Pianto antico di Giosuè Carducci e i rapporti intertestuali ed extratestuali per …
28 Dicembre 2019Decadentismo e naturalismo
28 Dicembre 2019“Alla stazione in una mattina d’autunno” è una poesia di Giosuè Carducci, appartenente alla raccolta Rime nuove, composta nel 1877.
In questa poesia, Carducci descrive una scena ambientata in una stazione ferroviaria durante una mattina piovosa d’autunno, in cui il poeta si confronta con il dolore di una separazione amorosa. L’atmosfera cupa e malinconica, tipica della stagione autunnale, si riflette tanto nell’ambiente esterno quanto negli stati d’animo del poeta, attraverso immagini di freddo, pioggia e tenebre.
Analisi e commento
Versi 1-4:
Oh quei fanali come s’inseguono
accidïosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ‘l fango!
La poesia si apre con la descrizione dei fanali della stazione, che si intravedono tra gli alberi bagnati di pioggia. L’aggettivo “accidïosi” suggerisce un movimento lento e pigro, quasi stanco, che contribuisce a creare un’atmosfera di desolazione e noia. La luce dei fanali, che “sbadiglia su ‘l fango”, è un’immagine significativa: come se anche la luce fosse apatica e priva di vitalità, rispecchiando lo stato d’animo del poeta. L’autunno qui diventa una metafora per la malinconia e la stanchezza dell’anima.
Versi 5-8:
Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.
Il rumore della vaporiera, descritto come “flebile, acuta, stridula”, accentua il senso di disagio e dolore. Anche il cielo, con il suo “colore plumbeo”, contribuisce a creare un’immagine opprimente e cupa. L’autunno viene paragonato a “un grande fantasma”, una presenza silenziosa e opprimente che avvolge tutto. La nebbia e il grigiore accentuano la desolazione e il senso di vuoto del poeta, che si sente quasi soffocato da questa “ombra” autunnale.
Versi 9-12:
Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?
Carducci osserva la gente che si affretta verso i vagoni, descrivendola come “ravvolta e tacita”, quasi senza vita. Si interroga su dove stiano andando, su quali dolori o speranze lontane li stiano spingendo a partire. Qui emerge un senso di inquietudine: il viaggio diventa simbolo di un cammino verso l’ignoto, carico di sofferenze o speranze, ma comunque caratterizzato da una profonda incertezza. Questa incertezza rispecchia anche il turbamento interiore del poeta.
Versi 13-16:
Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.
Qui Carducci si rivolge direttamente a Lidia, la donna amata, che appare pensierosa mentre porge il biglietto al controllore. Il poeta riflette sul tempo che scorre inesorabile, che strappa via i “begli anni”, i momenti felici e i ricordi gioiosi. Lidia diventa simbolo del tempo che fugge, della giovinezza che si perde. L’atto di consegnare il biglietto (“la tessera”) diventa metafora della resa al tempo che passa, un processo inevitabile a cui nemmeno l’amore può opporsi.
Versi 17-24:
Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
freni tentati rendono un lugubre
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
La scena si arricchisce di figure inquietanti: i “vigili” (il personale ferroviario) vestiti di nero sembrano ombre che si muovono lungo il treno. Anche gli oggetti (la lanterna fioca, le mazze di ferro) contribuiscono a questa atmosfera cupa e sinistra. Il suono dei “freni tentati” produce un “lugubre rintocco”, che risuona nell’anima del poeta, generando un eco di tedio e dolore. Il tedio qui non è solo noia, ma un peso esistenziale, un vuoto che si percepisce come una ferita nell’anima.
Versi 25-28:
E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.
Il rumore degli sportelli che si chiudono sembra un “oltraggio”, e l’ultimo appello del treno suona come uno scherno, un’ulteriore beffa al dolore del poeta. Anche la pioggia, che scroscia forte sui vetri, contribuisce a rafforzare questo senso di ostilità della realtà circostante, che sembra quasi deridere la sofferenza personale.
Versi 29-36:
Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ‘l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.
Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e ‘l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.
Il treno viene descritto come un “mostro”, una macchina dotata di una propria “anima metallica”, che sbuffa e si muove con violenza. La personificazione del treno come un essere empio e spaventoso rende evidente il contrasto tra il meccanico, l’inumano, e i sentimenti umani del poeta. Il treno porta via con sé “gli amor miei”, simbolo dei sogni e dei desideri del poeta, che svaniscono nella tenebra. La partenza del treno rappresenta la separazione definitiva dall’amata.
Versi 37-48:
O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!
Fremea la vita nel tepid’ aere,
fremea l’estate quando mi arrisero:
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso
in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
piú belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.
In un momento di memoria nostalgica, il poeta rievoca il viso dell’amata, la sua dolcezza e la serenità dei suoi occhi. Rievoca l’estate e il sole di giugno, un tempo felice in cui la vita sembrava vibrante e luminosa. Il ricordo del viso della donna si confonde con la bellezza dell’estate e del sole, in un’immagine quasi sacra, simile a un’aureola.
Versi 49-56:
Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tócco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.
Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.
Il poeta torna alla realtà presente, dominata dalla pioggia e dalla nebbia. Si sente spaesato, quasi un fantasma tra i fantasmi, travolto da un senso di smarrimento esistenziale. L’immagine delle foglie che cadono “gelide” e “mute” rappresenta la malinconia e il vuoto interiore che il poeta sente. L’autunno, con la sua cupezza, diventa per lui uno stato d’animo perenne: “per tutto nel mondo è novembre”, espressione di un’inquietudine e disperazione universale.
Versi 57-60:
Meglio a chi ‘l senso smarrí de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.
Il poeta conclude esprimendo il desiderio di abbandonarsi a questo “tedio” infinito, preferendo l’ombra e la nebbia dell’oblio alla sofferenza della vita. L’invito a lasciarsi andare al nulla è un segno di profonda stanchezza esistenziale, una forma di resa di fronte alla fatica del vivere.
Testo e Parafrasi
Testo:
Oh quei fanali come s’inseguono Flebile, acuta, stridula fischia Dove e a che move questa, che affrettasi Tu pur pensosa, Lidia, la tessera Van lungo il nero convoglio e vengono freni tentati rendono un lugubre E gli sportelli sbattuti al chiudere Già il mostro, conscio di sua metallica Va l’empio mostro; con traino orribile O viso dolce di pallor roseo, Fremea la vita nel tepid’ aere, in tra i riflessi del crin castanei Sotto la pioggia, tra la caligine Oh qual caduta di foglie, gelida, Meglio a chi ‘l senso smarrí de l’essere,
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Parafrasi:
1-4: Oh, quei fanali sembrano inseguirsi pigramente là dietro gli alberi, tra i rami bagnati dalla pioggia, lanciando fiacche luci sul fango. 5-8: Il treno vicino fischia in modo stridulo e acuto. Il cielo e il mattino d’autunno, grigi e cupi, ci circondano come un grande fantasma. 9-12: Dove va questa gente, avvolta e silenziosa, che si affretta verso i vagoni? Quali dolori sconosciuti o speranze lontane la spingono? 13-16: Anche tu, Lidia, pensierosa, dai il biglietto al controllore, e cedi al tempo incalzante i tuoi anni migliori, i momenti felici e i ricordi. 17-20: I controllori vestiti di nero, come ombre, camminano lungo il treno con lanterne fioche e mazze di ferro. I freni di ferro emettono un suono lugubre. 21-24: Un’eco di tedio e dolore risuona nell’anima, un dolore che sembra uno spasimo. 25-28: Gli sportelli sbattuti sembrano offese, e l’ultimo appello del treno suona come uno scherno. La pioggia batte forte sui vetri. 29-32: Il treno, come un mostro consapevole della sua anima metallica, sbuffa, trema, ansa, apre i suoi occhi di fuoco e lancia un fischio nel buio. 33-36: Il mostro malvagio parte, portando via i miei amori con le sue ali rumorose. Ahimè, il volto bianco e il bel velo scompaiono nel buio. 37-40: Oh, dolce viso dal pallore roseo, occhi sereni come stelle, e la tua fronte pura inclinata tra i tuoi bei capelli ricci con un gesto soave. 41-44: La vita vibrava nell’aria tiepida, l’estate vibrava quando mi sorridevi, e il giovane sole di giugno amava baciarti luminosamente. 45-48: Tra i riflessi dei tuoi capelli castani, il sole baciava la tua guancia morbida, e i miei sogni, più belli del sole, ti circondavano come un’aureola. 49-52: Ora, sotto la pioggia e la nebbia, torno a questa triste realtà, e mi sento come un fantasma. Barcollo come un ubriaco e mi tocco per assicurarmi di non essere anche io un fantasma. 53-56: Oh, quale fredda e muta caduta di foglie sul mio animo! Credo che tutto il mondo sia sempre in novembre. 57-60: Meglio per chi ha perso il senso dell’esistenza: meglio quest’ombra e nebbia. Voglio adagiarmi in un tedio che duri per sempre.
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Conclusione
“Alla stazione in una mattina d’autunno” è una delle poesie più intense e cupe di Giosuè Carducci, che mescola il tema della separazione amorosa con la riflessione esistenziale sul tempo, la morte e il dolore. La figura del treno, visto come un mostro inarrestabile che porta via l’amata, è una potente metafora del passare del tempo e dell’impossibilità di fermare il corso della vita. Il poeta si trova immerso in un’atmosfera di tedio e malinconia, che riflette perfettamente la stagione autunnale, simbolo di declino e fine.
Solo Testo
Alla stazione in una mattina d’autunno
Oh quei fanali come s’inseguono
accidïosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ‘l fango! 4
Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno. 8
Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana? 12
Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi. 16
Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei 20
freni tentati rendono un lugubre
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare. 24
E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia. 28
Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ‘l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio. 32
Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e ‘l bel velo
salutando scompar ne la tenebra. 36
O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave! 40
Fremea la vita nel tepid’ aere,
fremea l’estate quando mi arrisero:
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso 44
in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
piú belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile. 48
Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tócco,
non anch’io fossi dunque un fantasma. 52
Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre. 56
Meglio a chi ‘l senso smarrí de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito. 60