Tesina Scuola Media
27 Gennaio 2019ABCD-SALONE ITALIANO DELLEDUCAZIONE
27 Gennaio 2019Obama vs McCain: due visioni, una nazione, di Alberto Simoni e John Samples
« Dick Boice aveva previsto di vendere la sua casa e di spostarsi in Arizona con la moglie per godersi la pensione.
Consulente di una piccola azienda che lavora per la IBM, Boice aveva messo in vendita la sua villa in stile coloniale a Blue Spring, nel Missouri, per 300.000 dollari. Un bel gruzzolo che, sommato alla rendita del fondo pensione, gli avrebbe permesso di uscire dal mondo del lavoro e guardare con tranquillità al futuro.
Invece il primo gennaio 2008, il giorno del sospirato pensionamento, Boice era seduto alla scrivania nell’ufficio di Kansas City. Sulla porta della villa ancora appeso il cartello bianco con la scritta rossa «for sale», il prezzo sceso a 250.000 dollari, pochi i visitatori e nessuno disposto a sborsare la cifra originaria per acquistare la proprietà. […]
La storia del 59enne consulente informatico del Missouri è unistantanea per nulla sfocata dell’America che corre verso le presidenziali di novembre: una locomotiva dell’economia mondiale la cui marcia settimana dopo settimana, dalla fine dell’estate 2007, si è fatta più affannosa. Una nazione frenata dalla crisi dei mutui subprime e del mercato immobiliare, zavorrata dall’aumento del prezzo dell’energia, delle materie prime e dell’inflazione, preoccupata dalla riduzione dei consumi che hanno costretto Casa Bianca e Dipartimento del Tesoro a correggere le stime di crescita al ribasso. E con l’incubo recessione in agguato. »
In questo clima economico il 4 novembre 110 milioni di americani sceglieranno il successore di George W. Bush. La maratona per la Casa Bianca, dopo quasi due anni di campagna elettorale, avrà finalmente un vincitore.
Prevarranno la freschezza e la voglia di cambiamento di Barack Obama, quarantasettenne senatore dellIllinois, o il riformismo e l’esperienza del veterano del Vietnam, il settantaduenne conservatore John McCain?
EDIZIONI LINDAU
PRESENTANO
JOHN SAMPLES e ALBERTO SIMONI
LA CORSA PIÙ LUNGA
Obama VS McCain: due visioni, una nazione
Edizioni Lindau / collana «I Draghi» / pagine 200 / euro 17
DAL 12 SETTEMBRE, IN LIBRERIA
« C’è chi guarda all’America e alle sue elezioni accontentandosi di luoghi comuni, stereotipi e qualche titolo di giornale, oltre che dei propri pregiudizi. Samples e Simoni offrono a chi non si accontenta qualcosa di diverso: un’analisi degli Stati Uniti e dei candidati alla Casa Bianca rigorosa, documentata e ricca di idee. Le elezioni 2008, tra le più avvincenti da decenni, segnano una svolta storica e meritano di essere capite e giudicate a fondo. E’ la proposta di queste pagine: non solo una guida al voto più seguito del pianeta, ma anche un viaggio alla scoperta dell’America di oggi. E di quella che verrà. »
Marco Bardazzi, corrispondente dell«Ansa» da Washington
« Una guida chiara, semplice e affidabile alle elezioni per la Casa Bianca e all’America di oggi. Gli autori combinano efficacemente una notevole mole di dati sul paese e un dettagliato esame dei programmi dei candidati. Ne risulta un libro utile a capire cosa accadrà alla superpotenza che, nel bene e nel male, continua a dettare il passo del mondo. »
Andrea Lavazza, caporedattore ed editorialista di «Avvenire»
Quella tra Barack Obama e John McCain è certamente una sfida fra generazioni e stili diversi, ma è soprattutto uno scontro fra due modi di percepire l’America.
McCain e Obama parlano con linguaggi differenti ai mille volti e agli infiniti angoli della nazione. Si rivolgono a unAmerica spaventata dalla situazione economica, alle prese con l’insicurezza prodotta dallo scoppio della bolla immobiliare, ma ancora solida nel suo ottimismo e bramosa di voltare pagina e di lasciarsi alle spalle i giorni bui del dopo 11 settembre.
I due candidati vogliono apparire come personaggi lontani dai cliché ideologici, estranei al vecchio schema destra-sinistra, repubblicani contro democratici. Tuttavia il loro sforzo non è pienamente riuscito. John McCain è pur sempre un conservatore allergico all’intrusione del governo nelle vicende economiche, custode (senza lo zelo messianico di Bush) dei valori tradizionali, e fiero del ruolo svolto dalla nazione sullo scacchiere internazionale. Obama è invece per molti tratti un democratico della vecchia scuola «tassa e spendi», progressista quasi nel senso europeo del termine su alcune questioni, pragmatico su altre; forse persino un «falco» in politica estera.
John Samples e Alberto Simoni scrutano fra le pieghe dei programmi elettorali, spiegano regole e meccanismi delle elezioni, raccontano il gioco «sporco» delle lobbies e la battaglia delle associazioni di volontariato, confrontano ideali e interessi, pesano capitali e strategie ma soprattutto guardano in faccia gli americani di questo inizio millennio, quella società civile che è lautentica ricchezza dell’America.
Gli autori
John Sample è direttore del Center for Representative Government al Cato Institute di Washington. E’ professore associato di scienze politiche alla Johns Hopkins University. Ha scritto The Fallacy of Campaign Finance Reform (2006). Suoi articoli sono stati pubblicati su «USA Today», «The New York Times» e «Los Angeles Times».
Alberto Simoni, giornalista, lavora alla redazione esteri del quotidiano «Avvenire» per il quale si occupa di politica americana. Ha pubblicato Cambio di rotta. La Dottrina Bush e la crisi della supremazia americana (Lindau, 2007) e George W. Bush e i falchi della democrazia. Viaggio nel mondo dei neoconservatori (2004). Cura il sito www.blogwolfie.com
Indice dell’opera
Prologo, 5
Un sogno chiamato Casa Bianca, 11
Distratti e pragmatici: gli elettori americani, 11
Sondare il terreno, 12
Scontro fratricida: le primarie, 18
Nomination, un investimento a rischio, 27
Appuntamento a Denver e a Minneapolis, 30
Verso l«Election Day», 33
Correre da «incumbent» e lincognita dell’economia, 37
«Spin doctor» e comunicazione: la via del successo, 40
Dibattiti, televisioni e ruolo dei media, 44
Dalle promesse alla Casa Bianca, 46
1. Al voto con l’incubo recessione, 49
Wall Street detta lagenda, 49
Lo «small government» di McCain, 59
La retorica neoprotezionista di Obama, 79
Un liberal «tassa e spendi», 89
Pragmatismo e ideologia: lo scontro sulla sanità, 95
2. I mille volti dell’America, 111
Gli immigrati di Storm Lake, 111
A caccia del voto ispanico, 117
Un afroamericano alla Casa Bianca?, 125
Un conservatore apostata, 135
Matrimoni gay e aborto: le due Americhe, 144
In Gop we trust, 152
3. LAmerica guida del mondo, 163
L’idealismo realista di John McCain, 163
A tavola con il nemico, 178
Indice dei nomi, 191
Dal libro
Capitolo 1
Al voto con l’incubo recessione
Wall Street detta lagenda
Dick Boice aveva previsto di vendere la sua casa e di spostarsi in Arizona con la moglie per godersi la pensione. Consulente di una piccola azienda che lavora per la Ibm, Boice aveva messo in vendita la sua villa in stile coloniale a Blue Spring, nel Missouri, per 300.000 dollari. Un bel gruzzolo che, sommato alla rendita del fondo pensione, gli avrebbe permesso di uscire dal mondo del lavoro e guardare con tranquillità al futuro.
Invece il primo gennaio 2008, il giorno del sospirato pensionamento, Boice era seduto alla scrivania nell’ufficio di Kansas City. Sulla porta della villa ancora appeso il cartello bianco con la scritta rossa «for sale». Il prezzo sceso a 250.000 dollari. Pochi i visitatori, nessuno disposto a sborsare la cifra originaria per acquistare la proprietà. Nel 2007, d’altronde, la spesa per le abitazioni residenziali è calata di quasi il 17%, la peggior prestazione dal 1982, e anche la famiglia Boice ha pagato il conto della contrazione. Nel primo semestre del 2008 i prezzi delle case sono crollati del 14% rispetto all’anno precedente e l’attività del mercato immobiliare nel suo complesso ha registrato i livelli più bassi dal 1991.
Secondo le stime del Dipartimento del Lavoro, 212.000 persone fra i 55 e i 64 anni (0,2% in più rispetto al 2007) nel 2008 hanno seguito l’esempio del signor Boice. Per il «New York Times» la percentuale di chi è sicuro che ce l’avrebbe fatta a tirare avanti con la sola pensione è ferma al 43%; il 57% è diviso fra scettici e pessimisti.
La storia del 59enne consulente informatico del Missouri è unistantanea per nulla sfocata dell’America che corre verso le presidenziali di novembre: una locomotiva dell’economia mondiale la cui marcia settimana dopo settimana, dalla fine dell’estate 2007, si è fatta più affannosa. Una nazione frenata dalla crisi dei mutui subprime e del mercato immobiliare, zavorrata dall’aumento del prezzo dell’energia, delle materie prime e dell’inflazione, preoccupata dalla riduzione dei consumi che hanno costretto Casa Bianca e Dipartimento del Tesoro a correggere le stime di crescita al ribasso. E con l’incubo recessione in agguato.
Tecnicamente l’andamento dell’economia Usa si è sempre mantenuto in territorio positivo, fuori dall’abbraccio mortale della crescita sotto zero. Il trend rialzista, pur fra slanci e frenate, dura dal 2002. Ma la percezione degli statunitensi è diversa. Troppi «fenomeni» – la crisi dei mutui, la debolezza del dollaro, l’aumento del prezzo del greggio per citare i più macroscopici – remano contro la fredda razionalità dei numeri. Il tentativo del presidente Bush di tranquillizzare l’opinione pubblica sembra vano. Per le famiglie americane alle prese con le rate del prestito schizzate in alto e lassicurazione sanitaria sempre meno a «buon mercato», che il paese sia tecnicamente in fase di recessione o lambisca solo labisso è una magra consolazione. I conti a fine mese non quadrano e la middle class, lindicatore più affidabile degli umori del paese, è in ritirata.
[…] Se le elezioni del 2004 furono le prime del post 11 settembre e la sicurezza nazionale risultò il tema decisivo, nel 2008 l’America è tornata a vivere una dinamica elettorale maggiormente tradizionale: il portafoglio conta più dello scacchiere mondiale. Quando l’America ha paura vota repubblicano, quando l’economia vacilla si affida ai democratici, recita un vecchio adagio della politica Usa. Nel 1992, il guru elettorale di Bill Clinton, James Carville, affisse un cartello nella sala riunioni del comitato centrale della campagna del governatore dellArkansas con la scritta «Its the economy, stupid». Clinton si sintonizzò con l’America. Bush senior, il vincitore della Guerra del Golfo e l’artefice del disgelo fra israeliani e palestinesi, rimase prigioniero dei suoi successi in Medio Oriente e non riuscì a spiegare agli americani che, in autunno, la recessione era praticamente conclusa.
Obama e McCain potrebbero chiedere a Carville di cedere i diritti d’autore dello slogan da usare come promemoria. Nella campagna elettorale ricordarsi dei pendolari e delle tute blu, di chi è rimasto stritolato dalla globalizzazione e da chi è alle prese con i premi delle assicurazioni sanitarie servirà per entrare alla Casa Bianca dalla porta principale il 20 gennaio 2009.
Lo «small government» di McCain
Per quanti sforzi faccia nel mostrarsi sicuro di sé, l’economia non è esattamente nelle corde di John McCain. O almeno non quanto la sicurezza nazionale. Irwin Stelzer, che dirige gli studi economici dellHudson Institute, ha detto che la proposta politica del candidato repubblicano si fonda su tre pilastri: tassazione bassa, rapida crescita economica e libero mercato. Da ammiratore di Theodore Roosevelt, il senatore dellArizona ritiene che l’America debba essere una grande nazione e la protagonista sulla scena internazionale. La politica interna è indissolubilmente legata al ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Una crescita economica vigorosa e stabile è il veicolo più adatto per esaltare la grandezza nazionale e legittimare la supremazia globale.
Gli indicatori economici in ribasso, quelli della disoccupazione in rialzo e il bubbone dei mutui subprime hanno costretto McCain a cambiare il registro della campagna elettorale e dedicare più tempo ed energia a occuparsi del portafoglio degli americani, della liquidità delle aziende e degli sprechi del governo. Non tutti erano pilastri portanti della sua piattaforma per inseguire lo Studio Ovale. Ha detto in marzo a un gruppo di giornalisti: «Se l’America non vince in Iraq, anche la mia campagna è destinata ad andare male». Non è più così. Benché legate al successo della missione irachena, le sorti del candidato repubblicano dipendono anche dalla sua risposta ai consumatori, ai lavoratori, al mondo del business; non dai body bags nei quali tornano i soldati morti in Iraq. D’altronde – come con sottile ironia gli hanno spesso ricordato i democratici – «si sceglie il presidente, non il segretario della Difesa».
McCain ha impiegato un po a dismettere i panni del candidato della sicurezza e della politica estera. In Michigan, mentre il suo rivale per la nomination del Partito repubblicano Mitt Romney rassicurava i dipendenti della General Motors che avrebbe riportato alla base tutti i posti di lavoro sfumati, il senatore dellArizona spiegava che quella promessa era inattuabile e che gli sforzi della sua Amministrazione si sarebbero rivolti alla creazione di impieghi hi-tech, alla formazione di nuove figure altamente specializzate e alla ricerca e sviluppo. Non è tempo, disse agli operai della Gm e alla miriade di piccoli imprenditori che vivevano sullindotto delle grandi industrie della zona, di sperare nel rilancio di un settore fiacco che negli anni ha smarrito la forza dell’innovazione e il gusto della sfida. E’ tempo di voltare pagina: di pensare a macchine eco-compatibili e a basso consumo, di investire in ricerca e di colmare, con la tecnologia, il gap con i competitors in Cina, Giappone, Sud Corea e persino Europa. Un programma realista da straight talker (chi parla chiaro), condiviso da molti analisti che denunciano la mancanza di investimenti delle industrie Usa, ma scarsamente efficace in campagna elettorale. In Michigan infatti vinse Romney.
Ai proprietari di casa che avevano contratto un mutuo è andata anche peggio: sono stati accusati di voler comprare abitazioni che non potevano permettersi. Poi, dopo la raffica di critiche e le accuse di insensibilità, la correzione in corsa: «Sono impegnato ad aiutare chi lo merita e a vagliare le proposte per farlo». Non è cinismo o indifferenza. Più semplicemente McCain ha dato voce a uno dei dogmi per eccellenza dei conservatori. Ovvero lo small government, il governo ristretto, quello che limita le sue interferenze nella società e nell’economia e che si tiene per sé pochi ma fondamentali poteri. Ciò si basa su un principio fondamentale per gli statunitensi: a detenere il potere, l’ultima parola è l’individuo, non lo Stato. Gli europei tendono a ricorrere allo Stato per combattere la povertà, smussare le differenze, creare programmi sociali, gestire la sanità e l’istruzione. LAmerica invece ha una visione opposta: c’è una distinzione netta fra i poveri che meritano di essere aiutati e quelli che invece non lo meritano. Soltanto tre statunitensi su dieci sono completamente d’accordo sul fatto che il governo abbia la responsabilità di soccorrere i poveri. LAmerica offre le speranze, i mezzi e gli stimoli perché uno possa rimettersi in carreggiata. Lo Stato assistenzialista invece è percepito come un organismo che aiuta le persone a proseguire nei comportamenti autodistruttivi. Quando Bush firmò la seconda tornata di tagli fiscali nel 2003, l’economista liberista Milton Friedman disse che la sforbiciata era giustificata dal semplice fatto che avrebbe agevolato il processo verso la creazione di un governo ristretto. McCain, pur con quella che è sembrata come minimo uninfelice esternazione, altro non ha fatto che collocarsi nel solco della tradizione repubblicana, storicamente il partito del rigore fiscale e della contrazione della spesa pubblica.
Tuttavia, quando una campagna elettorale coincide con una congiuntura sfavorevole a Wall Street, la tradizionale battaglia «ideologica» fra i sostenitori della spesa pubblica, come i democratici, e quanti invece vogliono contrarre il ruolo del governo, i repubblicani, diventa più confusa e dai confini incerti. Oggi la linea di demarcazione non è tanto se il governo federale abbia l’obbligo dintervenire, ma chi debba contribuire a salvare: il sistema creditizio (e la mossa della Fed per Bear Stearns ne è l’esempio più fulgido) o gli americani che per colpa, irresponsabilità, ingenuità o sfortuna si sono trovati a dover ricorrere ai food stamps, agli assegni di disoccupazione e a rinunciare a mandare i figli al college per pagare le rate del mutuo? La differenza – come ha sottolineato William A. Niskanen, chairman del Cato Institute – «è che i democratici sono più propensi a proteggere gli individui, i repubblicani invece la tenuta del mercato».
Gli statunitensi sono in genere riluttanti a imbrigliare il mercato. Se lo fanno è perché si è in presenza di circostanze gravi; dalla recessione a violazioni gravi delle regole da parte di qualche soggetto. Theodore Roosevelt, all’inizio del 900, fece introdurre le leggi antitrust e applicare la legge Sherman del 1890 per smantellare i monopoli; Franklin D. Roosevelt ha costituito la Sec (Securities and Exchange Commission – Società di controllo della Borsa); ed è del 2002 il Sarbanese-Oxley Act, che obbliga le compagnie, per prevenire un bis del crack della Enron, ad accelerare la presentazione dei report finanziari secondo criteri rigidi e trasparenti, in modo da tutelare i risparmiatori e gli investitori. Lo stesso McCain, per arginare le critiche, ha chiesto al Dipartimento di Giustizia di aprire un’inchiesta per fare luce sul comportamento delle società erogatrici di mutui ad alto rischio.
L’intervento federale per contenere l’emorragia legata alla crisi immobiliare e dei mutui facili evidentemente rientra nella casistica nella quale l’aiuto al mercato a tirarsi fuori dai guai è ben accetto. Democratici e repubblicani hanno trovato unintesa su come procedere mescolando le due ricette. In febbraio è stato varato dal Congresso un pacchetto di stimoli per l’economia e per rilanciare i consumi di 168 miliardi di dollari spalmati in due anni fra sussidi, sconti fiscali e tagli alle imposte. In aprile si è aggiunto un provvedimento per espandere gli aiuti governativi a 150.000 americani colpiti dalla crisi dei mutui facili. La differenza fra i due partiti, a grandi linee, sta nel fatto che i democratici avrebbero voluto un impegno ancora maggiore. Il senatore Chris Dodd e il deputato Barney Frank, ad esempio, hanno lavorato su una proposta che prevedeva unassicurazione governativa sui mutui fino a 400 miliardi di dollari, pari in pratica al buco di 2 milioni di famiglie. La Casa Bianca ha bocciato l’ipotesi perché troppo dispendiosa. McCain pure. Comunque lo sforzo dellAmministrazione repubblicana è stato imponente. Bush, spalleggiato anche dal candidato McCain, ha infatti sostenuto uno dei più massicci interventi federali nell’economia degli ultimi 70 anni: ovvero la decisione della Fed di prestare 400 miliardi di dollari alle banche e alle società finanziarie di Wall Street. A questo si aggiunga il via libera allo stanziamento di un fondo speciale di 3,9 miliardi di dollari per le due agenzie semi-pubbliche che erogano gran parte dei mutui, Fannie Mae e Freddie Mac, sul quale Bush a rinunciato a porre il veto.
Il «Wall Street Journal» ha scritto che battere il tasto del «governo ristretto» è per McCain ciò che la riduzione delle tasse è stata per Bush nella campagna del 2000: il cuore del messaggio. Lormai consolidato slogan elettorale conservatore che fa perno sulla riduzione fiscale, oggi ha perso parte dellappeal presso la classe media e gli indipendenti per tre motivi: le tasse, dai picchi di qualche anno fa, sono scese dopo i tagli del 2001 e del 2003; la crisi economica ha parzialmente eroso i vantaggi delle buste paga più pesanti, e le attenzioni si sono spostate su altri temi.
[…] McCain deve e vuole confrontarsi con questa realtà ma senza rinunciare al suo stile, alla sua unicità, al suo essere un conservatore anomalo, la cui adesione allortodossia è a corrente alternata. E il suo bacino elettorale annovera moderati e indipendenti. Ecco perché il linguaggio nelle primarie, così come nel faccia a faccia con Obama per la meta più ambita, si modula e si conforma all’ambiente. In Michigan l’economia, nella South Carolina lo small government, nel New Hampshire, bastione repubblicano circondato da roccaforti democratiche, ancora altri temi. Meno polarizzanti, più bipartisan. La sfida, come sempre, sta nella sintesi. Perché come notava il «New York Observer»: «Oggi persino molti repubblicani si sono sintonizzati sulla lunghezza d’onda dell’interventismo federale». David Brooks, uno dei commentatori conservatori del «New York Times», ha scritto che il Partito repubblicano deve cominciare ad andare oltre i tagli alle tasse e cambiare il modo in cui giudica, vede e valuta l’intervento federale. Sull’ambiente, l’energia e sui grandi temi di interesse globale – è la tesi di Brooks, ma anche di tanti altri vicini alle posizioni neoconservatrici, come David Frum 12 – lo Stato non può limitarsi a essere uno spettatore, ma deve recitare un ruolo da attore protagonista.
Su queste basi poggia la forza, che se usata male ne diventa il limite, di McCain. Non essere un custode fedele del credo conservatore gli procura consensi e simpatie fra moderati, indipendenti e pragmatici, che ritengono lo small government un atteggiamento non sempre virtuoso. O quantomeno non qualcosa cui dovrebbe indirizzarsi un odio ideologico e preconcetto. Come ha scritto il «Weekly Standard», «Mac» seduce gli elettori quando attorno ai pilastri conservatori unisce l’indignazione. Il governo non può essere smisurato, allargato e intrusivo come quello creato da George W. Bush; ma non per questo deve essere insensibile ai problemi della classe operaia, della middle class e degli svantaggiati. Nel 1994 alcuni conservatori scherzavano sulle dimensioni del governo: lo volevano restringere così tanto – la battuta più in voga a Capitol Hill – da poterlo gettare nello scarico del bagno. Con New Orleans devastata dall’uragano Katrina, l’America, anche conservatrice, ha capito che ci sono cose che solo il governo può fare. La sfida è gestirlo bene, non «eliminarlo». Dove Obama predica un maggiore coinvolgimento dellAmministrazione per calmierare i costi delle assicurazioni sanitarie e migliorare l’educazione, o la longa manus federale nel mercato finanziario, McCain resta al di qua del fosso, senza per questo rinunciare a una vena di populismo, all’istinto riformatore spesso sopra le righe che gli è valso il soprannome di maverick (cane sciolto), ma anche apprezzamenti bipartisan.
D’altronde che questo approccio sia la cifra dell’agire di McCain lo testimoniano l’impegno e le battaglie passate. Nel gennaio del 2006, intervenendo a un talk show radiofonico, il senatore dellArizona disse che lAmministrazione avrebbe dovuto pensare alla creazione di programmi federali in linea con le esigenze e le necessità del XXI secolo. Programmi da pagare con i soldi dei contribuenti: «L’attuale livello di imposte non può coprire il tipo di governo che gli americani si sono abituati ad avere». Lungi dall’aumentare la pressione fiscale, il punto di equilibrio nel 2006 per McCain era determinato dal compromesso fra un governo ristretto che taglia i rami secchi, e una tassazione innovativa ed efficace in grado di finanziare quei progetti di spesa di cui la nazione all’alba del terzo millennio non può fare a meno.
Ma toccare il tasto «tasse» è l’anticamera della sconfitta. Almeno se non si promette di abbassare le aliquote. Bush senior giurò che non avrebbe alzato le imposte. Poi fu costretto a toccare l’imposizione fiscale per far ripartire il paese dopo la flessione di un semestre fra il 1991 e il 1992, e perse la presidenza.
Se lo small government è il cavallo di battaglia di McCain, per dirla con il «Wall Street Journal», il piano fiscale è larma con cui mettere definitivamente a tacere i mugugni del grande business e di quelle ampie fette della composita galassia conservatrice che dubitano delle sue credenziali. Per rafforzare l’immagine di conservatore doc in materia fiscale, McCain si fa aiutare da amici, esperti, politici navigati e manager con il pedigree. Appaiono tutti sul palco con lui, lo circondano, annuiscono e applaudono i passaggi chiave degli interventi. Jack Kemp lo ha accompagnato per settimane in giro per l’America tessendone le lodi e definendolo un fiscal hawk, un duro sul contenimento delle spese. Carly Fiorina, ex amministratore delegato della Hewlett-Packard, è il link con il mondo delle grandi industrie. E poi ci sono personaggi come il senatore Lindsey Graham della South Carolina e ancora il texano Phil Gramm. Quest’ultimo è un campione del liberismo e un ex senatore. Ma anche fonte di imbarazzo. Fu il promotore dell’abolizione nel 1999 della legge Glass-Steagall 13 del 1933, legge che impediva alle banche commerciali di investire in titoli emessi da società private. Abrogando la Glass-Steagall, Gramm ha rafforzato la deregulation: controlli ridotti all’osso e via libera a quelle pratiche di collettivizzazione dei debiti e privatizzazione degli utili che avrebbero messo in ginocchio un decennio più tardi, con i mutui subprime, il sistema del credito e trascinato al ribasso gli indici borsistici di New York e non solo. L’appellativo di «Mr. mutui subprime» 14 che la stampa gli ha affibbiato non giova all’immagine di McCain. Letichetta è però meritata. Non solo Gramm ha condotto l’offensiva contro la legge del 1933, ma ha proseguito, dopo la fine dell’esperienza al Senato (2003) l’attività di lobbista a favore delle società di credito private e presieduto la task force della Ubs Warburg sui mutui. Fra il 2005 e il 2006 ha fatto pressioni sulla Fed, sul Congresso e sul Dipartimento del Tesoro per perorare la causa delle banche e delle società immobiliari. Per la consulenza ha incassato un assegno di 750.000 dollari.
Ma il guaio maggiore a McCain, Gramm lo ha procurato quando, in un intervento al «Washington Times» del 10 luglio, ha detto che la recessione di cui si parla è più che altro una «recessione mentale» indotta dai media, e se gli americani si lamentano è perché sono una nazione di «piagnucoloni». McCain si è dovuto scusare bacchettando il suo consigliere economico con una buona dose di ironia: «Sto pensando di nominarlo ambasciatore in Bielorussia». Gramm, ovviamente, ha lasciato la campagna del candidato del Gop. […]
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