Inferno XXVI dalla Divina commedia di Dante Alighieri – di Carlo Zacco
3 Agosto 2015Inferno XXXIV dalla Divina commedia di Dante Alighieri – di Carlo Zacco
3 Agosto 2015Consiglieri fraudolenti > seminatori di discordia (affetti da varie malattie:
idropisia, scabbia) > falsari (piantati nella terra dall’ombelico in giù);
Dante e Virgilio escono dalle Malebolge ed entrano nel IX cerchio dell’inferno,
chiamato Cocìto, dove sono posti i traditori verso chi si fida (quelli
verso chi NON si fida erano nelle Malebolge);
suddiviso in quattro zone:
Caina: da Caino, primo traditore di suo fratello;
traditori dei parenti;
Antenòra: da Antènore, famoso traditore della sua città, Troia:
alcuni racconti tardoantichi (Servio) parlano di Antènore come colui che
consegnò a Ulisse e Diomede il Palladio, in cambio della salvezza per sé e per
la sua famiglia;
traditori della patria;
Tolomea: da Tolomeo, re egiziano: questi fece uccidere Pompeo, che
si era rifugiato in Egitto dopo la sconfitta a Farsàlo;
traditori degli ospiti;
Giudecca: da Giuda, traditore di Cristo;
traditori dei benefattori.
ambiente freddo, per la precisione un fiume di ghiaccio. La superficie del
terreno, infatti, è completamente ghiacciata, e i dannati vi sono conficcati
dentro, più o meno in profondità in base alla gravità del loro peccato.
per analogia: come in vita hanno avuto il cuore freddo, mancando di carità nel
tradire il prossimo, così ora sono conficcati nel ghiaccio.
caratteristica: quelli che in vita erano nemici, lo sono anche all’inferno, e
scontano insieme la loro pena.
Dante e Virgilio passano da Caina ad Antenora, e Dante vede due anime in uno
stesso buco ghiacciato;
sopra l’altra, e gli rode il cranio coi denti;
quest’anima, chiedendole di raccontare la sua storia, e promettendo di riferirla
ai vivi, a maggior infamia del suo nemico.
storia di Ugolino. L’anima a cui Dante ha rivolto la domanda solleva la
bocca dal cranio che stava rodendo, e dopo essersi pulita la bocca sui capelli,
incomincia a parlare:
Conte Ugolino, e l’avversario, e quello che gli sta sotto è l’Arcivescono
Ruggeri, che lo ha tradito, facendolo rinchiudere nella in una torre detta
«Muda», presso Pisa, insieme ai due figli, lasciandoli morire di fame. Finito il
racconto riprende a mordergli la testa.
Ugolino della Gherardesca, Ghibellino;
partecipato ad una guerra contro Genova, a prendere pieni poteri nella città di
Pisa;
Firenze e Lucca potessero allearsi con Genova in una nuova guerra, cedette loro
dei castelli, in modo che le due città rimanessero neutrali;
interpretato come un tradimento da parte degli altri Ghibellini suoi alleati;
Ubaldini. Arcivescovo di Pisa, legato anch’egli alle più importanti famiglie
ghibelline;
allearsi con Ugolino, e aveva stretto un accordo con lui, ma poi lo tradì,
sobillando la città contro di lui, e facendolo rinchiudere in una torre con i
suoi figli, lasciandoli morire di fame.
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La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a’ capelli del capo ch’elli avea di retro guasto. Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli disperato dolor che ‘l cor mi preme già pur pensando, pria ch’io ne favelli. Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo, parlar e lagrimar vedrai insieme. Io non so chi tu se’ né per che modo venuto se’ qua giù; ma fiorentino mi sembri veramente quand’ io t’odo. Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino, e questi è l’arcivescovo Ruggieri: or ti dirò perché i son tal vicino. Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso e poscia morto, dir non è mestieri; però quel che non puoi avere inteso, cioè come la morte mia fu cruda, udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso. Breve pertugio dentro da la Muda, la qual per me ha ‘l titol de la fame, e che conviene ancor ch’altrui si chiuda, m’avea mostrato per lo suo forame più l’une già, quand’ io feci ‘l mal sonno che del futuro mi squarciò ‘l velame.
Questi pareva a me maestro e donno, cacciando il lupo e ‘ lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno. Con cagne magre, studïose e conte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi s’avea messi dinanzi da la fronte. In picciol corso mi parieno stanchi lo padre e ‘ figli, e con l’agute scane mi parea lor veder fender li fianchi. Quando fui desto innanzi la dimane, pianger senti’ fra ‘l sonno i miei figliuoli ch’eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli pensando ciò che ‘l mio cor s’annunziava; e se non piangi, di che pianger suoli? Già eran desti, e l’ora s’appressava che ‘l cibo ne solëa essere addotto, e per suo sogno ciascun dubitava; e io senti’ chiavar l’uscio di sotto a l’orribile torre; ond’ io guardai nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto. Io non piangëa, sì dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”. Perciò non lagrimai né rispuos’ io tutto quel giorno né la notte appresso, infin che l’altro sol nel mondo uscìo. Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere, e io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso, ambo le man per lo dolor mi morsi; ed ei, pensando ch’io ‘l fessi per voglia di manicar, di sùbito levorsi e disser: “Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia“. Queta’mi allor per non farli più tristi; lo dì e l’altro stemmo tutti muti; ahi dura terra, perché non t’apristi? Poscia che fummo al quarto dì venuti, Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi, dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”. Quivi morì; e come tu mi vedi, vid’ io cascar li tre ad uno ad uno tra ‘l quinto dì e ‘l sesto; ond’ io mi diedi, già cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due dì li chiamai, poi che fur morti. Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno». Quand’ ebbe detto ciò, con li occhi torti riprese ‘l teschio misero co’ denti, che furo a l’osso, come d’un can, forti. |
Fiero pasto: pasto degno di una
di retro guasto: che gli aveva
disperato: senza speranza;
seme: debbano essere la causa;
parlare e lagrimare: zeugma;
mestieri: non è necessario;
Muda: la torre in cui Ugolino è – si chiuda: nella quale accadrà
– più l’une: cicli lunari > mesi;
– Cacciando..ponno: in una – Con cagne..fronte: aveva posto Dopo una piccola corsa, il padre (lupo) e
– per suo sogno: ognuno aveva già
– impetrai: divenni di pietra;
– L’altro sol: il secondo giorno
– per quattro visi: Ugolino vede
– le spoglia: mangiale;
– t’apristi: perché non tri sei
– Padre mio: richiamo evangelico; – come tu mi vedi > morto;
– poi che fur morti: dopo la loro – il digiuno: poi la fame |
dolor, potè il digiuno. Uno dei versi più ambigui della commedia, e celebre
esempio di reticenza.
veniva esclusa la tecnofagia, cioè il cibarsi dei figli, e
si intendeva: «ad uccidermi è stata la fame, non il dolore».
dicono che la torre fu aperta dopo nove giorni, e i corpi erano intatti, non
mangiati;
L’ipotesi di tecnofagia è stata avanzata in epoca moderna, nel
Novecento, sulla base di:
medievali in effetti parlano di questo;
l’apostrofe «ahi dura terra, perché non t’apristi», riprende un verso simile di
Seneca, il Tieste, la tragedia in cui al padre viene servita a tavola la carne
dei figli;
molti riferimenti alla fame, e all’inferno morte il cranio di Ruggieri;
risolve la questione: per lui Dante non ha voluto che noi pensassimo alla
tecnofagia, ma solo che lo sospettassimo;
contro Pisa. Dopo il racconto di Ugolino, Dante esplode una dura invettiva
contro Pisa:
isole tirreniche, la Gorgona e la Capraia, si muovano nel mare fino a chiudere
la foce dell’Arno, così che tutti i cittadini anneghino;
definita novella Tebe per i suoi delitti;
tanto per la morte di Ugolino, quanto di quella dei suoi figli innocenti;
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Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese là dove ‘l sì suona, poi che i vicini a te punir son lenti, muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, sì ch’elli annieghi in te ogne persona! Che se ‘l conte Ugolino aveva voce d’aver tradita te de le castella, non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. Innocenti facea l’età novella, novella Tebe, Uguiccione e ‘l Brigata e li altri due che ‘l canto suso appella. |
– vituperio: vergogna dei popoli – i vicini: soprattutto Lucca e – Capraia/Gorgona: all’epoca – aveva voce: aveva fama (quindi – de le castella: compl. di – a tal croce: a tale supplizio; – Innocenti: in inizio di – l’età novella: l’età giovanile; – novella Tebe: nuova Tebe, – appella: nomina; cioè |
l’invettiva violenta prorompe dall’animo di Dante, quasi a trovar sfogo, come
spesso gli accade, alla forza e intensità dei sentimenti patiti.
e la pietà , per cui si invoca un castigo divino sulla città, sono per i
quattro giovani innocenti messi a tal croce insieme al colpevole;
movimento è biblico: è infatti propria della Scrittura la
punizione divina su città intere, per colpa dei loro abitanti. E quindi
assurdo e ingenuo osservare che così, per quattro innocenti, Dante farebbe
morire tutti gli innocenti di Pisa;
funzione altamente retorica, di monito profetico, ricordando come Dio
punisce i popoli per le loro atrocità, commesse collettivamente;
chiaramente intendere che non di un singolo fatto privato qui si tratta,
ma di un male che investiva tutta la società civile del tempo,
quell’odio crudele tra le fazioni che Dante, la cui vita ne portava il
segno, non si stanca di denunciare.
Dante e Virgilio entrano nella Tolomea:
tipo di pena: mentre nell’Antenòra erano col campo all’ingiù, qui sono con la
testa all’insù, in modo tale che le loro lacrime si ghiacciano all’esterno,
accumulandosi dentro il bulbo oculare, e aggiungendo dolore;
anche soffiare del vento, e chiede a Virgilio come ciò possa avvenire, dato che
non c’è atmosfera:
risponde, mantiene la suspense, e gli dice che presto scoprirà l’origine
del vento.
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Noi passammo oltre, là ‘ve la gelata ruvidamente un’altra gente fascia, non volta in giù, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso lì pianger non lascia, e ‘l duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer l’ambascia; ché le lagrime prime fanno groppo, e sì come visiere di cristallo, rïempion sotto ‘l ciglio tutto il coppo.
E avvegna che, sì come d’un callo, per la freddura ciascun sentimento cessato avesse del mio viso stallo, già mi parea sentire alquanto vento; per ch’io: «Maestro mio, questo chi move? non è qua giù ogne vapore spento?». Ond’ elli a me: «Avaccio sarai dove di ciò ti farà l’occhio la risposta, veggendo la cagion che ‘l fiato piove». |
– – gente:
– rintoppo: ostacolo; – in entro: in dentro, negli – fanno groppo: formano un nodo; – visiere: la visiera era la
E sebbene, come accade della pelle
– Vapore: nella scienza – Avaccio: presto (da vivacius); – che ‘l fiato piove: che fa |
Frate Alberigo.
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E un de’ tristi de la fredda crosta gridò a noi: «O anime crudeli tanto che data v’è l’ultima posta, levatemi dal viso i duri veli, sì ch’ïo sfoghi ‘l duol che ‘l cor m’impregna, un poco, pria che ‘l pianto si raggeli».
Per ch’io a lui: «Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna, dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo, al fondo de la ghiaccia ir mi convegna». Rispuose adunque: «I’ son frate Alberigo; i’ son quel da le frutta del mal orto, che qui riprendo dattero per figo».
«Oh», diss’ io lui, «or se’ tu ancor morto?». Ed elli a me: «Come ‘l mio corpo stea nel mondo sù, nulla scïenza porto. Cotal vantaggio ha questa Tolomea, che spesse volte l’anima ci cade innanzi ch’Atropòs mossa le dea.
E perché tu più volentier mi rade le ‘nvetrïate lagrime dal volto, sappie che, tosto che l’anima trade come fec’ ïo, il corpo suo l’è tolto da un demonio, che poscia il governa mentre che ‘l tempo suo tutto sia vòlto.
Ella ruina in sì fatta cisterna; e forse pare ancor lo corpo suso de l’ombra che di qua dietro mi verna.
Tu ‘l dei saper, se tu vien pur mo giuso: elli è ser Branca Doria, e son più anni poscia passati ch’el fu sì racchiuso». «Io credo», diss’ io lui, «che tu m’inganni; ché Branca Doria non morì unquanche, e mangia e bee e dorme e veste panni». «Nel fosso sù», diss’ el, «de’ Malebranche, là dove bolle la tenace pece, non era ancora giunto Michel Zanche, che questi lasciò il diavolo in sua vece nel corpo suo, ed un suo prossimano che ‘l tradimento insieme con lui fece. Ma distendi oggimai in qua la mano; aprimi li occhi». E io non gliel’ apersi; e cortesia fu lui esser villano. |
– tristi: dannati; – crudeli..posta: tanto crudeli – impregna: mi imbeve, mi
– se vuoi: è una falsa promessa: – e se non mantengo, che io finisca – Alberigo dei Manfredi, frate – fece assassinare due suoi parenti, – riprendo: sconto, pago; – dattero per figo: pan per
– Oh..morto: sei già morto? – sta: come stia il corpo: è – nulla scienza porto: non ne ho – vantaggio: ironico;
– Atropo: la parca che tagliava
– mi rade: mi raschi;
– sappie che…: vien data qui la – cisterna: il pozzo del cocìto; – pare ancor: è visibile ancora – qua dietro: introduce un altro – pur mo: pur ora (se vieni qui – sì: in questo luogo; – unquanche: umquam; – mangia…panni: principali – Malebranche: la V bolgia, dei – prossimano: un suo complice; – oggimai: ormai; – e cortesia: ed esser villano |
della nobile famiglia genovese dei Doria, tra le più influenti
della città;
rilievo, svolse la sua attività politica soprattutto in Sardegna, dove avvenne
l’episodio qui ricordato da Dante, del quale peraltro non parlano i documenti:
commenti ci dicono che, aspirando a impossessarsi del Logudoro, di cui
era signore il suocero Michele Zanche (cfr. XXII 88 sgg.),
invitò quest’ultimo ad un banchetto e poi lo fece trucidare con tutto il suo
seguito;
di Branca Doria non era ancora arrivato nella V bolgia, che già l’anima del suo
traditore era stata scaraventata all’inferno per direttissima;
Invettiva contro Genova.
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Ahi Genovesi, uomini diversi d’ogne costume e pien d’ogne magagna, perché non siete voi del mondo spersi? Ché col peggiore spirto di Romagna trovai di voi un tal, che per sua opra in anima in Cocito già si bagna, e in corpo par vivo ancor di sopra. |
– diversi: lontani (da ogni buon – magagna: vizio; – del mondo spersi: dispersi, – spirto di Romagna: frate |