernere [verbo importante perché il concetto basilare sarà la discrezione, come per guicciardini] queste differenzie, non è però che più facile non gli sia conseguir quello che cerca essendogli aperto il pensiero con qualche precetto e mostratogli le vie e quasi i lochi dove fondar si debba, che se solamente attendesse al generale» ci viene detto che per quanto non si possano dare delle regole di carattere tale da poter essere sempre messe in pratica dal cortigiano, devono essere devono essere date delle avertenze, una serie di avvertenze che devono riguardate il tempo, il modo il luogo, il momento eccetera secondo cui il cortegiano deve procedere.
? tempi, luoghi, circostanze. La distinzione per parti ci viene data al capitolo settimo. Regola generalissima è quella già data precedentemente dal Canossa: evitare l’affettazione. E poi cosa bisogna considerare?«Appresso consideri ben che cosa è quella che egli fa o dice e ‘l loco dove la fa, in presenzia di cui, a che tempo, la causa perché la fa, la età sua, la professione, il fine dove tende e i mezzi che a quello condur lo possono; e cosí con queste avvertenzie s’accommodi discretamente a tutto quello che fare o dir vole».Ecco, quando viene messo in evidenza, viene messo in evidenza proprio in relazione prorpio a tutta questa serie di situazioni: tempi, luoghi, circostanze, condizione stessa del cortegiano: in questo suo operare deve porsi con discrezione.
Alcuni esempi. Guardate che questo ha a che vedere con tutta una serie di elementi, io mi limito ad estrapolarne alcuni, per esempio quello che è libero di fare in privato, non è altrettanto liberi di fare inpubblico: c’è sempre il fatto che deve essere pronto ad esercitare un controllo su di sé per come si manifesta. Poi quesllo che il cortegiano può fare, per esempio, in presenza di cortegiani maschi, non deve essere fatto in presenza di donne. Quello che va bene chi è un cortegiano vecchio, non va bene per un cortegiano giovane. Situazioni e modi diversi.
Compare il tema dell’amore. Quello che può essere interessante da dire subito è che proprio il tema dell’amore si insinua proprio in questo. E qui la caricatura del cortigiano più vecchio Morello di Ortona che si offende tantissimo qundo gli si dice che l’amore non si addice ai vecchi. Il discorso che sempre punta qu quello che si era già detto in relazione la primo libro: evitare l’affettazione, seguire l’ordine, la proprorzione, la convenienza, la misura ma con grande attenzione e cautela: c’è il problema della prudenza.
La conversazione. Per cui può essere necessario simulare e dissimulare: bisogna stare molto attenti alle persone con cui ci si trova e a quello che si fa. Cautela che rihiede anche un adattamento. Per esempio nella conversazione, nell’intrattenimento quotidiamo: teniamo repsente che tutte le buone condizioni del cortigiano non sarebbero messe a frutto in modo sufficiente per formare il perfetto cortigiano se non avesse una gentil ed amabile maniera del conversare cortigiano. Il conversare, che è legato alla parola naturalmente, ma il modo di porsi in relazione nella corte, nei suoi due poli possiamo dire: la conversazione col principe, pe la conversazione con gli altri cortigiani. La conversazione col principe può introdurre anche degli elementi di rischio non indifferente. Ci sono qui aspetti che introducono aanche elemetni di carettere realistico per quello che riguarda la condizione di Italia e la situazione la situazione del cattivo principe. La conversazione deve essere tale da essere svolta in modo opportuno ed adeguato, varia nel tempo, muta nel tempo anche di giorno in giorno.
Regola generalissima. Il nostro perfetto cortigiano deve essere capace di adeguarsi al mutamento costante: non si può dare nessua regola in questo se non proprio ricordare ancora che la discrezione deve essere sua norma e regola di comportamento.
La brillante conversazione: le facezie. Naturalemnte una parte interessante particolarmente è quella data dal brillante conversare ci corte, e sul tema del brillante conversare di corte si introduce l’ampia digressione sulle facezie. Che è una delle aprti che pur cortituiscono una sorta di digressione episodio nel discorso a sé stante, collegato al tema della corte, non autonoma, però c’è una trattazione vera e propria sui motti e sulle facezie. Qui esemplata in modo molto abile letterariamente sul secondo libro del cortegiano.
Il mago delle facezie: il Bibbiena. E qui il Fregoso ha una spalla, un secondo personaggio che è il Bibbiena. L’arguto per eccellenza, l’abile per eccellenza nell’arte della facezia, il Bibbiena come esperto nella trattazione non solo conduce avanti e poi completa questa parte relativa alla facezia, ma introduce un ultima parte che completa quello che non ci potva essere in cicerone naturalmente, e cioè le burle.
? la beffa. Qui c’è un apsetto che ci introduce al terzo libro: le novelle: le burle introducono il racconto da parte del bibbiena, gustosissimo, di racconti di burle. Si introduce la vera e propria novella di beffa. Bibbiena le racocnta naturalmente come burle che erano state davvero fatte, e alcune di queste burle il Bibbiena stesso le ha avute.
L’onestà delle donne. Ma la cosa che ci interessa è che viene introdotto come rappresentante e scrittone di novelle di beffa il boccaccio. E sono discusse in termini di casistica le novelle di beffa del boccacico come se si trattasse di episodi effettivamente avvenuti. E dato che nelle novelle di beffa Boccaccio rappresenta le donne beffatrici e beffate, si introduce il tema dell’onestà della donna. Tema cià accennato nel contesto dei motti da parte del bibbiena, perché i motti, le facezie deovno avere una misura, non devono screditare: e ci sono degli oggetit che assolutamente non devono essere screditati o colpiti: l’onestà della donna non deve essere mai colpita, non ci deve essere il modo di morderla sull’onestà, perché l’onore per una donan è l’elemento fondante. Onore legato adonestà: come l’onore nelle armi dell’uomo così l’onestà della donna non deve essere svergognato, nemmeno se la donna fosse disonesta. Si può mordere solo allusivamente, non colpendo. Su questo piano si introdice la battaglia sulle donne, e la svolta: l’stituzione della figura della donna di palazzo.
La conclusione del II Libro ci consente come viene ad essere introdotto questo tema che non è presente fin dall’inizio del gioco di formar con parole il perfetto cortegiano, e qui viene ad essere introdotto un altro tema, parallelo e a questo collegato, che è formare con parole la perfetta donan di palazzo. Teniamo presente che in linea di massima ci saranno una o due occorrenze del termine cortigiana, perché cortegiana nella lingua del tempo voleva dire meretrice, quindi in linea di massima si tende a non usarlo per la donna di palazzo, per evitare equivoci. Come accennato il mutamento rispetto alla redazione precedente si fa consistente perché la modificazione della parte finale del II libro è funzionale alla modificazione di quello che era il terzo libro della seconda redazione, che si sdoppia, con midificazione di parti, nel III – IV della terza redazione. Allora, avevo accennato come qui di fatto viene introdotto il discorso, come sempre come se si trattasse di un occorrenza naturale nel contesto della discussione, all’interno, o meglio alla conclusione della trattazione che sta svolgendo il bibbiena, Bernardo bibbiena, sulle facezie. Avevamo visto come la digressione relativa alle facezie occupi una buona aprte del II libro, in questa digressione che è iniziata da Fregoso che è colui che ha il compito di svolgere la trattazione sul cortegiano nel secondo libro, ad un certo punto introduce l’esperto, per così dire, che è appunto l’arguto cardinale Bibbiena. Il Bibbiena per l’appunto svolge uesta parte sia riattualizzando i modelli di riferimento: e modello struttutale è in primo luogo anche per questa parte, lo abbiamo detto, la digressione sulle facezie del secondo libro ciceroniano del De Oratore; e poi aggiunge un ultima parte che è tutta moderna e che riguarda le cosiddette burle, cioè le beffe. In questa parte non fa solo riferimenti ad episodi che narra come effettivamente accaduti al suo tempo, ma fa riferiemnto anche alle novelle di beffa del boccaccio: nel capitolo LXXXIX all’inizio, citando le novelle di beffa del Boccaccio, facefa riferimento alle notissime novelle di Bruno e Buffalmacco, nei confronti di Calandrino e Maestro Simone, e citava le molte altre novelle «di donne che sono veramente ingrgnose e belle». Svolgeva poi il racconto relativo alle burle e spiegava come al cortigiano però non si adattino quelle burle che assomigliano piuttosto a truffe: e dunque i cortigiani devono evitare quel tipo di burle come truffe, e devono invece essere attenti alle convenienze e al modo. Non devono neanche mettere a segno delel beffe che siano tropo aspre, troppo acerbe e conclude il capitolo LXXXIX dicendo che le beffe devono «aver rispetto e reverenza, così in questo come in tutte le altre cose, alle donne, e massimamente non intervenga offesa della onestà». Avevamo accennato che qui subito insorge il pallavicino, Gasparo, che subito accusa il Bibbiena di essere troppo parziale, nei confronti delle donne, e con una serie di domande incalzanti che mostrano bene come appunto il Pallavicino si senta sul vivo, mette in evidenza che ritiene ingiusto che le donne debbano avere un privilegio in questo senso nei confronti degli uomini, perché se agli uomini deve essere cara l’onestà delle donne, altrettanto alle donne deve essere caro l’onore degli uomini. E Bibbiena non intendeva dire che alle donne non doveva essere caro l’onore degli uomini, ma il bibbiena voleva sottolineare che le donne non devono essere attaccate con burle o facezie che riguardino la loro onestà, mentre in relazione al tema dell’onestà questo può essere fatto nei confronti degli uomini in modo più indolore rispetto alle donne; e qui mette in evidenza la disparità di condizione che è una disparità di condizioni sociali e di costume. Alle donne sono posti dei freni molto più stretti per cui certi comportamenti che se fatti dagli uomini non sono tali da indurre a giudizi negativi per quanto li riguarda, invece basta soltanto che ci sia una parola fuori posto, una falsa accusa, una calunnia nei confronti dell’onestà delle donne che questo comporta un grave disonore per la donna stessa. E conclude dicendo: « però essendo il parlar dell’onestà delle donne tanto pericolosa cosa da offenderle gravemente, dico che dovemo morderle in altro e astenerci da questo; perché pungendo la facezia o la burla troppo acerbamente, esce del termine che già avemo detto convenirsi a gentilomo». Il gentiluomo è appunto colui che deve essere l’uomo di corte: il perfetto cortigiano che deve essere gentiluomo. E come sempre viene ad essere introdotta una sorta di pausa mediante la cornice diegetica: quando un personaggio aspetta un momento prima di riprendere a parlare si inserisce un altro personaggio che può o far domande o porre un obiezione o vivacizzare il discorso. E qui interviene un altro personaggio autorevole, ridendo: molto spesso auesta espressione ricorre, come pure nel testo ciceroniano. C’è la sottolineatura anche della piacevolezza del fatto che qui si tratta formalmente di un gioco. Allora il signore Ottaviano Fregoso aggiunge una notazione di carattere misogino nei confronti delle donne, e la introduce attribuiendo questo parere al pallavicino, o meglio suggerendo una obiezione che potrebbe fare il pallavicino; dirà che non è lui che ha questa opinione la ma attribuisce al misogino-pallavicino. attribuisce appunto al pallavicino che se è stata fatta questa legge nei confronti delle donne, e cioè della necessità di tenerle a freno per quanto riguarda la continenza questo è dovuto alla loro natura, e le donne qui sono definite «animali imperfettissimi». Animali vuol dire esseri animati; imperfettissimi cioè: le donne avrebbero un grado tale di imerfezione ed avrebbero una così scarsa o nessuna dignità rispetto agli uomini, per cui era assolutamente necessario, essendo la continenza femminile indispensabile, per aver certezza dei figlioli, che si ponessero alle donne dei freni cos’ stretti. Se nei termini della continenza e dunque, questo è collegato con l’onestà ovvaimente, sono posti dei frenicosì stretti si consente alle donne invece di non guardare a tanto invece per quello che riguarda altre qualità. E allora si pone una obiezione: se per poter pungere, sia pure in modo adeguato, è necessario pure pungere dove vi sia un difetto o una mancanza, e quindi qualcosa di non conveniente nel comportamento di chi viene morso o punto, essendo l’unico quel freno che è posto alle donne relativo alla continenza, se si toglie la possibilità di toccarle sul piano dell’onestà, di fatto si toglie la possibilità di fare motti, facezie o burle nei loro confronti. Interviene la duchessa. Ecco, in questa parte finale del libro non casualmente la duchessa assume più spazio. E qui c’è una schermagli atra personaggi: la duchessa accusa Ottaviano di parlare male delle donne, e in questo modo non può pretendere che le donne lo amino. Ottaviano si schernisce dicendo che non ha nessun desiderio che le donne lo amino, e dice comunque che non è la propria opinione, ma quella di gasparo, opinione che Gasparo potrebbe apunto allegare. A questo punto interrvine bernardo il quale dice che sarebbe una bella cosa se si potesse batterein un sol colpo i due nemici delle donne, Ottaviano e Gasparo, e farli riconciliare con le donne e questo suscita di nuovo un intervento del pallavicino che nega assolutamente di essere nemico delle donne, e dice che invece sono loro ad essere nemiche degli uomini. E qui si torna sul tema e anche sulla casistica delle facezie e delle novelle del boccaccio: come già vi avevo accennato vengono poste sullo stesso piano episodi che si definiscono effettivamente accaduti, come lo scambio di battute che sarebbe a vvenuto alla corte spagnola tra questo Alonzo Carilllo e la signora Boadiglia, e quello che il Boccaccio avev araccontato nelle sue novelle. E qui vengono accennate tre novelle del boccaccio: viene dunque fatto un confronto ed una discussione su una casistica che viene posta in evidenza e discussa in modo diverso dai due personaggi di Gasparo Pallavicino e del bibbiena. Per quello che riguarda la facezia relativo ad Alonso carillo e alla boadiglia fa richiamo a quello che aveva detto in una parte precedente il Bibbiene e viene ridiscusso a confronto con un’altra battuta successiva, su questo non mi soffermo, ma mi interessa quello che riguarda le novelle del boccaccio. Le novelle del boccaccio che sono in discussione sono due della VII giornata, cioè la giornata delle beffe che le donne fanno ai loro mariti, e una, che è una novella pure di beffa, ma che fa parte della III giornata (la VI della III giornata). Gasparo pallavicino ritiene in questo senso che sia di nuovo una dimostrazione della parzialità da parte del bibbiena che non vuole riconoscere che ci debba essere uguale diritto degli uomini a beffare le donne, di quanto non sia viceversa. E qui Bibbiena in primo luogo vorrebbe sottrarsi al discorso, si rivolge all’uditorio, perché il compito che gli è stato affidato non è quello di svolgere un discorso in relazione a ciò che è pertinente per gli uomini o per le donne, ma di un discorso soltanto per quello che riguarda le facezie. E ritiene di aver detto sufficienza quello che può essere una risposta a gasparo, perché cià ne aveva parlato a sufficienza, quando aveva stabilito, nel contesto del suo discorso sulle facezie, quelli che erano i termini convenienti e non convenienti, per mordere ed essere arguti e faceti gli uomni e le donne. Ritorna come avevo detto nella casistica delle facezie, il caso dei due personaggi spagnoli che avevo detto, e viene a discutere di quello che riguarda le novelle del boccaccio. Le novelle del boccaccio sono discusse come se fossero fatti realmente accaduto; il bibbiena nega che le donne facciano bene ad ingannare i mariti, però ritiene che si debba considerare il peso della maggiore o mone offesa, e in che modo l’offesa sia stata fatta. Ingegnosi e belli gli spunti del boccaccio per quello che riguarda queste burle, da non comparare nel modo in cui ha fato il Pallavicino. Per questa ragione: nella sostanza viene paragonata questa beffa di Ricciardo minutoli a Catella, alle altre due. Allora, nelle altre due novelle che sono le novelle della VII giornata, ci sono due mogli che si fanno beffe del marito eprchè hanno entrambe un amante. L’inganno viene fatto al marito perché le donne desiderano per c’è mantenere il loro rapporto amoroso con l’amante, quindi esercitare la propria volontà. Invece molto più spinosa è la novella di Catella e Ricciardo Minùtoli. Ricciardo minutoli si era innamorato di questa donna, che era la moglie di filippello, nobile suo amico tra l’altro, siamo a Napoli, e la donna non voleva saperne di lui perché era innamorata del marito ed era gelosissima del marito. Allora Ricciarco minutoli si avvale di un inganno appunto facendo leva sulla gelosia della donna. Finge che il marito di lei abbia un amante e che si vogliano incontrare con questa amante in un bagno (i bagni erano luoghi di incontro anche amoroso) e finge di darle le precise indicazioni di questo appuntamento, sicuro che Catella, gelosissima, vorrà intervenire. Catlla unfatti crede di poter svergognare il marito, arriva sul luogo del presunto appuntamento credendo di arrivareprima dell’altra donna, finge di essere la donna con cui il marito filippello avrebbe avuto questo appuntaemnto e attende nel buio l’arrivo del marito. Ha un incontro amoroso con colui che crede essere il marito traditore: in realtà colui con cui hal’incontro è ricciardo Minùtoli. Quando poi comincia a offendere il marito cercando di svergognarlo pensando appunto che potesse dimostrare di averlo colto sul fatto, in realtà viene a scoprire ha avuto un incontro amoroso non con il marito ma con quello che voleva appunto essere il suo amante. La novella si conclude in un modo tale per cui darà un argomento successivamente a Gasparo pallavicino perché Catella si dispera, vorrebbe fuggire, e un po’ con le minacce, un po’ con le lusinghe Ricciardo minutoli la convince a restare e alla fine anche per le connotazioni del loro incontro amoroso e per le capacità persuasive di ricciardo, Catella decide da quel momento di diventare l’amante di Ricciardo, e quindi al novella si conclude con un cambiamento della situazione della donna. Ma che però è stata sforzata a fare ciò che non voleva, e infatti il bibbiena con in testa questa opportunità dell’agire che si tratta di un tradimento indotto da Ricciardo, dicendo, siamo alla fine del capitolo XCIII «Riciardo con quello inganno sforzò colei e fecela far di se stessa quello che ella non voleva; e Beatrice ingannò suo marito per far essa di se stessa quello che le piaceva». Quindi c’è una netta differenza nell’agire delle due donne e nei risultati delle due donne. Teniamo presente che la novella boccacciana di Catella, è stata bel tenuta presente da Machiavelli nella Mandragola. Naturalemnte Gasparo pallavicino introduce a questo punto il tema della passione amorosa, e dice che quegli inganni che sono fatti per amore, devono essere ammessi così negli uomini come nelle donne, ma l bibbiena contesta ed esprime un’altra valutazione ed un’altra concezione, esprime una concezione d el’amore sincero, dell’amore veridico, dell’amore proprio del nobile innamorato: il nobile innamorato, il gentiluomo di valore, non farà mai un tradimento di questo genere nei confronti della donna: ama a cuore una donna e desidera non diventare il padrone con il tradimento del suo corpo, ma invece desidera vincere la rocca del suo animo. Desidera l’amore della donna come il dono dell’anima della donna a lui e questa è la ragione di fondo, per cui asolutamente esclude qualunque forma di tradimento in amore, vanno esclusi tradimenti, inccantesimi, malìe, ma vanno esclusi anche i doni: perché ci potrebbe essere una corrispondenza della donna per utilità. Mentre è il libro scambio del dono amoroso che viene giudicato come degno di un valoroso amante, e che riguarda per l’appunto la rocca dell’anima piuttosto che il possesso del corpo. Ma Gasparo Pallavicino non rinuncia acontinuare su questo piano, e introduce un ulteriore notazione misogina, e si avvale per questa ragione proprio della conclusione della novella di Catella, e cioè sostiene che il tradimento può essere un mezzo per ottenere un fine voluto sostenendo che sempre chi possiede il corpo delle donne è anche signore dell’animo. Il Bibbiena respinge questa ipotesi, anzi questa tesi con una espressione che anoi può sembrare paradossale ma che ha a che fare con i costumi del tempo: assoltaemnte questo è smentito perché altriemnti le donne amerebbero i mariti, cosa che invece non è. Sappiamo che secondo il costume del tempo i matrimoni erano combinati. Il carattere paradossale di questo non viene comunque rilevato nel discorso, ma si conclude appunto aprlando di nuovo del boccaccio e citando boccacico interpretato in una chiave misogina: cioè si dice che il boccaccio, come tutti sanno, era nemico delle donne. E questo fa riferimento naturalmente al Corbaccio, non al ecamento, anche se qualche venatura di misoginia è presente anche lì. Naturalemtne qui il dibattito va avanti perché Gasparo non accetta di essere considerato nemico delle donne, e mentre respinge questo fa una affermazione cche mette in evidenza ancora la sua misognia, sostenendo che si trovano ben pochi uomini di valore che generalemente tengano conto alcuno di donne. Bibbiena replica a questo punto che non solo offende le donne ma anche gli uomini. A poi fa una provocazione rivolta alle donne (attenzione, le donne non sono ancora intervenute in questo dialogo-discussione) e dice appunto che allora ha ragione Ottaviano Fregoso, che le donne non se la prendano a meno che non si tocchi la loro onestà perché nessuna delle donne ha ancora reagito. Le donne non reagiscono a parole quanto piuttosto con un azione scenica allusica: la Duchessa da un sengale, e tutte le donne ridendo corrono verso gasparo pallavicino come se volessero picchiarlo, e farne come le Baccanti d’Orfeo. Dicendo «Ora vedrete, se ci curiamo che di noi si dica male!». Quindi con questa azione scenica questo battibecco-discussione per il momento si conclude e ci si avvia verso diciamo una ulteriore disposizione del libro. Gasparo Pallavicino si lamenta di questa cosa, ma tutti ormai si sono alzati in piedi, il sonno che potevano avere se ne è andato, e accusa le donne di voler usare la forza invece della ragione e di aver fatto ricorso di una licenza braccesca, di un congedo fatto con la forza come farebbe un soldato. Allora si introduce il tema dela conflitto, del confronto tra misogini e filogini rappresentato nei termini di una battagli acavalleresca. Allora, questo aspetto era assolutamente centrale nella redazione precedente (teniamo presente che qui noi abbiamo visto Ottaviano fregoso accendere le polveri con quella espressione relativa alle donne come animali imperfettissimi, però è soprattutto Gasparo Pallavicino che sostiene le posizioni misogine) nella redazione precedente era lo stesso ottaviano fregoso a fare questo: le battute che abbiamo visto attribuite al pallavicino erano di Ottaviano fregoso, e l’articolazione era diversa, ma sono aprticolari su cui non entro. Allora Emilia Pio propone che intervenga un cavaliere: propone che si dia battaglia per sconfigger ein campo questa metaforica battaglia cavalleresca a Gasparo Pallavicino e alla sua posizione misogna. E investe, nel ruolo di cavaliere difensore delle donne, il magnifico giuliano, che è stimato protettore dell’onore delle donne, ed adesso deve dimostrare per l’appunto, se davvero è così, se la sua fama è meritata. Ricordiamo che questo gusto delle battaglia, dei confronti, delle dispute, rappresentate nella metafora delle battaglie cavalleresche è un elemento cortigiano, ben presente nelle corti di fine quattrocento inizio cinquecento. Non è un caso che la forma iniziale della discussione è presentata come dei cavalieri alla presenza delle donne, è presente anche negli Asolani. In questo senso si inserisce in un gusto che non casualmente, per quanto ne riguarda l’origine, era stato definito vetero-cortigiano: questo gusto della battaglia cavalleresca, degli scontri come se fossero scontri in armi da cavalieri, contrassegnava molto fortemente la seconda redazione, non solo questa prte finale del secondo libro, ma fondamentalmente tutta la discussione sulle donne dell’originario terzo libro della seconda redazione era tutto articolato in modo anche piuttosto pittoresco, con battute che sottolineavano anche a livello lessicale l’elemento della battaglia, era contrassengato fortemente inq uesto modo. Qui rimane una sorta di macchia di colore quasi soltanto alla conclusione di questo secondo libro, nel terzo non è ripreso allo stesso modo, e questa sottolineatura della disputa come battagli acavalleresca è di fatto lasciata largamente cadere.
Come sempre quando un personaggio è investito di un compito, come abbiamo visto per altri passaggi, c’è da parte sua uno schermirsi nel giudizio che dà di sé (topos modestie anche per il personaggio) di essere inadatto allo scopo. E d’altra parte nell’opera del Castiglione al consueto topos modestiae si somma anche l’effetto della sprezzatura. Quindi di fatto ciò di cui è capace un personaggio deve essere nascosto, simulando una condizione diversa, rispetto a quella che è la propria in modo tale da manifestare un modo di essere di sé che verrà manifestato e meglio apprezzato dagli altri. In un primo momento il Magnifico Giuliano interviene dicendo che non sarebbe più becessario condurre avanti il discorso, perché la cosa è più chaira che il sole; che Ottaviano Fregoso ha fatto male anche solo beffando, perché egli è personaggio di autorità, a spingere il pallavicino a prendere delle posizioni che offendono le donne m anche gli uomini. E che come gentiluomini hanno come compito e come condizione quella di riverire e rispettare le donne, e che secondo lui sarebbe anche inutile condurre troppo aventi il discorso perché la questione è più chiara che il sole, e dimostrare una cosa che è chiara significa rischiare di intorbidirla, rendendola meno chiara. D’altra parte affermando la parità della virtù tra uomini e donne affemra anche che per poter condurre ad armi pari il combattimento bisognerebbe che ci fosse una costruzione di una figura equivalente a quella del perfetto cortigiano. Se deve difendere in modo adeguato le donne, e deve contrastare quello che dice il pallavicino, deve questa donna di palazzo avere al tempo stesso le qualità, le perfezioni che sono state date al cortigiano. Naturalmente on attribuisce questo a sé (cap 98)« Ma, se la cosa avesse da esser pari, bisognarebbe prima che un tanto ingenioso e tanto eloquente quanto sono il conte Ludovico e messer Federico» cioè coloro che hanno svolto la trattazione nel primo e nel secondo libro «formasse una donna di palazzo692 con tutte le perfezioni appartenenti a donna, cosí come essi hanno formato il cortegiano con le perfezioni appartenenti ad omo; ed allor se quel che diffendesse la lor causa fosse d’ingegno e d’eloquenzia mediocre, penso che, per esser aiutato dalla verità, dimostraria chiaramente che le donne son cosí virtuose come gli omini». Prima va formata la donna di palazzo, e poi chi è più eloquente può controbattere. Siamo nel contesto del nostro gioco: interviene Emilia Pio che dice: «Anzi molto più», e cioè non l’uguaglianza tra gli uomini e le donne, ma l’eccellenza delle donne. E introduce un paradosso, puramente linguistico: «e che cosí sia, vedete che la virtú è femina e ‘l vicio maschio». L’idea che si formi una perfetta donna dipalazzo è quella che consente una trasforamzione radicale rispetto all’impianto precedente che appunto aveva il vechcio terzo libro, impostato sulla fine di questo secondo. Che cosa succedeva nel vecchio terzo libro? Faceva capolino quest’idea che si potesse formare, creare con parole la perfetta donna di palazzo, alla fine del vecchio terzo libro, come un altro gioco rimandato ad un’altra sera. Invece viene ad essere modificato l’assetto e in modo funzionale: perché viene totalmente riorientato il discorso sulle donne e la disputa sulal virtù e l’eccellenza della donne perché questo discorso è inserito in un ambito in cui innanzitutto ciene preposta la formazione della perfetta donna dipalazzo come figura che si pone in parallelo rispetto al perfetto cortigiano. Introducendo appunto una variazione in corso d’opera (sia per i dialoghi rappresentati, sia per la stessa redazione dell’opera) così che viene modificata nella sostanza la struttura. Naturalemnte ci sono ancora le battute finali prima della conclusione del libro. E qui viene chiamato incampo l’altro misogino. Il fisia si fa portavoce degli stereotipi sulle donne. Più di uan volta ho detto che il frigio è il personagigo in relazione al quale il Castiglione aveva pensato di scrivere una sorta di trattatello in forma di lettera proprio in difesa delle donne: quello che è un nucleo genetico in relazione alla trattazione sulle donne, in primo luogo ci è appunto consegnata da questa lettera che ci rimane seppur mutila tra le carte del Castiglione. Probabilmente questo era sorto come nucleo genetico che aveva a che fare coi vari argomenti da trattare nel contesto del discorso sulle corti. Poi era stato iglobato venendo a cortituire quella sorta di coacervo che era il vechcio testo libro, e adesso viene ripreso e modificato nell’assetto. C’è un passaggio alla conclusione del libro: il pallavicino e il frigio si prendono il gioco del magnifico giuliano dicendo che egli non potrà certo fare ciò che egli promette; emilia pio contraddice su questo e interviene la duchessa: fa più di un intervendo e nel 99 fa un intervento come espressione di autorità, non causalemtne usando il verbo volere. Primo intervento riguarda il regolare il tempo: abbiamo visto che la duchessa è quella che dà la norma e la regona: per essere l’ora molto tarda voglio che differiamo il tutto a domani; e d’altra parte la duchessa è d’accordo su quello che ha detto il magnifico giuliano, «tanto più perché mi par ben fatto pigliar il consiglio del signor Magnifico: cioè che, prima che si venga a questa disputa, cosí si formi una donna di palazzo con tutte le perfezioni, come hanno formato questi signori il perfetto cortegiano». Dopo due battue di emilia pio e frigio poi riprende la parola la duchessa: «Io voglio, – disse, – confidarmi del signor Magnifico» e attribuisce al magnifico giuliano il compito di imagginare, di pensare in modo tale da poter delineare quella perfezione che appunto si possa desiderare nella donna di palazzo. E esprimerla con parole. Il procedimento è duplice e non è casuale: immaginare vuol dire avere una creazione di carattere mentalem ,che deve essere poi tradotta in maniera adeguata in parole «e cosí averemo che opporre alle false calunnie del signor Gasparo». Il magnifico si schermisce, e non sono sufficiente, e non sono al pari con gli altri due, ma poi dice una cosa importante: un’altra cosa che richiama anche il rapporto tra reale ed ideale che avevamo già visto. E dice: «il Conte e messer Federico, i quali con la eloquenzia sua hanno formato un cortegiano che mai non fu né forse po essere» emerge un elemento portato non casualmente dal magnifico giuliano, e che mette in evidenza il carattere ideale di questa formazione: abbiamo già visto che c’è questo doppio piano che continuamente viene proposto; e quella perfezione delineata dal cortigiano veniva anche messa in scena, con sprezzatura, nella presentazione dei dialoghi, però al tempo stesso emerge la consapevolezza dello scarto che c’è tra la realtà e l’ideale. Non è un caso che il magnifico dica questo, uno scarto ancora maggiore ci sarà in ciò che dice il magnifico giuliano all’inizio della sua tratazione dicendo che non ha un modello cui fare riferiemnto, per la donna di palazzo. E qui esclude i modelli presenti: ha il modello massimo per la regina, che è la Duchessa, ma qui volendo formare la donna di palazzo e non la regina, deve fare una creazione mentale senza modelli. E d’altra parte per riuscire ad ottenere quello che dice di non poter da solo ottenere, proprio perché si è schernito con il topos modestiae, cheide che valgano per lui le stesse regole del gioco, e cioè il poter contraddire, l’intervento delgi altri. Il contraddire viene qui messo in evidenza come un modo per poter condurre più oltre il discorso e per poterlo approfondire, e in realtà come veremo ci sono aspetti della disputa che inevitabilmente rimangono irrisolti: sarebbe irrealistico pernsa che i misogini cambino idea: e infatti non cambiano idea, ma vengono battuti. La posizione dominante nel terzo libro è quella dei filogini, senza dubbi.
La Duchessa lo invita dunque a metterci tutto l’impegno e a pensare come formare la donna di palazzo in modo che quelli che si opponeavano si vergognino a dire che non abbia pari virtù del cortigiano. La duchessa fa notare, e questo è funzionale a quello che viene dopo , che sarà un bene che federico non continui più oltre a parlare del cortegiano perché lo ha già ornato fin troppo. Messer federico dice che gli rimaneva poco da dire, e quel poco se l’è dimenticato dopo quella spatafiata sulle facezie. Perché viene detto questo? Perché in realtà l’aspettativa che viene creata nel libro successivo è di un discorso a due voci. In realtà il fatto che federico abbia qualcosa da dire sarà solo accennato e poi sarà ubito fatto uscire di scena. Come la duchessa congeda i nostri? Dicendo che il giorno successivo si sarebbero trovati a buon ora, e dice «aremo tempo di satisfar all’una cosa e l’altra» facendo dunque intendere e creando una aspettativa che anche Federico Fregoso continui e concluda il suo discorso, cosa che verrà messa fuori campo appena Federico inizia a parlare e lui stesso non vorrà più continuare. Il libro si chiude con la cornice, tutti prendono congedo e ognuno si ritira nelle sue stanze.