Vita come opera d’arte
27 Gennaio 2019I nostri giorni proibiti
27 Gennaio 2019Libro I – secondo capitolo de Il piacere
Gabriele d’Annunzio
Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare.
Egli era, in verità, l’ideal tipo del giovine signore italiano del XIX secolo, il legittimo campione d’una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, ultimo discendente d’una razza intelettuale.
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a vent’anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d’arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de’ pregiudizii, l’avidità del piacere.
Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica, sapeva largamente vivere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale.
Finalmente s’era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta l’Europa.
L’educazione d’Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto su i libri quanto in conspetto delle realità umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall’alta cultura ma anche dall’esperimento; e in lui la curiosità diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza.
Fin dal principio egli fu prodigo di sé; poiché la grande forza sensitiva, ond’egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l’espansion di quella sua forza era la distruzione in lui di un’altra forza, della forza morale che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere.
Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzion progressiva delle sue facoltà [vedi Dorian Gray], delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva sempre più d’intorno, inesorabilmente sebben con lentezza.
Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: « Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui. »
Anche, il padre ammoniva: « Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza. La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: – Habere, non haberi. »
Anche, diceva: « Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato. Bisogna sopra tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove imaginazioni. »
Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l’Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l’attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Caracci, come quello Farnese