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5 Agosto 2015L’Alberti è il primo umanista di calibro che scrive, anche in modo nuovo e sperimentale in volgare. Ci sono anche altri fiorentini che scrissero trattati in volgare, ma l’unico che lo fece con una consapevolezza del punto di vista metodologico, e una volontà di rifondare letterariamente il genere del dialogo e del trattato in forma di dialogo in volgare è proprio l’Alberti. Il quale scrisse una serie molto ampia di opere.
Leon Battista Alberti
Fondazione del dialogo umanistico in volgare. L’altra fase che riguarda il quattrocento riguarda l’Alberti. Altra fase per l’appunto poiché l’Alberti scrive in volgare. L’Alberti è il primo umanista di calibro che scrive, anche in modo nuovo e sperimentale in volgare. Ci sono anche altri fiorentini che scrissero trattati in volgare, ma l’unico che lo fece con una consapevolezza del punto di vista metodologico, e una volontà di rifondare letterariamente il genere del dialogo e del trattato in forma di dialogo in volgare è proprio l’Alberti. Il quale scrisse una serie molto ampia di opere.
Il pubblico. Alberti è uno degli autori più versatili del quattrocento, e si è cimentato in opere scritte sia in latino che in volgare. Nell’ambito della trattatistica d’Arte, l’Alberti ha anche questa peculiarità: con il De pictura, trattato scritto sia in latino che in volgare. Perché si rivolge a due pubblici diversi: un altro aspetto dell’Alberti è la consapevolezza acuta del rapporto tra lo scrittore e il pubblico: la destinazione delle proprie opere.
- Il latino. Naturalmente laddove Alberti vuole rifondare la moderna trattazione dell’architettura nel tempo moderno, allora scrive in latino: perché il de architettura è il trattato della nuova architettura. Quindi come progetto in quel senso è specificamente dedicato ad un pubblico colto per l’operazione che egli svolge.
- Il volgare. Col De pictura quando scrive in volgare si rivolge ad un pubblico che è innanzitutto quello dei pittori e degli artisti, nel senso più ampio del termine: a chi è dedicato infatti il De pictura: a Brunelleschi, proprio esaltando la novità e la capacità dei moderni perché sono stati capaci di trovare cose da nessun altri prima esperite; la grande cupola di Santa Maria del Fiore è la dimostrazione della grandezza dei moderni nell’ideare cose nuove. Quindi al gruppo dei pittori e scultori che vengono citati in quella stesa dedicatoria viene dedicata l’opera in volgare, e a tutti coloro che vogliono leggere ed avere una rifondazione su basi scientifiche, l’arte della pittura. La parte in latino è rivolta ai dotti naturalmente, dedicata al signore di Mantova, perché vuole dimostrare la sua capacità di rifondare l’arte. Per dare un idea, la cupola del Brunelleschi è conclusa nel 1434 e consacrata nel 36. Il De pictura dovrebbe essere più o meno del 36.
I libri della famiglia
Nasce il trattato umanistico in volgare. Per quello che riguarda il trattato umanistico in volgare, l’atto di nascita sono i libri della famiglia dell’Alberti: un opera sperimentale, che ha certamente delle disuguaglianze al suo interno; composta certamente tra gli anni 1433 (come progetto almeno) e compiuta senz’altro entro il 1440.
Della Pittura e Della Famiglia. Prima di parlare del Della Pittura, inizio a parlare della parte relativa ai libri della famiglia. In realtà la composizione delle due opere si intreccia: la composizione dei Libri della Famiglia si prolunga per un certo tempo; non sappiamo fino a quando perché Alberti ci dà (nella sua autobiografia) alcune notizie da non prendere alla lettera: avrebbe cominciato a scriverli quando ancora non aveva la piena padronanza della lingua volgare toscana nel 1433/34, poi, dopo un soggiorno a Firenze avrebbe completato l’opera in anni successivi. L’opera è senz’altro conclusa nel 1440.
Il certame e la curia pontificia. L’Alberti promosse l’istituzione del certame coronario organizzato nel 1441: una gara poetica in volgare ma che non ebbe esito sperato: non fu infatti dato il premio, non senza polemiche nei confronti dei giudici. I giudici erano di fatto degli eminenti umanisti della curia papale di Eugenio IV. Teniamo presente che la presenza in città del papa c’è in tempi diversi tra il 1434 e il 1439 circa e in questi momenti i vescovi a seguito del papa hanno modo di frequentare i circoli intellettuali della città. Alberti aveva dei legami ed anche dei compiti in curia e quindi tra questi personaggi c’era un rapporto significativo.
- Il dibattito sul latino. Un’altra discussione tenuta tra alcuni dei segretari della curia pontificia ed esponenti della curia fiorentina si riflette in questo proemio al terzo dei libri della famiglia: una discussione che si era tenuta nel 1434 intorno alla lingua latina: Alberti ne riprende alcuni tratti e li riprende in modo funzionale per sostenere la sua battaglia in difesa del volgare.
- La posizione del Bruni. Va aggiunto, in relazione a ciò che si è già detto del bruni, che il bruni stesso nella seconda parte dei Dialogi dove fa svolgere al Niccoli la ritrattazione lodando le tre cosiddette glorie fiorentine (non senza ambiguità), il Bruni per l’appunto, per la maggior parte delle sue opere scrive in latino e non in volgare: al Bruni si devono però prorpio nel 1436 due vitae importanti: una di Dante ed una di Petrarca. E proprio si afferma in relazione a questa scrittura della vita di Dante il significato ed il valore del volgare; valore che tuttavia per il Bruni, per quanto ci è dato capire, non è preminente in relazione alla scrittura in latino, proprio perché il Bruni scrive per tutta la vita in latino ed al latino affida le sue opere più importanti.
La questione della lingua. Per quanto alcune di queste affermazioni intorno al volgare siano significative da parte del Bruni, è l’Alberti l’umanista di punta che si batte in modo specifico per la difesa del volgare ed anche in relazione a quella che è la perfettibilità del volgare. Nella volontà di dare da un lato regolarità del volgare: all’Alberti infatti si deve una delle prime grammatichette del volgare, e dall’altro il fatto di scrivere in volgare da parte dei dotti è per l’Alberti uno dei modi e delle forme per mostrare la capacità e la potenzialità del volgare e di portarlo ulteriormente a perfezione.
Scrittura/Pubblico. Proprio in questo terzo libro della famiglia si Mette in evidenza anche una motivo di grande consapevolezza da parte dell’Alberti in relazione al pubblico: c’è un legame molto stretto tra la sua scrittura in volgare e il pubblico a cui si rivolge. Il pubblico a cui si rivolge nei libri della famiglia è il pubblico dei non litterati: cioè di coloro che non conoscono il latino. Un pubblico più ampio dei litterati: avevamo già affrontato un discorso di questo genere in relazione a ciò che Dante diceva nel convivio. Per fare cosa utile ai più la scrittura in volgare è quella da adottare se ci si vuole rivolgere ad un pubblico veramente ampio.
I generi antichi. D’altra parte lo scrivere il trattato in volgare ha un significato ben preciso: si tratta del tentativo da parte dell’Alberti di rifondare a sua volta generi già praticati dai classici, ora in volgare: il modello, non unico, è ancora una volta il De Oratore di Cicerone. D’alta parte l’Alberti ora si può avvalere anche filologicamente di un testo migliore, che tra l’altro nemmeno il Bruni possedeva: infatti nel 1421 a Lodi viene riscoperto un testo completo, migliore di quello di cui si disponeva precedentemente, e l’Alberti se ne avvale ampiamente.
Questo trattato è anche un opera che possiamo dire sperimentale: sono disuguali i risultati da libro a libro, e si può dire che uno dei risultati migliori che Alberti ottiene è proprio in questo terzo libro che tratta della amministrazione della casa e del patrimonio domestico: questo è poi il libro che ebbe più fortuna in termini di circolazione anche grazie a delle riduzioni fatte da altri. D’altro canto l’Alberti dichiara di aver scritto questi suoi libri per la propria famiglia, per gli Alberti, e di aver fatto tesoro sia della lezione degli antichi sia degli insegnamenti raccolti all’interno della sua stessa famiglia.
I conflitti familiari. La famiglia degli Alberti era una famiglia di Mercanti; la posizione dell’Alberti nei confronti della sua stessa famiglia è una posizione conflittuale. Questo è un aspetto che dobbiamo tenere presente: Alberti è figlio naturale, riconosciuto dal padre Lorenzo quando il padre era in esilio (la famiglia Alberti subì l’esilio alla fine del 300 e furono riammessi alla fine degli anni 20 del 400 a Firenze). Finché visse il padre Alberti fu protetto da lui, alla morte del padre si trovò in una situazione difficile: i suoi interessi erano legati agli studi, non solo letterari ma anche scientifici e giuridici, ma i suoi parenti ritenevano che questi studi non producessero quei beni che potessero essere interessanti per interessi mercantili e dunque fu fortemente avversato sotto questo profilo. Si trovò nella condizione dell’orfano; si trovò nella situazione di grosso conflitti anche difficoltà economiche; ad un certo punto si trova in una situazione tale che denunciata dall’autore sembrò sfociare addirittura in un attentato contro la propria stessa vita. Poi i rapporti con la famiglia ebbero momenti diversi di allontanamento ed avvicinamento; uno dei pochissimi membri con cui mantiene rapporti è proprio questo Francesco cui è dedicato il terzo dei libri della famiglia.
La cornice
Ambientazione. Il motivo autobiografico è un motivo portante di questa opera e questo si vede anche nella cornice: c’à una cornice narrativa non continuata; cioè la cornice introduce l’opera, introduce ogni libro; viene riproposta in conclusione ed in punti interni di ogni libro, a fare da dislocatore delle parti di questo libro. Questa cornice ci porta a Padova nel 1421 nell’imminenza della morte del Padre.
Personaggi. Ci presenta tre personaggi: la figura di Battista, un Alberto giovane; la figura del fratello Carlo; ed altri personaggi della famiglia Alberti che sono rappresentati in posizioni ed età diverse: le due figure principali sono Lionardo Alberti, che troveremo in questo libro, e D’altra parte l’altro personaggio che si trova in questi libri, Adovardo Alberti non è presente in questo momento, e ritornerà solo alla fine del terzo libro. Personaggi, età, caratteri diversi: Lionardo è il litterato di Famiglia. Adovardo è sia letterato sia padre di Famiglia. La figura davanti alla quale ci troviamo in questo libro è quella dell’anziano di famiglia: Giannozzo Alberti, l’illetterato per eccellenza, ma anche l’esperto e in quanto tale la sua figura è introdotta.
Il modello ciceroniano. Teniamo presente che il rapporto che si crea tra i personaggi, il luogo e i temi trattati c’è una congruenza molto significativa: l’Alberti mostra con questo di avere colto uno dei punti di fondo ed anche di forza della rappresentazione del De Oratore: che si svolge nella casa di un importante oratore come Crasso, che vede la presenza di una serie di oratori di età diversa, tra cui alcuni giovani, e d’altra parte una situazione in cui si parla del perfetto oratore. Quindi una congruenza che sarà poi pienamente considerata e ripresa, anche se in un’altra dimensione, nel Cortegiano.
Il tema: la famiglia. L’Alberti riunisce nella casa Padovana del padre Lorenzo diversi personaggi di età diverse della famiglia Alberti e tratta di un tema importante che riguarda tutto quello che ha a che fare con la famiglia, a partire da quello che riguarda l’educazione dei figli e via via specificando di libro in libro una serie di elementi congruenti.
Auto-risarcimento. Introduce sé stesso come personaggio con una duplicazione speculare, un sé giovane (e questo è diverso rispetto a Cicerone) però non rende in dialogo contemporaneo: c’è a sua volta uno scarto temporale, al contrario dei dialoghi del Bruni che sono in contemporaneità: uno scarto temporale che è funzionale per l’Alberti perché ci riporta per l’appunto quando la propria situazione sul piano autobiografico era ancora in una prospettiva positiva: è come se in un certo senso quest’opera costituisse anche una sorta di auto-risarcimento: teniamo presente che Alberti poi dichiara che in un certo senso con quest’opera sperava di essere accolto nella sua famiglia in Firenze e di essere di fatto lodato per il lavoro fatto, il che non fu tuttavia apprezzato.
Il terzo libro
Doppia matrice. Consideriamo ora il terzo libro. Va innanzitutto detto per quello che concerne la scrittura Albertiana, che l’Alberti nello scrivere in volgare, per quanto possa sembrarci sorprendente, punta su due poli fondamentali: da un lato la matrice latina, dall’altro quella che definisce “questa nostra d’oggi lingua toscana”. L’Alberti non parla affatto di Dante, Petrarca e Boccaccio: è chiaro che chi scrive in volgare non può ignorare la grandezza dei tre scrittori fiorentini sul piano dei fatti però è altrettanto evidente la volontà dell’Alberti di ridare dignità al volgare scavalcando quella che era stata la tradizione in volgare del passato: è una operazione che riesce solo in parte, il libro che risulta più felice anche sul versante che riguarda una abilità nel riprodurre le movenze vivaci del parlato è proprio questo terzo libro: ma vedremo su che modello dice di essersi basato.
Proemio.
Questo proemio è particolare in questa collocazione perché di fatto fu composto specificamente per accompagnare il terzo libro, come vedremo alla fine del proemio parla degli argomenti dei due precedenti libri, ed è l’unico libro che ha un proemio a sé stante. Probabilmente questo libro fu inviato al dedicatario ed è quindi una dedicatoria che fa da viatico al libro stesso.
Prima parte
Una disputa tra Lorenzo e Antonio. Che situazione ci presenta l’Alberti all’inizio di questo libro? Ci presenta l’evocazione di una disputa: ancora una volta ci troviamo di fronte ai modi di una discussione: una discussione non di scuola perché questa disputa, secondo quello che dice appunto Battista, sarebbe stata tenuta tra Antonio, lo zio di Francesco, che è il dedicatario, e il padre dell’Alberti, Lorenzo. Questi due spesso passeggiavano e disputavano in questi giardini bellissimi della villa di Antonio degli Alberti, tanto bella questa villa da essere definita “il Paradiso degli Alberti”, disputavano passeggiando (anche questo non è casuale evidentemente), e discutendo di diverse questioni: la questione qui affrontata riguardava la maggior perdita costituita o dalla perdita dell’impero romano, oppure dell’antiqua nostra gentilissima lingua latina.
- Lingua veicolo di fondamentali contenuti. E ci viene subito dopo a dire che, secondo il giudizio del padre, la maggior disgrazia era proprio questa ultima delle due: e cioè “essere spogliati di quella emendatissima lingua …”: la lingua come espressione e veicolo di importanti e fondamentali contenuti: non a caso sottolinea i due aspetti centrali per l’Alberti che sono le buone arti e quanto è relativo al vivere, e ritorna in un contesto di carattere morale.
La perdita senza furto. Spiega perché il padre sosteneva questo e spiega le cause della perdita mettendo in evidenza la grande disgrazia, la maggiore, nella perdita della lingua perché essa non era dovuta come la perdita dell’impero alla volontà dei popoli sottomessi di liberarsi, ma in realtà era stata persa senza che nessuno l’avesse sottratta. Osserva che è «straordinario e incredibile il trovarsi corrotto e mancato quello che per uso si conserva».
La teoria di Biondo Flavio. Qual è l’origine del volgare dunque? L’origine del volgare viene per corruzione a causa delle conquiste barbariche della lingua latina.
Pg 147, par 5: qui l’Alberti riprende la tesi dell’umanista flavio Biondo che aveva appunto sottolineato come a causa della corruzione della lingua latina in conseguenza delle invasioni barbariche aveva collegato a questo l’origine della lingua volgare.
- in positivo. Ma attenzione: nel contesto del discorso del Biondo questo risulta essere un aspetto negativo che scredita il volgare. Teniamo presente se consideriamo Lorenzo Valla, questi non scrive in volgare né si interessa al volgare, anzi, vuole riportare alla sua purezza la lingua latina. Alberti la pensa diversamente.
Seconda parte
Unità linguistica vs bilinguismo. Per arrivare ad affermare ed a sottolineare gli aspetti legati alla lingua volgare c’è però un altro passaggio: in quelle discussioni di cui si è accennato prima ed a cui aveva partecipato il Biondo e il Bruni sulla lingua latina si erano delineate due posizioni diverse: tra chi riteneva che vi fosse un unità linguistica nel mondo antico, e chi riteneva, come il Bruni che ci fosse una doppia e parallela situazione analoga e parallela a quella che nel loro mondo contemporaneo vi era tra il volgare ed il latino.
- Il malinteso sulla posizione del Bruni. In realtà il Bruni non ha mai detto che il nostro volgare era il volgare dei romani, ma aveva stabilito semplicemente un’analogia. In larga misura fu interpretata così: come se il bruni avesse detto che l’origine del volgare appartenesse al mondo latino.
Contro la teoria sul bilinguismo antico. Qui l’Alberti sottolinea appunto la non pertinenza di questa seconda posizione. Sono diversi gli argomenti evocati, a partire da un argomento di carattere misogino: e cioè che le donne del mondo antico non sarebbero state in grado di acquisire quello che nel mondo contemporaneo solo uomini dotti con grande fatica erano capaci di fare. Il latino sarebbe stato dunque una invenzione artificiosa e non la lingua effettivamente in uso, tesi già diffusa ai tempi di Dante. L’Alberti qui introduce la serie delle sue obiezioni mettendo in evidenza che non ha intenzione di svolgere una vera e propria disputa: pag 148, riga 46: «dai quali.. vi manderei»: questa è la prima di domande che introduce, poi introduce una serie di domande che farebbe a interlocutori immaginari se ci fosse una disputa in atto; immaginari ma anche evocati, in relazione alla disputa che c’era stata nel 1435.
Il latino come unica lingua d’uso. Il succo del discorso è che di fatto i latini scrivevano e parlavano e comunicavano in latino, sia tra di loro che ai servi che alle mogli che ai figli: e d’altra parte stabilisce per analogia questa situazione: la difficoltà di fatto per l’imparare o meno una lingua si può valutare anche su quello che riguarda l’imparare il volgare attualmente da parte di coloro che appartengono a genti straniere.
Latino e volgare in parallelo. Quindi: se i dotti del tempo contemporaneo all’Alberti hanno difficoltà ad imparare il latino e giudicano questo impossibile a chi non avesse la stessa cultura, non si rendono conto che anche per una lingua come quella del volgare, cambiando quello che c’è da cambiare, una volta che si consideri che questa è una lingua straniera, è ugualmente difficile da imparare da chi sia straniero. Per chi non l’abbia come proprio madre lingua. Badiamo che quando qui si parla di servi, ohimè, si intendono gli schiavi, proprio persone che vengono da altri paesi.
Scrivere per essere intesi. Introduce poi altri argomenti su cui non mi soffermo mentre mi soffermo su quello che è la motivazione determinante che riguarda l’utilità: il parlare e lo scrivere per essere intesi. Pag 148: « e con che ragione .. molto volevano essere intesi»: quindi: il rapporto della scrittura con il pubblico cui ci si rivolge: si scrive per essere intesi; non avrebbe senso scrivere per non essere capiti.
Terza parte
Contro i detrattori. A questo punto si introduce il rapporto privilegiato con l’interlocutore, che è d’accordo con lui, e contro i detrattori: dicendo appunto «chi sarà mai così temerario che possa perseguitarmi … a questi dì i letterati».
Contro chi critica. L’attacco ulteriormente si specifica poi nei confronti di coloro che di fatto non sanno far altro che criticare e che non riconoscono il carattere stesso della lingua, pur riconoscendo, da parte dell’Alberti, che il latino è lingua copiosa e ornatissima non capisce perché si debba odiare la lingua toscana di oggi. Biasimando per l’appunto quelli che da un lato non sanno se non tacere in latino, cioè non scrivono nulla, e in volgare non sanno far altro che biasimare gli altri; in controluce in questa polemica, è una posizione degli studiosi, c’è di nuovo la figura del Niccoli: visto a distanza di tempo rispetto ai dialoghi del Bruni, e visto come un personaggio che si pone come ostacolo sulla via si un cambiamento, di un rinnovamento; ma che anche d’altra parte, per quello che riguarda gli studi umanistici, rimane chiuso nell’intimo della sua biblioteca, e non produce nulla di nuovo c’è nell’una né nell’altra lingua.
La perfettibilità del volgare. E l’Alberti ribadisce che ci sono ornamenti in questa lingua comune, basta saperli riconoscere. E risponde all’obiezione che quella lingua antica era piena di autorità presso tutte le genti legandola al fatto che in essa scrissero molti dotti, e dunque simile diverrà la lingua volgare, dice l’Alberti, se in molti la vorranno molto con studio «essere e limata e polita» (pag 150): e questa è un osservazione riguardo alla perfettibilità della lingua volgare; se chi scrive in lingua volgare è un dotto e si impegna a scrivere usando ala lingua volgare a sua volta vedrà che la lingua volgare che pur non essendo copiosa e limata come la lingua latina, non è tuttavia priva di ornamenti, può diventare ancora migliore e in progressione diventerà una lingua non inferiore a quella degli antichi.
E ricomincia di nuovo ad attaccare i detrattori prima di passare all’argomento del libro, ponendosi in senso antagonistico: come una sfida dell’Alberti che ruota proprio in questa direzione: quello che è importante è non marcire nell’ozio e fare cose utili, e rinfaccia ai detrattori di sapere solo criticare e di non produrre nulla. L’utilità è un aspetto determinante riaffermato costantemente in questo proemio.
Aspetti sintattici e stilistici di questa prosa. Avrete notato quanti siano i latinismi, per esempio il commendato , e come non manchi una certa faticosità nell’andamento sintattico costruito alla latina: questo è uno degli aspetti in cui l’Alberti mostra come nel rinnovare il volgare sulla matrice latina non manchino dei problemi quando la nozione del latino possa essere tropo diretto come matrice o non reso sufficientemente utile nelle strutture sintattiche adattandole al volgare.
Quarta parte
L’argomento. Da questo momento in poi si rivolge all’interlocutore e gli spiega come procede: richiama i due libri scritti precedentemente, ne richiama la struttura e l’argomento sintetizzando senza entrare nei particolari e collega l’argomento del terzo libro alla materia svolta nel libro precedente.
- Primo e secondo libro. Brevemente: il primo libro tratta soprattutto dell’educazione dei figli; il secondo libro ha due parti: nella prima c’è una disputa sull’amore, nella seconda si imposta una trattazione che comporta un vero e proprio insegnamento, insegnamento svolto da parte di Leonardo ai due giovani Battista e Carlo in relazione a quanto fa diventare grande la famiglia: si tratta innanzitutto di far diventare la famiglia popolosa quindi c’è una trattazione, anche in questo secondo libro, sul matrimonio, e si tratta di vedere come possa la famiglia aumentare per quello che riguardano le ricchezze e come debbano essere aumentati i patrimoni: quindi l’accumulazione delle ricchezze era stato il tema su cui si era chiuso il libro precedente.
- L’argomento del terzo libro: la masserizia. Si tratta, ora che le ricchezze sono state accumulate, di saperle amministrare. E questa è la trattazione che viene svolta in questo terzo libro, dedicato alla masserizia: espressione fiorentina che vuol dire sia risparmio che soprattutto una oculata amministrazione del patrimonio familiare. Alberti spiega poi che cosa vedrà il dedicatario in questo libro. E lo spiega mostrando chi sia il protagonista: «in questo libro troverai decritto il padre di famiglia … conservi».
Il rapporto scrittore destinatario. Questo proemio si chiude poi con il ribadire il rapporto privilegiato con l’interlocutore, con la sottolineatura che in questo libro viene mandato come pegno e segno di amicizia e con l’invito perché il destinatario legga questo libro, perché lo aiuti nel correggersi affinché ai detrattori rimanga meno materia di attacco, e d’altro canto l’invito finale è di carattere molto personale, e ricompare un motivo autobiografico dell’Alberti che cerca di trovare una corrispondenza in termini di affetti anche in questo suo parente Francesco.
Un particolare topos modestiae: la richiesta di emendatio. La richiesta di essere emendato è sistematica nei proemi Albertiani: questa sostituisce per certi versi quel topos modestiae che abbiamo visto. Alberti ritiene che il ruolo del lettore, lettore competente, è che possa intervenire per migliorare l’opera: non dunque criticare, ma comprendere ed aiutare a migliorare l’opera.
Libro terzo: l’economico
Una novità: la caratterizzazione dei personaggi. Torniamo alla figura di Giannozzo come protagonista, che aiuta a mettere in evidenza i caratteri del trattato. Avevo già accennato come ci sia un’attenzione ai personaggi del dialogo in quanto personaggi: questo ha una pertinenza di stampo teatrale per quello che riguarda il gioco delle voci e le connotazioni dei personaggi. Per quello che riguardava i dialoghi del Bruni si era detto che il bruni, da come scriveva e metteva le varie battute puntava a rendere, e lo dichiarava anche, quelle che erano realisticamente i modi e le espressioni dei suoi personaggi; l’Alberti fa un’altra cosa: cerca di rappresentare il personaggio nella sua dimensione anche psicologica, per quello che il personaggio rappresenta anche all’interno del testo. La figura di Giannozzo è figurata come quella del padre di famiglia, dotato di virtù, saggio, avanti negli anni, esperto e non letterato.
Il modello di Senofonte
La fonte greca. Il modello qui indicato come modello distile è identificato in senofonte, nell’economico. Possiamo partire una brevissima parentesi, e porre un problema, che resterà come tale poiché si tratta di un problema non risolto: non sappiamo dove l’Alberti avesse studiato il greco, né se ne avesse una piena padronanza: l’economico di Senofonte però a questa altezza cronologica non era tradotta in latino. C’era stata sì nel mondo antico una traduzione fatta da Cicerone, ma questa traduzione in latino on ci è giunta. Che l’Alberti abbia potuto avere un accesso diretto all’economico e che conoscesse il greco anche se non abbiamo documenti è un ipotesi; un’altra ipotesi possibile è che qualcuno tra gli altri segretari di curia avesse compiuto per lui questa mediazione: ci sono accanto ad Alberti altri umanisti che conoscevano il greco quindi è possibile questa seconda ipotesi. Quello che è evidente è che l’Alberti ha saputo cogliere tuta una serie di spunti che ha poi saputo riprendere sia da un punto di vista strutturale sia da un punto di vista stilistico riattualizzandoli nella sua stessa opera. L’operazione che Alberti fa è abbastanza complessa sotto questo profilo perché si mettono insieme aspetti e ricreazioni diverse nella rappresentazione della figura di Giannozzo.
Giannozzo / Iscomaco. La figura di Giannozzo corrisponde a un personaggio dell’economico di Senofonte che si chiama Iscomaco. Nell’economico Socrate rievoca una conversazione avuta appunto con Iscomaco al fine di fare un ammaestramento sull’amministrazione della casa ad un giovane discepolo: Socrate che non era un esperto nell’amministrazione della casa fa intervenire l’esperto, ma non interviene la figura di questo esperto nell’economico direttamente, interviene attraverso il discorso fatto da Socrate, qui invece è personaggio (Giannozzo).
[Nel contesto dell’economico di Senofonte abbiamo una struttura ad incastri: in questa struttura di fatto abbiamo un dialogo appena accennato con cornice che ci introduce un dialogo tra Socrate e Critobulo: a un certo punto quando Critobulo vuole sapere da Socrate quello che riguarda l’organizzazione della casa Socrate sostiene che non può personalmente svolgere questo insegnamento e riporta il discorso che fece con Iscomaco che è l’esperto]
L’Alberti non usa questo schema, ma ci mette di fronte direttamente il padre di famiglia, Giannozzo. Questo Giannozzo viene reso più vecchio rispetto a quella che sarebbe stata l’età reale di Giannozzo Alberti. Giannozzo Alberti è l’unico personaggio della famiglia che era ancora vivente, e aveva un età avanzata nel momento di scrittura dei libri della famiglia, ma non così avanzata nel momento in cui il dialogo è ambientato che è il 1421. Alberti lo invecchia usando un altro modello eccellente e cioè il … questi sono i due modelli entro cui si muove la ricreazione e imitazione Albertiana.
Anziano, esperto, illitterato. Attraverso questi l’Alberti crea un personaggio: il personaggio di Giannozzo è rappresentato proprio anche con i tratti della persona anziana, nel modo di porsi, di parlare per proverbi, nell’evocare le genealogie di famiglia, nel lamentare le proprie condizioni fisiche, è il personaggio di un’altra generazione, è il personaggio che è depositario della sapienza e della virtù anche della famiglia Alberti: si pone da un punto di vista empirico come la figura dell’esperto; ma questa figura che si pone dal punto di vista empirico è in realtà letteraria quant’altre mai, e ricreata dall’Alberti evidentemente. Nella finzione il personaggio è illetterato e come tale viene rappresentato. Questo è molto gustoso in diversi tratti del terzo libro: la parte in una certa misura più divertente non è qui riportata ed è quella in cui Giannozzo rievoca l’educazione della giovane moglie: li ci sono tratti con scene familiari e sembra quasi di leggere una commedia antica.
Un tipo particolare di trattazione. La parte che ho riportato è la parte iniziale per far vedere in che modo è introdotta la trattazione: introdotta cioè in modo apparentemente del tutto casuale. Questo è un esempio che ci interessa perché è un precedente, cambiando quello che c’è da cambiare, tutt’altro che insignificante per quello che riguarderà l’elaborazione del Castiglione. Il modo in cui cioè i personaggi dialogano tra di loro, ed entro questo dialogare si introduce la trattazione vera e propria, la parte diciamo così trattatistica del discorso.
Avvio della conversazione
La situazione iniziale. Che cosa presenta innanzitutto l’inizio del libro? L’inizio del libro ci presenta la cornice, che mette in evidenza la situazione nella quale ci troviamo, e che ci porta al giorno dopo rispetto ai dialoghi che erano stati svolti il giorno precedente e alla trattazione che Lionardo aveva fatto. Ci mostra come Carlo e Battista avevano trascritto quello che ricordavano delle conversazioni sentite precedentemente.
- L’arrivo di Giannozzo. In questa situazione arriva il personaggio, Giannozzo Alberti, che è nella cornice dotato immediatamente di una definizione. È definito «uomo per sua grandissima umanità e per suoi costumi interissimi, da tutti chiamato e reputato, come veramente era, buono, sopraggiunse»: questa definizione corrisponde alla definizione dell’uomo buono, proprio definito in quanto a costumi comportamenti e modo di essere, esemplato sul testo greco che era appunto Iscomaco.
- Il motivo della sua venuta. E si spiega anche come sempre in modo verosimile in termini narrativi il motivo per cui era arrivato Giannozzo. Teniamo presente che nei precedenti libri non si parlava di lui e qui sarebbe arrivato per il lettore all’improvviso, e dunque bisogna spiegare la ragione. Era venuto per vedere un altro personaggio, che si chiama Ricciardo, che era il fratello di Lorenzo. Questo Ricciardo era stato mostrato come il personaggio arrivato precedentemente sulla scena dei dialoghi. Giannozzo era venuto li e da questo comincia il discorso.
- Gli affetti familiari. L’incontro tra i due però non è possibile perché Ricciardo si trova presso Lorenzo malato. Viene ad essere dunque introdotto il motivo degli affetti familiari e della malattia; viene evocato per voce di Lionardo l’incontro che fuori scena c’è stato fra Ricciardo e Lorenzo e questa parte del dialogo oltre che ad evocare in termini di verosimiglianza questa tipologia di incontro serve anche a mettere in evidenza le connotazioni che sono proprie di Giannozzo e il mondo degli affetti che si viene a ricreare presso la figura di Lorenzo. Lorenzo aveva affidato i figli al fratello Ricciardo e dunque viene evocata la situazione favorevole all’Alberti e a Carlo di una continuità di rapporti famigliari che in realtà non ci sarebbe stata. Ricciardo tra l’altro sarebbe morta a sua volta e gli Alberti si sarebbero trovati nella condizione di orfani abbandonati dalla famiglia.
L’attesa di Ricciardo. Dopo questa serie di battute in cui Giannozzo chiede per informarsi e Lionardo gli risponde, si stabilisce il tempo dell’attesa: c’è un tempo in cui Giannozzo dovrà fermarsi qui perché attende che riccciardo abbia finito di Parlare con Lorenzo. Lorenzo deve dare a Ricciardo le disposizioni testamentarie, quindi in questo tempo dell’attesa si svolgeranno i dialoghi e si svolgerà la trattazione sulla masserizia. Questo noi riusciamo a capirlo via via all’interno del dialogo.
Notazioni di verosimiglianza. Man mano si introducono tutta una serie di notazioni in termini di verosimiglianza per presentarci l’età avanzata di Giannozzo, dunque la stanchezza di Giannozzo, la necessità per Giannozzo di sedersi e d’altra parte la virtù di Giannozzo, le sue doti, la sua volontà di essere utile agli altri: dice che era andato a Padova a trovare un amico per aiutarlo, ma che non aveva trovato nessuno e quindi si era trovato li; poi c’è un’annotazione di tipo religioso perché ci dice che deve far presto perché poi deve recarsi in chiesa. Ora si ferma qui, stanco, e rievoca in questa sua stanchezza la propria condizione; c’è anche qualche notazione un po’ caricata, che rende involontariamente anche un po’ caricaturale questa figura di Giannozzo.
La giovinezza di Giannozzo
Presente e passato. Giannozzo viene riconosciuto per le sue virtù e dichiarato «buono» da Lionardo e in modo naturale si avvia la conversazione sul rapporto tra presente e passato. Giannozzo rievoca il tempo in cui era giovane, la differenza in cui si trovavano, non solo per ragioni fisiche e psicologiche, ma anche la con le proprie ambizioni, e attraverso questa via si introduce il tema dello spendere e del risparmiare. Infatti evoca il tempo in cui era giovane ed ambizioso, in cui voleva mettersi in mostra, in cui gli Alberti non soltanto erano ricchi, ma erano una famiglia di grande prestigio ed amavano mostrarsi alla cittadinanza in attitudini cavalleresche facendo giostre e presentandosi dunque riccamente abbigliati in questi che sono naturalmente simbolici, ma che pure in questo ambiente cittadino come Firenze, avevano avuto il loro pregio.
- Scontro di generazioni. Giannozzo contrappone la propria condizione di giovane a quella dei suoi genitori. Giannozzo voleva apparire, spendere, essere partecipe di tutte queste manifestazioni, ma i genitori e i parenti glielo volevano impedire. Da un lato per quello che riguardava la sua condizione personale di sicurezza, cioè perché i giochi erano pericolosi, e dall’altra perché si trattava di mettere in campo cifre anche considerevoli del patrimonio familiare. Questa contrapposizione tra il sé di allora e il sé di oggi viene anche rappresentata vivacemente nel mettere in evidenza tutto quello che aveva tentato di fare per convincere i propri parenti e familiari senza esserci riuscito.
- Esigenza della masserizia. E dunque giunge ad una prima conclusione questa evocazione: pag 156, riga 120: « molto … largheggiava». E qui c’è un capovolgimento: quello che allora gli sembrava da fare è cambiato radicalmente, e c’è una espressione quasi proverbiale. « chi getta via il suo è giudicato essere pazzo» e « chi non presta misura nello spendere, suole presto impoverire», e questo è un vero e proprio proverbio attribuito ai contadini del tempo. Il discorso si chiude con una piccola conclusione: «figlioli miei .. superflue spese».
Masserizia vs Avarizia
Il problema. Ma c’è un problema che viene subito messo in chiaro da Lionardo, perché c’è il problema del fatto che non essere spendente potrebbe far si che si sia avari, e Lionardo suppone per l’appunto che a Giannozzo non piaccia ne essere ne parere avaro. Si introduce dunque il tema della avarizia: vizio particolarmente vergognoso per le persone d’animo, anche in termini di fama. Quindi Lionardo obietta: « chi non vuole parere avaro non tiene necessitate essere spendente».
- Progressive approssimazioni. Come possiamo ben capire si tratta di arrivare per progressive approssimazioni a definire che cosa sia la masserizia come se questo avvenisse attraverso la naturalezza di un discorso.
- Come ha fatto Petrarca. Avevamo visto il modo di procedere nel de Vita Solitaria: il Petrarca procedeva mostrando l’indaffarato con tutte le connotazioni negative dell’indaffarato e invece il tranquillo e amante della solitudine in contrapposizione.
- un esempio concreto: il convito. Fa qualcosa del genere anche Giannozzo ma in termini più naturali: ci dà un quadro molto vivace di quello che succede apparecchiando un convito e del fatto che questo non comporti una soddisfazione tale da poter consentire di essere soddisfatti in alcun modo , e poi presentandosi successivamente dopo una serie di battute, le due opposte figure del prodigo e del massaio. In primo luogo ci dà una rappresentazione colorita del convito: il convito è uno dei modi in cui si spendono i denari. E sarebbe un modo tutt’altro che improprio, perché di fatto il convito è definito una spesa civilissima, per mantenere benevolenza e familiarità tra gli amici. Ma cosa succede per preparare il convito? E qui c’è tutta una serie di cose che devono essere fatte, di contrattempi di situazioni presentate molto dinamicamente attraverso una serie di verbi, che altro non fanno che concludere che il volersi dedicare a cose di questo genere non possa essere altro che pazzia. Certo non significa escludere totalmente dal campo delle possibilità anche spese di questo genere, ma oculatamente destinare una o due occasioni all’anno.
- La definizione: il prodigo. Chi fa cose diverse da queste si trova nella condizione di sperperare il proprio patrimonio: ma Giannozzo essendo illetterato non sa spiegare chi sono quelli che sperperano il proprio patrimonio, perché non ha la definizione: a chi spetta dare la definizione della prodigalità? Spetta al letterato Lionardo, ed è quello che viene fatto.
- La rappresentazione del prodigo. Ma non è la definizione in sé che importa, ma di quello che sono le connotazioni: chi si comporta in modo da essere prodigo e chi sa oculatamente risparmiare. E come vi ho detto in primo luogo ci viene mostrata, la figuretta, il quadretto, e anche qui in modo concretamente vivace la figura del prodigo, il codazzo di parassiti che sempre lo segue, la condizione in cui si viene a trovare nel corso del tempo fino a mostrarne la necessità di sottrarre beni alla famiglia, e rovinare il proprio patrimonio per ritrovarsi infine solo e abbandonato da tutti. Al contrario viene fatto per opposto l’elogio del massaio, e l’elogio della santa masserizia, contrapponendo chi rovina il patrimonio e chi invece tutela la salute della famiglia.
- La definizione: l’avaro. Ma il discorso sull’avarizia non può concludersi in questo modo; va chiarito cosa significa masserizia, e in che senso non essere spendenti va distinto dall’avarizia. Per distinguere questo si introduce l’altra accezione del termine avaro. Sappiamo che nella lingua antica Avaro significa «avido», cioè chi viole avere sempre più bene, e per questo li sottrae agli altri; Avaro vuol dire anche avere una soverchia strettezza nello spendere. Allora non è avaro chi non spende, è avaro chi è prodigo: perché ha sempre bisogno di soldi e dunque diventa avido. Con ciò non deve essere considerato, da parte di chi non è prodigo, il vivere con troppa strettezza di denaro. Di nuovo arriva una ulteriore conclusione: «ben confesso questo .. che godereccio» (pag 160).
La definizione di Masserizia
La definizione di Masserizia. Si articola ora un dialogo a due voci tra Lionardo e Giannozzo, da cui poi parte la necessità di chiarire che cosa sia la masserizia. C’è un’affermazione di Giannozzo come uomo senza lettere che ha un peso per sottolineare la situazione empirica in cui si pone Giannozzo: « tua sai Lionardo che io non so lettere … questi chiamo io massai»: la definizione cui giunge anche l’illetterato è una definizione che viene fatta in modo diverso rispetto a quello che potrebbe fare il letterato che la desume dai libri ragionando secondo l’allegazione dei libri, e secondo l’autorità; qui viene data invece per prova.
- Definizione per prove. Allora, questa dichiarazione di Alberti non viene data in senso assoluto, perché qui il significato è dato in relazione a ciò che per prova può essere dimostrato, è evidente che se si trattasse di un altro argomento che non potesse essere dimostrato per prova, il discorso di Giannozzo avrebbe un altro peso. Ciò non togli che questa dichiarazione di procedere senza autorità sia importante da sottolineare in relazione a quello che è proprio dell’Alberti: il modo di procedere e la volontà da parte dell’Alberti di ricercare le ragioni delle cose secondo prove, esperienze e non secondo autorità. E attraverso questa via vuole mostrare come tramite approssimazioni di giunga alla definizione della masserizia: non attraverso una trattazione sistematica ed ordinata del discorso, ma attraverso quello di cui può essere data dimostrazione da parte di chi ha saputo ben amministrare il proprio patrimonio e adesso né dà una lezione a chi questa esperienza non ha fatto.
- Il ruolo secondario del letterato. Il ruolo di Lionardo, il letterato, è un ruolo che qui viene visto in subordine: viene qui Lionardo ad Aiutare Giannozzo a mettere via via a fuoco quelle che sono le connotazioni del discorso di Giannozzo. Attraverso questa via si giunge a definire quello che è il tema trattato e poi a spiegare in che modo possa essere svolto il seguito della trattazione; si insiste sulla conoscenza per prova, e si insiste in un gioco delle parti, nello scambio di posizione e nella volontà da parte di Lionardo di attribuire questo compito a Giannozzo. Una trattazione che è fatta in modo aperto e domestico: e questo viene messo in evidenza dal fatto che gli interlocutori sono disposti intorno al personaggio di Giannozzo: Lionardo viene fatto sedere, i giovani restano in piedi. Ma Lionardo viene fatto sedere: non è un discorso svolto in pubblico, ma un discorso svolto in un interno domestico. Se ci trovassimo in pubblico gli altri non dovrebbero stare seduti accanto a Giannozzo, poiché a lui è dovuta la riverenza. Lionardo seduto però simbolicamente rappresenta l’altra voce del dialogo: colui che interverrà via via per dare quelle precisazioni anche di carattere terminologico che l’inesperto non è in grado di dare.
L’ultima aprte del discorso interessa per i modi di introduzione delgi esempi: essendo Giannozzo illetterato introduce degli esempi molto concreti, e che sono anche molto evidenti, e introdotti con tutta la vivacità di un parlato fiorentinesco. Per esempio nell’ultima pagine, quando Giannozzo mette a fuoco attraverso le domande di Lionardo che cosa significhi usare e non usare ai bisogni. L’esempio che porta Giannozzo 8pag 164) è quello delle donnicciole vedovette (anche lo stesso uso degli alterati è tipico del parlato fiorentino). E l’esempio del servar le mele: l’andamento sintattico si adatta al parlato; le stesse espressioni: «mele magagnate e guaste», lo stesso esempio scelto da Giannozzo illetterato, e approvato dal letterato.
Che cosa abbiamo visto fin qui? Allora: attraverso un modo apparentemente naturale, nell’ambito di un discorso e di una conversazione che punta sulla caratterizzazione del personaggio di Giannozzo si introduce prima un confronto con la giovinezza di Giannozzo e la sua età anziana; attraverso questo abbiamo via via una serie di avvicinamenti alla definizione di masserizia mettendo in evidenza attraverso la posizione di chi è massaio e chi è spendente, la condizione del prodigo e del massaio e la differenza che intercorre tra chi è avaro e chi è massaio. Una volta definita attraverso questa serie di approssimazioni che cosa è la masserizia, e che l’amministrazione oculata non è non spendere ma spendere ai bisogni, allora si tratta di vedere in che cosa debba essere esercitata la masserizia: che cosa significa usare e serbare le cose in relazione alle cose che sono da usare e da serbare. E qui comincia l’insegnamento di Giannozzo in modo adeguato alla figura del personaggio, in modo dunque da far corrispondere alla figurazione del personaggio i vari temi che vengono trattati: innanzitutto quello che è da serbare e cioè cioò che appartiene all’uomo, per passare poi ai beni, all’organizzazione della casa e così via. Questa rappresentazione viene fatta in termini molo letterari per cui ci viene raffigurato un personaggio illetterato in una figurazione che è letterariamente e stilisticamente molto sapiente. Naturalmente questo personaggio ha questa parte per circa tre quarti del terzo libro, poi le cose cominciano a cambiare e questa figura viene messa in subordine nel quarto libro dove altri tempi e altri modi entrano in campo.
Come detto quest’opera ha carattere sperimentale; non è priva di durezze e incongruenze nelle sue parti; è opera molto importante, anche come costituzione in volgare del dialogo da parte dell’Alberti, anche per la ricchezza dei temi trattati e la varietà dei modi di rappresentazione di questi temi attraverso i personaggi.
Non è l’unico trattato da parte dell’Alberti scritto in volgare, questo è il più vario per gli argomenti interni con un tema comune che riguarda la famiglia. Ci sono altri trattati che hanno significato propriamente morale. Questi trattati hanno andamento dialogico ma non hanno tutti la stessa impronta e lo stesso modo di sviluppo.
Abbiamo poi i trattati sulle arti. Questi hanno una diversa forma: monologia. L’esempio del trattato sulla pittura è particolarmente interessante perché ha una duplice redazione fatta sempre dall’Alberti sia in latino che in volgare. La redazione in volgare precede quella latina, ed ha un prologo-lettera dedicatoria interessante perché rivolta al Brunelleschi.
Va anche aggiunto che dal punto di vista letterario l’Alberti non rivendica, con la forza con cui rivendica qui, la propria originalità di scrittore; né rivendica altrettanto la grandezza dei moderni rispetto agli antichi, come invece fa qui. Per quello che riguarda le opere letterarie, secondo l’Alberti gli scrittori moderni hanno di fronte a loro tutta la grandezza degli scritti degli antichi, che hanno scritto su tutti i temi, quindi è molto difficile poter dire qualcosa di veramente nuovo; tanto che l’Alberti riserva allo scrittore il proprio spazio nell’emulazione nella capacità di trarre elementi (usa nei suoi trattai l’esempio del mosaico: si tratta di trarre dalla scrittura degli antichi, alcune tessere che sono poi riprese e riusate secondo un disegno nuovo con un tono nuovo, senza che ci siano fessure visibili, in modo tale da rispondere sì alla novità, ma non una novità assoluta; una novità che si misura sulla scrittura degli antichi). Questo è quello che ci viene affermato all’inizio del terzo libro di uno dei trattai morali Albertiani di quello che si intitola Profugiorum ab aerumna libri. All’inizio di questo trattato c’è questa immagine della poetica del mosaico. Se noi dovessimo stare a questo noi non capiremmo altri aspetti dell’opera Albertiana: questo vale si per scritti di carattere filosofico e letterario; per quello che riguarda l’arte e le scienze il discorso cambia: e infatti l’Alberti spiega bene anche il suo percorso intellettuale: si era meravigliato e dispiaciuto, ci dice all’inizio del prologo, vedendo che le opere degli antichi, tante ottime divine scienze erano mancate; e in tutto perdute, ma ora vede che i moderni sanno fare cose che non sono state mai viste né udite prima. Aveva creduto l’Alberti che la natura fosse ormai stanga, una volta giunta nei tempi moderni, così come non produce più i giganti, non produce nemmeno ingegni così grandi come quelli degli antichi; ma quando ha visto che cosa è stato capace di fare il Brunelleschi con la cupola di Santa Maria del Fiore, ha visto che i moderni non sono inferiori agli antichi, e che gli ingegni dei moderni possono entrare a gara a trovare quello che gli antichi non hanno mai potuto trovare.
Pag 165: «pertanto mi avvidi … virtù»: in primo luogo questo lo aveva visto con il lavoro del Brunelleschi, ma anche con tutto il gruppo degli artisti fiorentini, che qui cita: Donatello, Ghilberti, Della Robbia e Masaccio: questi hanno saputo trovare, senza esempio alcuno, arti e scienze non minori delle antiche. Parte poi l’esaltazione della cupola del Brunelleschi. Ed è per Brunelleschi che scrive questo libro in volgare.
Il pubblico a cui è rivolto questo trattato è quello dei pittori: il pubblico in larga misura di non litterati: si dimostra la volontà da parte dell’Alberti di rivolgersi, in nome del’utilità, al pubblico dei non letterati.
Ma la scrittura in volgare di un trattato di questo tipo ha anche un altro significato ben preciso: il voler mostrare che anche nella lingua volgare si può scrivere un trattato che affronta difficoltà non da poco nella definizione tecnico-scientifica: scritto da pittore, non da matematico, ma scritto con la volontà per l’appunto di far corrispondere lo stile della scrittura appunto alla materia non facile per quello che riguarda una trattazione di livello adeguato in una lingua volgare. Una funzione di carattere pionieristico: non è il primo trattato che noi abbiamo sulle arti, ma se noi andiamo a vedere il trattato del Cellini scritto tra il 3/400 la distanza è notevole. Teniamo presente che l’altro trattato significativo sulla pittura, scritto da un pittore (Alberti è soprattutto architetto) importante come Ghilberti, si pone in età prossima a quello di Alberti: il trattato di Ghilberti è importante perché fa una ricostruzione della storia dell’arte soprattutto fiorentina da Giotto ai contemporanei.
Il De Pictura
Una più grassa Minerva. La scrittura è sintetica, che punta alla definizione, alla chiarezza, anche se come spiega l’autore si avvale di una più grassa minerva: non è fatto per i matematici, ma per i pittori. E’ diverso il modo di dare definizioni e di procedere rispetto alla situazione in cui si troverebbe se scrivesse a matematici.
Il dialogo in volgare nel 400. In ambiente fiorentino l’Alberti non è certo l’unico a scrivere un dialogo in volgare. L’esempio che viene spesso portato è quello, politico, del primo 400, di Matteo Palmieri della Vita Civile. Qui la differenza è vistosa nell’impianto: abbiamo un dialogo con una ambientazione in un tempo (1430), in campagna, perché c’era la peste a Firenze, con personaggi di peso nella vita politica fiorentina; ma il trattato come dialogo non decolla: la parte trattatistica è interessante, da punto di vista dei contenuti, ma il dialogo è quasi una forma calata dall’altro: non decolla, è quasi un monologo alternato, voci, non personaggi delineati. Si dimostra la volontà di fare cosa utile scrivendo in volgare, ed anche il Palmieri testimonia degli attacchi subiti da parte di chi sosteneva che non si dovesse scriver ei n volgare. Ci sono elementi comuni si, ma c’è una differenza di carattere sostanziale. L’opera dell’Alberti è rilevante dal punto di vista letterario, quella del palmieri è interessante soprattutto da un punto di vista storico, culturale, documentario.
Temi ricorrenti. Concludiamo il quattrocento brevemente. Naturalmente nel contesto del 400 la scrittura di trattati è ampia. Sia in forma di dialogo che monologo. Un esempio è il barbaro. Ci sono temi ricorrenti e comuni pur in una notevole varietà: tra i temi ricorrenti uno è quello visto nel barbaro, in relazione al matrimonio o alle donne. Altro tema che percorre tutto il 400 in modi e forme diverse sia in forma di dialogo che monologo sia che in forma di orazione è quello della nobiltà: le discussioni sulla nobiltà hanno un impatto notevole. Non è un caso che qui ritroviamo ancora tracce consistenti di una presenza dantesca. Nel quarto trattato del convivio abbiamo come tema la nobiltà: questo aspetto dell’opera dantesca torna nella trattatistica quattrocentesca. Una discussione sulla nobiltà torna anche nel primo libro del Cortegiano. Temi dunque, oltre che forme, presenti e comuni.