Canto trentatreesimo del Purgatorio
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27 Gennaio 2019Dall’Alcyone di Gabriele D’Annunzio
Libro Terzo delle Laudi del Cielo del Mare della Terra e degli Eroi
Il commiato
L’Alpe di Mommio un pallido velame
d’ulivi effonde al cielo di giacinto,
come un colle dell’isola di Same
o di Zacinto.
Il Monte Magno di più cupo argento
fascia la sua piramide; il Matanna
è porpora e viola come il lento
fior della canna.
O canneti l’ungh’essi i fiumicelli
di Camaiore, appreso ho il vostro carme.
Vedess’io rosseggiare gli albatrelli
sul Monte Darme!
Dal Capo Corvo ricco di viburni
i pini vedess’io della Palmaria
che col lutto de’ marmi suoi notturni
sta solitaria!
Potess’io sostenerti nella mano,
terra di Luni, come un vaso etrusco!
In te amo il divin marmo apuano,
l’umile rusco;
amo la tua materia prometèa,
la sabbia delle tue selve aromali,
l’aquila dei tuoi picchi, la ninfea
de’ tuoi canali.
Potesse l’arte mia, da Val di Serchio
a Val di Magra e per le Pànie al Vara
e al Golfo, tutta stringerti in un cerchio
con l’alpe a gara!
Troppo è grave al mio cor la dipartenza.
Come dal corpo, l’anima si esilia
dal marmo che biancheggia tra l’Avenza
e la Versilia.
Tempo è di morte. In qualche acqua torpente
or perisce la dolce carne erbale.
Strider non s’ode falce ma si sente
odor letale.
Dìruta la Ceràgiola rosseggia,
là dove Serravezza è co’ due fiumi,
quasi che fero sangue in ogni scheggia
grondi e s’aggrumi.
Sta nella cruda nudità rupestre
il Gàbberi irto qual ferrato casco.
Ecco, e su i carri per le vie maestre
passa il falasco.
Metuto fu dalla più grande falce
nella palude all’ombra del Quiesa,
ove raggiato di vermène il salce
par chioma accesa
tra cannelle di stridulo oro secco,
tra pigro sparto di pallor bronzino.
Su l’acqua un lampo di smeraldo, e il becco
tuffa il piombino.
Deh foss’io sopra un burchio per la cuora
navigando, e di tifa e di sparganio
carico ei fosse, e fóssevi alla prora
fitto un bucranio
o un nibbio con aperte ali, e vi fosse
odore di garofalo nel mucchio
per qualche cunzia dalle barbe rosse
onde il suo succhio
sì caro all’arte dell’aromatario
stillasse fra l’erbame, e resupino
vi giacessi io mirando il solitario
ciel iacintino;
e scendessi così, tra l’acqua e il cielo
con l’alzaia la Fossa Burlamacca
albicando qual prato d’asfodèlo
la morta lacca;
e traesse il bardotto la sua fune
senza canto per l’argine; ed io, corco
sul mucchio, mi credessi andare immune
di morte all’Orco!
Ma cade il vespro, e tempo è d’esulare;
e di sogni obliosi in van mi pasco.
Su i gravi carri lungo le vie chiare
passa il falasco.
Sono sì vasti i cumuli spioventi
che il timone soperchiano dinnanzi
e il giogo c’èlano e le corna e i lenti
corpi dei manzi,
onde sembran di lungi per sé mossi
e tra la polve aspetto hanno di strani
animali dai gran lanosi dossi,
dai ventri immani.
In fila vanno verso Pietrasanta,
strame ai presepi, ai campi aridi ingrasso.
L’un carrettiere vócia e l’altro canta
a passo a passo.
E tutta la Versilia, ecco, s’indora
d’una soavità che il cor dilania.
Mai fosti bella, ahimè, come in quest’ora
ultima, o Pania!
O Tirreno, Mare Infero, s’accende
sul tuo specchio l’insonne occhio del Faro;
ti veglia e guarda con le sue tremende
navi d’acciaro
la Città Forte dietro il Caprione
sacro agli Itali come ai Greci il Sunio;
t’è scheggia della spada d’Orione
il novilunio;
come sia fatta l’ombra, alla tua pace
verseranno lor lacrime le Atlàntidi,
ti condurrà l’ignavo Artofilace
l’Orse erimàntidi;
s’udrà pe’ curvi lidi il tuo respiro
solo nell’ombra senza mutamento;
solo rispecchierai l’immenso giro
del firmamento.
O Mare, o Alpe, ed io sarò lontano
con nel mio cuor la torbida mia cura!
Splende la cima del mio cuore umano
nell’ode pura.
Ode, innanzi ch’io parta per l’esilio,
risali il Serchio, ascendi la collina
ove l’ultimo figlio di Vergil’io,
prole divina,
quei che intende i linguaggi degli alati,
strida di falchi, pianti di colombe,
ch’eguale offre il cor candido ai rinati
fiori e alle tombe,
quei che fiso guatare osò nel c’èsio
occhio e nel nero l’aquila di Pella
e udì nova cantar sul vento etèsio
Saffo la bella,
il figlio di Vergil’io ad un cipresso
tacito siede, e non t’aspetta. Vola!
Te non reca la femmina d’Eresso,
ma va pur sola;
ché ben t’accoglierà nella man larga
ei che forse era intento al suono alterno
dei licci o all’ape o all’alta ora di Barga
o al verso eterno.
Forse il libro del suo divin parente
sarà con lui, su’ suoi ginocchi (ei coglie
ora il trifoglio aruspice virente
di quattro foglie
e ne fa segno del volume intonso,
dove Tìtiro canta? o dove Enea
pe’ meati del monte ode il responso
della Cumea?).
Forse la suora dalle chiome lisce,
se i ferri ella abbandoni ora ch’è tardi
e chiuda nel forziere il lin che aulisce
di spicanardi,
sarà con lui, trista perché concilio
vide folto di rondini su gronda.
E tu gli parla: «Figlio di Vergil’io,
ecco la fronda.
Ospite immacolato, a te mi manda
il fratel tuo diletto che si parte.
Pel tuo nobile capo una ghirlanda
curvò con arte.
E chi coronerà oggi l’aedo
se non l’aedo re di solitudini?
Il crasso Scita ed il fucato Medo
la Gloria ha drudi;
e, se barbarie genera nel vento
nuovi mostri, non più contra l’orrore
discende Febo Apollo arco-d’-argento
castigatore.
Ma tu custode sei delle più pure
forme, Ospite. Col polso che non langue
il prisco vige nelle tue figure
gentile sangue.
Gli uomini il tuo pensier nutre ed irradia,
come l’ulivo placido produce
agli uomini la sua bacca palladia
ch’è cibo e luce.
Per ciò dal fratel tuo questa fraterna
ghirlanda ch’io ti reco messaggera
prendi: non pesa: ell’è di fronda eterna
ma sì leggera.
Fatta è d’un ramo tenue che crebbe
tra l’Alpe e il Mare, ov’ebbe il Cuor de’ cuori
selvaggio rogo e il Buonarroti v’ebbe
i suoi furori.
L’artefice nel flettere lo stelo
vedea sul Sagro le ferite antiche
splendere e su l’Altissimo l’anelo
peplo di Nike.
Altro è il Monte invisibile ch’ei sale
e che tu sali per l’opposta balza.
Soli e discosti, entrambi una immortale
ansia v’incalza.
Or dove i cuori prodi hanno promesso
di rincontrarsi un dì, se non in cima?
Quel dì voi canterete un inno istesso
di su la cima».
Ode, così gli parla. Ed alla suora,
che vedrai di dolcezza lacrimare,
dà l’ultimo ch’io colsi in su l’aurora
giglio del mare.
Audio Lezioni su Gabriele D’Annunzio del prof. Gaudio
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