Canto trentatreesimo del Purgatorio
27 Gennaio 2019Accordi tra le parti sociali che finalizzino quote di riduzione di orario alla fo…
27 Gennaio 2019Gabriele D’Annunzio
Libro Terzo delle Laudi del Cielo del Mare della Terra e degli Eroi
L’ oleandro
I.
Erigone, Aretusa, Berenice,
quale di voi accompagnò la notte
d’estate con più dolce melodìa
tra gli oleandri lungo il bianco mare?
Sedean con noi le donne presso il mare
e avea ciascuna la sua melodìa
entro il suo cuore per l’amica notte;
e ciascuna di lor parea contenta.
E sedevamo su la riva, esciti
dalle chiare acque, con beato il sangue
del fresco sale; e gli oleandri ambigui
intrecciavan le rose al regio alloro
su ‘l nostro capo; e il giorno di sì grandi
beni ci avea ricolmi che noi paghi
sorridevamo di riconoscenza
indicibile al suo divin morire.
«Il giorno» disse pianamente Erigone
verso la luce «non potrà morire.
Mai la sua faccia parve tanto pura,
non ebbe mai tanta soavità.»
Era la sua parola come il vento
d’estate quando ci disseta a sorsi
e nella pausa noi pensiamo i fonti
dei remoti giardini ov’egli errò.
L’udii come s’io fossi ancor sommerso
e la sua voce avesse umido velo.
Ma reclinai la gota, e d’improvviso
tiepida come sangue dalla conca
dell’udito sgorgò l’acqua marina.
Pur, profondando nella sabbia i nudi
piedi, io sentia partirsi lentamente
il buon calor del tramontato sole.
E chi recise all’oleandro un ramo?
Io non mi volsi, ma l’amarulenta
fragranza della linfa della fresca
piaga mi giunse alle narici, vinse
l’odor muschiato dei vermigli fiori.
«O Glauco» disse Berenice «ho sete.»
Ed Aretusa disse: «O Derbe, quando
fiorì di rose il lauro trionfale?»
Ella ben sapea quando, ma non Derbe
inesperto in foggiar lucidi miti.
Ed il cuore profondo mi tremò,
tremò della divina poesia.
Ond’io pregava: «O desiderii miei,
stirpe vorace e vigile, dormite!
E voi lasciate che nel vostro sonno
io mi cinga del lauro trionfale!»
Tutto allora fu grande, anche il mio cuore.
Oh poesia, divina libertà!
Ergevasi con mille cime l’Alpe
grande, quasi con volo di mille aquile,
per il salir d’impetuosa forza
dalle sue dure viscere di marmo
onde l’uom che non volle umana prole
trasse i suoi muti figli imperituri.
E le curve propaggini dell’Alpe
si protendeano ad abbracciare il mare;
ed il mare splendeva di candore
meraviglioso nel l’unato golfo
con la bellezza delle donne nostre.
E quella luce un rinascente mito
fece di voi sull’irraggiato mondo,
Erigone, Aretusa, Berenice!
Così ci parve riudire il canto
delle Sirene, dalla nave concava
di prora azzurra, fornita di ponti,
veloce, in un doloroso ritorno
spinta dal vento al frangente del mare,
né ci difese Odisseo dal periglio
con la sua cera; ma il cuore, non più
libero, novellamente anelava.
II.
«O Glauco», disse Berenice «ho sete.
Dov’è la fonte? dove sono i frutti?
Dov’è Cyane azzurra come l’aria?
Dove coglierai tu con le tue mani
l’arancia aurata nella cupa fronda?
Come ci dissetammo! E tanto era soave
il dissetarsi che desiderammo
l’ardente sete. Al par di noi chi seppe
distinguere il sapore d’ogni frutto
e la maturità dal suo colore?
distinguere d’ogni acqua la freschezza
e ritrovar la sua più fredda vena?
e regolar le labbra al vario bere
e il sorso modular come una nota?
L’imagine di me nell’acque amavi.
Dell’amore di me arsi inclinata,
sì bella nel ninfale specchio fui.
Io fui Cyane azzurra come l’aria.
Tu mi ghermisti fra natanti foglie.
L’ombra divina mi trasfigurò.
Un fiore subitaneo s’aperse
tra i miei ginocchi. Vincolata fui
da verdi intrichi, fra radici pallide
come i miei piedi, con segreto gelo.
Il sol divino mi trasfigurò.
Anelli innumerevoli alle dita
furommi i raggi, pettini ai capelli,
monili al collo, e veste tutta d’oro.
O Aretusa, perché non ho il tuo nome?
Nascesti tu nell’isola di Ortigia
come l’amor del violento fiume?
La sirena scagliosa abbeveravi,
già fatto il vespero, al tacer dei flauti.
Diedi io le canne ai flauti dei pastori.
Io fui Cyane azzurra come l’aria.
L’acqua sorgiva mi resto negli occhi;
la lenta correntìa mi levigò.
O Glauco, ti sovvien della Sicilia
bella?» Ed io più non vidi la grande Alpe,
il bianco mare. Io dissi: «Andiamo, andiamo!»
«Ti sovvien della bella Doriese
nomata Siracusa nell’effigie
d’oro co’ suoi delfini e i suoi cavalli,
serto del mare? Noi scoprimmo un giorno,
stando su l’Acradina, la triere
che recava da Ceo l’Ode novella
di Bacchilide al re vittorioso.
Udivasi nel vento il suon del flauto
che regolava l’impeto dei remi,
or sì or no s’udiva il canto roco
del celeùste; ma silenziosa
l’Ode, foggiata di parole eterne,
più lieve che corona d’oleastro,
onerava di gloria la carena.
Scendemmo al porto. Ti sovvien dell’ora?
Un rogo era l’Acropoli in Ortigia;
ardevano le nubi sul Plemmirio
belle come le statue sul fronte
dei templi; parea teso dalla forza
di Siracusa il grande arco marino.
E noi gridammo, e un sùbito clamore
corse lungo le stoe quando la nave
piena d’eternità giunse all’approdo.
Portatrice di gloria, ella vivea
magnanima, sublime. Giù pe’ trasti
anelava l’anelito servile;
s’intravedean su’ banchi sovrapposti
i remiganti ignudi unti d’oliva:
la lor fatica ansava dai portelli;
il giglione del remo ai raggi obliqui
lucea come la scapula; un ferigno
odore si spandea, quasi di belve.
E non di quell’anelito servile
era viva la nave, non del sangue
e dell’ossa pesanti ne’ suoi fianchi;
ma sì vivea divinamente d’una
cosa ch’ella recava d’oltremare,
più lieve che corona d’oleastro:
l’Ode, foggiata di parole eterne».
«E’ vero, è vero!» io dissi. «Mi sovviene».
Ed il cuore profondo mi tremò,
tremò della divina poesia.
«Mi sovviene. Era l’Ode trionfale:
“Canta Demetra che regna i feraci
campi siciliani, e la sua figlia
cinta di violette! Canto, o Cl’io,
dispensatrice della dolce fama,
la corsa dei cavalli di Ierone!
Nike ed Aglaia eran con essi quando
trasvolavano…” E l’anima invelata
di sogni andava per le lontananze
dei tempi verso i gloriosi approdi
piena d’eternità come la nave
di Ceo. Passammo gli ellesponti, i golfi,
l’isole, gli arcipelaghi, le sirti:
riverimmo le foci dei paterni
fiumi, pregammo i promontorii sacri,
salutammo le bianche cittadelle
custodite da Pallade rupestri;
varcammo l’Istmo pel diolco. Quivi
eroi vedemmo e Pindaro con loro.
Ed obliammo l’usignuol di Ceo
per l’aquila tebana. Era la tua
mitica luce sul Tirreno, o madre
Ellade, ed era bella come i tuoi
monti la nuda Alpe di Luni, o madre
Ellade, come i tuoi monti bellissima
era, onde a te discesero le stirpi
degli Immortali che incedeano al fianco
degli Efimeri sopra il dominato
dolore, e quelli e questi erano eguali,
e tutti erano Ellèni ed una lingua
parlavano divina, uomini e iddii.
In silenzio guardammo i grandi miti
come le nubi sorgere dall’Alpe
ed inclinarsi verso il bianco mare.
Io vidi allora Pègaso pontare
su gli altissimi marmi i piè di vento
e balzar nell’azzurro con aperte
le immense penne, senza cavaliere;
e per il petto e per il ventre vasti
trasparia come fiamma palpitante
la potenza del sangue gorgonéo.
Ardi gridò: “Ecco il teschio d’Orfeo,
che vien dall’Ebro!”. Ed il solenne lido
parve attendere il fato dopo il grido.
La sua bellezza s’aggrandì d’orrore.
Il flutto nell’insolito splendore
era meravigliosamente puro.
Splendea sul mondo un giorno imperituro.»
III.
Ma non sostenne il nostro cuor mortale
quel silenzio sublime. Si piegò
verso il sorriso delle donne nostre.
E Derbe disse ad Aretusa: «Quando
fiorì di rose il lauro trionfale?».
Era la donna giovinetta alzata,
mutevole onda con un viso d’oro,
tra gli oleandri; ed il reciso ramo
per la capellatura umida effusa,
che fingevale intorno al chiaro viso
l’avvolgimento dell’antica fonte,
intrecciava le rose al regio alloro.
Disse Aretusa: «Bene io te ‘l dirò»
mutevole onda con un viso d’oro.
Disse: «Inseguiva il re Apollo Dafne
l’ungh’esso il fiume, come si racconta.
La figlia di Penéo correva ansante
chiamando il padre suo dall’erma sponda.
Correva, e ad ora ad or le snelle gambe
le s’intricavan nella chioma bionda.
Ben così la poledra di Tessaglia
galoppa nella sua criniera falba
che fino a terra la corsa le ingombra.
Rapido il re Apollo più l’incalza,
infiammato desìo, per lei predare.
All’alito del dio doventa fiamma
la chioma della ninfa fluvïale.
“O padre, o padre” grida “tu mi scampa!”
Chiama ella il padre suo con grida vane.
“Padre, un veloce fuoco mi ghermisce!”
E corre, ed ansa, e le sue gambe lisce
crescon la furia del desìo predace.
“O gran padre Penéo, perduta sono,
ché mi si rompono i ginocchi. Salva-
mi dalla brama del veloce fuoco
che ora mi giunge, ecco, ecco, ora m’abbranca!”
Ma il dolce sangue suo in altro suono,
la sua bellezza in altro suono parla.
Balzale il cuor, si piegano i ginocchi.
Ed ecco ella s’arresta, chiude gli occhi
e trema e dice: “Or ecco m’abbandono”.
Una gioia s’aggiunge al suo terrore
ignota che il divin periglio affretta.
Tremante e nuda dentro la chioma ode
la vergine il tinnir della faretra,
sente la forza del perseguitore,
vede l’ardor pe’ chiusi cigli e aspetta
d’esser ghermita, e più non chiama il padre.
Ma il dio la chiama: “Dafne, Dafne, Dafne!”.
Ed ella non udì voce più bella.
Il dio la chiama: “Dafne, Dafne!” Ed osa
ella aprir gli occhi: la rutila faccia
vede da presso e la bocca bramosa
mentre il dio con le due braccia l’allaccia.
Rapita dalla forza luminosa
gitta ella un grido che per la selvaggia
sponda ultimo risuona, e l’ode il padre.
Avido il dio districa la soave
nudità dalla chioma che la fascia.
Bianca midolla in còrtice lucente,
in folti pampini uva delicata!
Tenera e nuda il dio la piega, e sente
ch’ella resiste come se combatta.
Tenera cede il seno; ma dal ventre
in giuso, quasi fosse radicata,
ella sta rigida ed immota in terra.
Attonito, l’amante la disserra.
“Ahi lassa, Dafne, ch’arbore sei fatta!”
Subitamente Dafne s’impaura:
le copre il vólto e il seno un pallor verde.
Ella sembra cader, ma la giuntura
dei ginocchi riman dura ed inerte.
S’agita invano. L’atto della fuga
invan le torce il fianco. Si disperde
il senso di sua vita nella terra.
E l’amante deluso ancor la serra.
“Ahi lassa, Dafne, chi ti trasfigura?”
Ma non il suo melodioso duolo
giova a trarre colei dalla sua sorte.
Nell’umidore del selvaggio suolo
i piedi farsi radiche contorte
ella sente e da lor sorgere un tronco
che le gambe su fino alle cosce
include e della pelle scorza fa
e dov’è il fiore di verginità
un nodo inviolabile compone.
“O Apollo” geme tal novo dolore
“prendimi! Dov’è dunque il tuo desìo?
O Febo, non sei tu figlio di Giove?
Arco-d’-argento, non sei dunque un dio?
Prendimi, strappami alla terra atroce
che mi prende e beve il sangue mio!
Tutto furente m’hai perseguitata
ed or più non mi vuoi? Me sciagurata!
Salva mio grembo per lo tuo desìo!
Salvami, Cintio, per la tua pietà !
Se i miei capelli, che m’avvinsero, ami,
de’ miei capelli corda all’arco fa!
Prendimi, Apollo!” E tendegli le mani,
che son fogliute; e il verde sale; e già
le braccia sino ai cubiti son rami;
e il verde e il bruno salgon per la pelle;
e su per l’ombelico alle mammelle
già il duro tronco arriva; e i lai son vani.
“Aita, aita! Il cuore mi si serra.
Vedi atra scorza che il petto m’opprime!
O Apollo Febo, strappami da terra!
Tanto furente, non sia più ghermire?
Nuda mi prenderai su la dolce erba,
su la dolce erba e su ‘l mio dolce crine.
Ardo di te come tu di me ardi.
O Apollo, o re Apollo, perché tardi?
Già tutta quanta sentomi inverdire.”
Il dolce crine è già novella fronda
intorno al viso che si trascolora.
La figlia di Penéo non è più bionda;
non è più ninfa e non è lauro ancora.
Sola è rossa la bocca gemebonda
che del novello aroma s’insapora.
Escon parole e lacrime odorate
dall’ultima doglianza. O fior d’estate,
prima rosa del lauro che s’infiora!
Tutto è gia verde linfa, e sola è sangue
la bocca che querelasi interrotta-
mente. In pallide fibre il cor si sface
ma il suo rossore è in sommo della bocca.
Desioso dolor preme l’amante.
Guarda ei l’arbore sua ma non la tocca;
l’ode implorare ma non ha virtù.
E chiama: “Dafne, Dafne!” Ella non più
implora, non più geme. “Dafne, Dafne!”
Ella non più risponde: è senza voce.
Pur la gola sonora è fatta legno.
Le palpebre son due tremule foglie;
li occhi gocciole son d’umor silvestro;
bruni margini inasprano le gote;
delle tenui nari è appena il segno.
Ma nell’ombra la bocca è ancora sangue,
sola nel lauro la bocca di Dafne
arde e al dio s’offre, virginal mistero.
Curvasi Apollo verso quella ardente,
la bacia con impetuosa brama.
Ne freme tutta l’arbore; s’accende
l’ombra intorno alla fronte sovrana;
ogni ramo in corona si protende,
e la fronte d’Apollo è laureata.
Pean! O gloria! Ma sotto i suoi baci
or più non sente che foglie vivaci,
amare bacche. E Dafne Dafne chiama.
“Ahi lassa, Dafne, ch’arbore sei tutta!
Ahi chi ti fece al mio desìo diversa?
In durissimo tronco e in fronda cupa
la dolce carne tua or s’è conversa.
La tua bocca vermiglia s’è distrutta,
che pareva di fiamma ardere eterna.
Come leggieri i piedi tuoi su l’erba,
or radicati nella negra terra!
M’odi tu? M’odi tu? Dafne, sei muta?
Rispondi!” Abbrividiscono le frondi
sino alla vetta. Nel silenzio un breve
murmure spira. “M’odi tu? Rispondi!”
Move la vetta un fremito più lieve.
Poi tutto tace e sta. Sotto i profondi
cieli le rive alto silenzio tiene.
Il bellissimo lauro è senza pianto;
il dolore del dio s’inalza in canto.
Odono i monti e le valli serene.
Odono i monti e le valli e le selve
e i fonti e i fiumi e l’isole del mare.
Spandesi il canto dall’anima ardente
e per tutte le cose generare.
La bellezza di Dafne ecco riveste
la terra; le sue membra delicate
son monti e valli e selve e fiumi e fonti,
il suo sguardo inzaffira gli orizzonti,
la sua chioma fa l’oro dell’estate.
O Dafne, sempre il dio e l’uom cantando
non vorranno altro onor che un ramoscello
di te! Così l’Arco-d’-argento, quando
ha placato il suo cuore nell’immenso
inno, pago si giace sotto il sacro
lauro ad attendere il suo dì novello.
Cade la notte. Sul sonno divino
l’arbore luce d’un baglior sanguigno,
qual bronzo che si vada arroventando.
Scorre la notte. Tra l’Olimpo e l’Ossa
una stella tramonta e l’altra sale.
Misteriosa l’arbore s’arrossa
ma sul suo fuoco piovon le rugiade.
Sogna il Cintio la desiata bocca
di Dafne, e balza il suo cuore immortale.
E’l’alba, è l’alba. Il dio si desta: un grido
di meraviglia irraggia tutti il lido.
Brilla di rose il lauro trionfale!»
IV.
E così della rosa e dell’alloro
parlò quell’Aretusa fiorentina,
mutevole onda con un viso d’oro.
la sua voce era come acqua argentina
che recasse lavandula o pur menta
o salvia o altra fresca erba mattutina.
Tutto rigato dalla schietta vena
«Sol d’oleandro voglio laurearmi»
io dissi. Ed Aretusa era contenta;
e recise per me altri due rami
e fe’ l’atto di cingermi le tempie
dicendomi: «Pe’ tuoi novelli carmi!
Che la cerula e fulva Estate sempre
abbia tu nel tuo cuore e in te le rime
nascano come le sue rose scempie!»
E il giorno estivo non potea morire,
ma sorrideva sopra il bianco mare
silenziosamente senza fine;
e la notte, che avea parte ineguale,
spiava il bel nemico dalle chiostre
dei monti azzurra come te, Cyane.
Ebri e tristi d’aver bevuto a troppe
fonti e incantato il cor per tutte guise,
cercammo il grembo delle donne nostre.
Ma la Melancolìa venne e s’assise
in mezzo a noi tra gli oleandri, muta
guatando noi con le pupille fise.
Ed Erigone, ch’ebbe conosciuta
la taciturna amica del pensiero,
chinò la fronte come chi saluta.
E poi disse la Notte e il suo mistero.
V.
«Il Giorno» disse «non potrà morire.
Il suo sangue non tinge il bianco mare.
Mai la sua faccia parve tanto pura,
non ebbe mai tanta soavità.
Giace supino sopra il bianco mare,
sorride al cielo ch’ei regnava, attende
ei non sa quale morte o voluttà.
Pur tanto è dolce che la Notte oscura
non già lo spegne ma di lui s’accende,
e lui aurato nelle braccia prende,
lui cela nella sua capellatura,
ma non così che quelle membra d’oro
non veggansi pel fosco trasparire
e illuminare la serenità.
Caldi soffiano i venti al bianco mare,
calde passano e lente le riviere
in cuore alle terribili città,
passano e vanno per ignoti piani,
cingono ignoti boschi: i cervi a bere
scendono ansanti nella gran caldura;
lunghi bràmiti ascoltano lontani;
bevono: in qualche tacita radura
poi fino a morte si combatterà.
O Notte, o Notte, invano tu nascondi
ne’ tuoi capelli il dolce tuo nemico!
Non sono i tuoi capelli sì profondi
che non veggasi dai nostri occhi umani
fiammeggiarvi per entro il tuo piacere.
La terra oppressa respiro non ha.
Arde l’ombra. La vigna è come il vino:
il grappolo sul tralcio si matura
poi che il raggio nell’uva è prigioniere.
La terra soffre nell’ebrietà.
Arde come una glauca vampa l’ombra.
Aduna e vita e morte il bianco mare,
immensa cuna il mare, immensa tomba.
A lui dal monte la sorgente va.
Impallidisce sotto il pianto il coro
delle Pleiadi e l’una d’elle è occulta,
l’una che seppe la felicità.
Orione si slaccia l’armatura,
e Boote si volge, e Cinosura
vacilla; e l’Orsa anche impallidirà.
Oblìa la Notte tutte le sue stelle
e il duolo antico degli amanti umani.
Che con lei piangeremo ella non sa.
O Notte, piangi tutte le tue stelle!
il grido dell’allodola domani
dall’amor nostro ci disgiungerà».
Un’altra era con noi, ma restò muta,
tra gli oleandri lungo il bianco mare.
Audio Lezioni su Gabriele D’Annunzio del prof. Gaudio
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