Roberto Vecchioni e il potere dei sogni
27 Gennaio 2019Commedia da salotto
27 Gennaio 2019da “Vagabondaggio” (1887)
Novelle di Giovanni Verga
Su tutte le cantonate immensi cartelloni a tre colori annunziavano:
CAFFE’-CONCERTO NAZIONALE
QUESTA SERA
DEBUTTO DI MADAMIGELLA EDVIGE
GRAN SUCCESSO DEL GIORNO
SENZA AUMENTO SUL PREZZO DELLE CONSUMAZIONI
I pochi avventori mattutini del «Caffè-Concerto Nazionale», già avvezzi ai grandi successi, non degnavano neppure di un’occhiata il lenzuolo bianco, verde e rosso, sciorinato dietro il banco, sul capo della padrona, la quale stava discutendo con una ragazza alta e magra, che la supplicava a voce bassa, in atteggiamento umile, infagottata nella cappa lisa. In un canto il lavapiatti sbracciato scopava un tavolone che la sera faceva da palco, parato a drappelloni bianchi, verdi e rossi; ornato di corone d’alloro di carta, che pendevano malinconiche.
La padrona scrollava il capo ostinatamente, stringendosi nelle spalle. L’altra insisteva sempre a mani giunte, facendosi rossa, quasi piangendo. Infine, come entrò un forestiero stracco a bere un moka da venti centesimi, col naso sul giornale del giorno innanzi, la ragazza si rassegnò ad intascare i pochi soldi che la padrona le contava ad uno ad uno sul marmo, con un fare d’elemosina.
Alle otto in punto di sera, accesi i lumi del pianoforte, il maestro, un giovanotto allampanato sotto una gran barba e uno zazzerone che se lo mangiavano, dopo un grande inchino alla sala quasi vuota, incominciò timidamente una ouverture di propria fabbrica, mentre il «Caffè-Concerto Nazionale» andavasi popolando a poco a poco. Dopo montò sul tavolone un pezzo d’uomo, vestito tutto di rosso come un gambero cotto, con due enormi sopracciglia alla chinese, per darsi un’aria satanica, e dei cornetti inargentati. Egli si mise ad urlare «la canzone dell’oro» come un ossesso, allargando le gambe sul tavolato, stendendo gli artigli minacciosi verso l’uditorio, con certi occhi terribili e certe boccacce sardoniche che volevano incutere terrore. Al «dio dell’oro» mescolavasi l’acciottolìo dei piattini, lo sbattere dell’usciale e la voce dei tavoleggianti, i quali gridavano: – Panna e cioccolata! – oppure: – Tazza Vienna! – Mefistofele salutò lo scarso pubblico, che non gli badava, e scese adagio adagio la scaletta col mantelletto ad ali di pipistrello che gli sventolava dietro.
– Stasera avremo il gran debutto, – osservò un avventore che centellava da tre quarti d’ora una chicchera di levante.
– Il successo del giorno! – grugnì il vicino, ch’era sempre lì a quell’ora, colla coppa di Vienna vuota dinanzi, un mucchio di giornali sotto la mano, e la moglie addormentata accanto.
Infatti, dopo il pezzo con variazioni per pianoforte sulla Stella confidente venne il duetto dell’Ernani, e comparve un’altra volta dalla cucina il baritono vestito alla spagnuola, con un medaglione d’ottone che gli ballava sul ventre, e un cappello piumato in testa, facendo largo a madamigella Edvige, tutta di bianco come un fantasma, sotto la polvere d’amido e la veste di raso del rigattiere.
– Che braccia magre! – osservò un dilettante, fiutandole quasi sotto i guanti lunghi e duri di benzina.
Carlo V offrì cavallerescamente la mano ad Elvira per montare sul palco malfermo, e lì, nella gran sala piena di fumo, il duetto incominciò. Ahimé! una vera delusione pel pubblico e pel Caffettiere. Madamigella Edvige aveva una voce stridente che faceva voltare arrabbiati anche i tranquilli lettori di giornali; e la poveretta, pallida come una morta, aveva un bell’annaspare colle mani, e dimenare i fianchi, rizzandosi sulla punta delle scarpette di raso troppo larghe, per acchiappare le note. Una voce, dal fondo della sala gridò: – Presto! un bicchier d’acqua! – E tutto l’uditorio scoppiò a ridere. Carlo V invece se la cavava magnificamente, avendo le signore dalla sua, pei suoi effetti di polpa, sotto le maglie di colore incerto, e le sue note alte che assordavano perfino i camerieri, e facevano tintinnare le gocciole delle lumiere. La debuttante scese dal palco più morta che viva, incespicando, colle sottane in mano, fra gli spintoni dei tavoleggianti che correvano di qua e di là, portando i vassoi in aria.
Il dilettante di prima osservò pure:
– Che piedi! –
Seduta in un cantuccio della cucina, fra i lazzi degli sguatteri, e il fumo delle casseruole, la debuttante aspettava scorata la sua sentenza, ed anche la cena, ch’era compresa nell’onorario, alla tavola comune, insieme al cuoco, il baritono, i camerieri ed il maestro, ancora in cravatta bianca. Quest’ultimo, un gran buon diavolo, malgrado la sua barbona, cercava di confortarla come poteva: – La sala era tanto sorda! Chissà, una seconda volta, quando fosse stata più sicura dei suoi mezzi… – La poveretta rispondeva di tanto in tanto con un’occhiata umile e riconoscente a quelle buone parole. Il baritono intanto, con un pastrano peloso gettato sul giustacuore di Carlo V, e un tovagliuolo al collo, divorava in silenzio. – Artisti bisogna nascere! – osservò infine a bocca piena.
La padrona, chiuso il libro e spenti i lumi del Caffè, era scesa in cucina a dare un’occhiata. Alla povera ragazza, che aspettava col viso ansioso, disse bruscamente:
– Cara mia, me ne dispiace, ma non ne facciamo nulla. Avete visto che fiasco? –
L’altra rimaneva a capo chino, coi fiori di carta nei capelli, e le spalle infarinate. – Mangiate, mangiate pure! – ripigliava la padrona, una buona donna. – Che diamine! Non voglio che la gente vada via a pancia vuota da casa mia -. Il maestro, che pensava al poi, le spingeva il piatto sotto il naso. Ma la poveretta non aveva più fame; si sentiva la gola come stretta dai singhiozzi; andava riponendo adagio adagio nella borsetta i guanti lavati, i fiori di carta, e le scarpette di raso; senza però potersi risolvere ad andarsene. Due ragazzacci, che parlavano forse di tutt’altro, si misero a sghignazzare. Allora essa salutò umilmente tutti, e s’avviò.
Sulla porta un cameriere in giubba stava spengendo i lumi, e staccava il cartellone del Concerto, canticchiando: – Gran successo del giorno! –
Per la via buia e deserta da stringere il cuore, correvano le prime raffiche d’autunno. Il maestro, mosso a compassione, le era corso dietro.
– Vuol essere accompagnata a casa?… Senza complimenti.
– No, grazie, sto lontano assai.
– Diamine! diamine! Anch’io sono aspettato a casa… Ma non posso lasciarla andare sola come un cane… Vuol dire che affretteremo il passo.
– Davvero… Non vorrei abusare.
– No, no, spicciamoci piuttosto! Anche per me è tardi… Ci ha qualcuno che l’aspetti?
– Nossignore, nessuno.
– Almeno ci avrà qualche conoscente qui?
– Neppure, signore; sono arrivata la settimana scorsa, con una lettera pel Caffè Nazionale: una corista, mia compagna che vi era stata questa primavera, mi disse che ci avrei trovato qualche cosa, non molto, è vero, ma nella stagione morta, sa bene… Laggiù, alla piazza, erano rimaste cinquanta persone sulla strada, dopo la fuga dell’impresario. Dicono che anche lui, poveraccio, ci abbia perso tutto il suo… –
Il maestro pensava intanto a quei giorni terribili in cui una notizia simile era arrivata come un fulmine al Caffè, sulla faccia stravolta di un artista, e s’erano trovati tutti, raccolti dallo stesso terrore, davanti alla porta chiusa del teatro. Poi erano corsi in folla all’agenzia, come pazzi, in paese straniero, in mezzo a gente di cui non conoscevano la lingua, e che si fermava sorridendo al passaggio di quella turba affamata. E le lunghe ore dei giorni interminabili, passate al Caffè, il solo rifugio, con una tazza di birra dinanzi, le notti terribili d’inverno, le camicie portate tre settimane, il mozzicone di sigaro raccattato di nascosto. Sentiva perciò una grande simpatia per quell’altra derelitta, e le andava dicendo:
– Coraggio! coraggio! Bisogna farsi animo! L’aiuterò anch’io, come posso… E’ vero che non posso far molto… Son forestiero come lei… E non sono stato sempre fortunato… Ma vedrà che il buon tempo giungerà anche per lei… Diavolo! diavolo! Dov’è andata a scovarlo quest’albergo, così lontano?
– Me lo indicarono laggiù… perché spendessi meno… Mi rincresce per lei!…
– No, no… E’ che m’aspettano a casa… Sanno l’ora, press’a poco… Mi toccherà inventare qualche storiella… Ma lei non pensi a questo… Deve aver altro in testa, lei, poveretta! Ci dorma su, si faccia animo, che quanto potrò lo farò ben volentieri per lei.
– Oh, signore!… Com’è buono!…
– Niente, niente, una mano lava l’altra. Se non ci aiutiamo fra di noi! Il male è che non posso far molto!…
Infine ella disse:
– E’ qui -. Picchiò all’uscio di un albergaccio d’infima classe, e gli strinse la mano colle lagrime agli occhi. Aveva la faccia tanto buona, colla barba lunga, e il misero paletò che il vento gli incollava addosso come fosse di lustrino. Dalla finestra una vociaccia assonnata rispose brontolando:
– Vengo! vengo! Bell’ora di tornare a casa! –
Anche lui, in quel momento, la guardò negli occhi, le strinse forte la mano due o tre volte, mosse le labbra, per dire qualche cosa, infine proruppe: – Me ne vado, sono aspettato. Buona notte! Buona notte! – E partì correndo.
La stanzuccia, che pigliava lume da un finestruolo sulla scala, costava cinquantacinque centesimi al giorno, tre soldi di pane e latte la mattina, trentacinque centesimi il desinare. La sera poi doveva spendere altri sei soldi per andare al Caffè Nazionale, dove era quasi certa di vedere il maestro, la sola persona che conoscesse nella città. Negli intermezzi, quando poteva, egli andava a salutarla; da lontano, prima di parlare, gli si vedeva in viso la stessa notizia scoraggiante: – Nulla ancora! – Poi, al vederla così triste e rassegnata, colla chicchera di Caffè vuota sul tavolino, voleva pagar lui. Ma essa non permetteva, arrossendo fino ai capelli. – No, signore, un’altra volta! – Egli non osava insistere, ma avrebbe voluto che lei lo considerasse come un vero amico, come un fratello. Le confidava i suoi piccoli guai, anche lui, per incoraggiarla. Le narrò a poco a poco tutta la sua vita, proprio come a una sorella, oggi una cosa, domani l’altra: il fallimento dello zio che s’era preso cura di lui orfano, la vocazione strozzata dal bisogno, il pane trovato con mille stenti qua e là, tutta la sua giovinezza scolorita, scoraggiata, senza gioie, senza fede, senza amore. Essa allora sorrideva, scotendo il capo con una grazia giovanile che la faceva tornar bella. – No, no! Ve lo giuro! Mai! – Allora chinavano il viso, malinconici. Una volta i loro occhi s’incontrarono, e si fecero rossi tutti e due.
Ma spesso egli giungeva accompagnato da un donnone coi baffi come un uomo d’arme, la quale aveva il colorito acceso, con un gran cappellone di felpa ornato di piume rosse, ed era serrata in una veste di seta grigia che pareva dovesse scoppiare a ogni momento. Quelle volte il maestro non osava muoversi neppure; il donnone, dal suo posto, non lo perdeva di vista un momento, sotto le piume rosse del cappellone. – E’ la mia padrona di casa, una buona donna, – le aveva detto lui. – Ma quando ci vede insieme faccia finta di niente, per carità! –
Fu come una fitta al cuore. Il baritono che l’incontrò per la strada, tutta sottosopra, le propose di accompagnarla. – Permettereste voi, mia bella damigella, d’offrirvi il braccio mio, per far la strada insieme? – Ella ricusava. Andava molto lontano… Non voleva abusare… – Ma che! ma che! Bagattelle! D’altronde son ben coperto. Con questa pelliccia qui, potrei andare sino al Polo! Senta! senta! Un regalo dei miei amici di Odessa. Tutta volpe di Siberia; una bestia che vende cara la sua pelle a quello che dicono!… Eh! eh! Comincia presto l’inverno quest’anno! Non c’è male, n’è vero?… Buona notte, maestro! –
Questi passava rattrappito nel suo paletò, dando il braccio alla sua compagna, di cui la veste grigia luccicava come un’armatura sotto il lampione. – E’ la fiamma del maestro, – aggiunse il baritono. – Una pira, come vede! Però un buon diavolaccio anche lui! Un po’ timido, un po’ bagnato, come diciam noi, ma il mestiere lo conosce, ve lo dico io! Quando vi siete mangiate quelle note della cabaletta, la sera del vostro debutto, vi rammentate? do, sol, do, nessuno se n’è accorto. Peccato che non riempiano lo stomaco le note che si mangiano, eh! eh! eh! Capisco, capisco, l’emozione, la paura… Ma bisogna aver la faccia tosta, mia cara; e sputar fuori le vostre note pensando che quanti stanno ad ascoltarvi sono tutti una manica di cretini, se no non si fa nulla! Però vorrei sapere chi è quel boia che vi ha messo in questo mestiere, senza voce come siete!
– La voce ce l’avevo. Fui ammalata tanto tempo e d’allora in poi, in principio dell’inverno ci ho sempre come una spina qui…
– Ah! ah! Peccato! Alle volte, vedete, succedono di queste cose che si farebbe scendere gli dei del cielo!… –
In fondo, del cuore ce ne aveva anche lui, sotto la pelliccia, e sapendo che era a spasso cercava di consolarla come poteva.
– Bisogna farsi animo, mia cara amica. Cent’anni di malinconia non ci danno una sola giornata buona. E poi son cose che abbiamo passate tutti quanti. La va così, per noi altri artisti. Oggi fame, domani fama! Non parlo per me, ché non posso lagnarmi, grazie a Dio! M’hanno sempre voluto bene da per tutto! Guardate questo anello di brillanti! E queste catenelle d’oro, oro di ventiquattro carati, garantito! Ma ogni santo ha la sua festa. Vedrete che verrà la vostra festa, anche per voi! –
Chiacchierava, chiacchierava, con una certa bonomia che gli veniva in quel momento dallo stomaco pieno, dalla pelliccia calda, dal bicchierino di cognac, e anche dalla vicinanza di quella giovane simpatica, che sentiva tremare di freddo sotto il suo braccio, nella via deserta. – Vedrete che verrà la vostra festa. Bisogna tentare un’altra volta; in un’altra piazza, ben inteso! Peccato che non abbiate voce! Avete provato se vi vanno le canzonette allegre? Per quelle si fa anche a meno della voce. Ma occorrono altri requisiti: del tupé, l’occhio ardito, i fianchi sciolti… e un po’ più di polpa, che diavolo! E’ vero che questa può venire… siete giovane!… –
Così dicendo l’esaminava dalla testa ai piedi, ogni volta che passavano sotto un lampione, col fare allegro e senza cerimonie di buon camerata. – E non bisogna fare tante smorfie, cara mia. Colle smorfie non si mangia. E non aver neppure dei grilli in capo. Io, come mi vedete, ho fatto i primi teatri del mondo; potete dimandare a chi volete di Arturo Gennaroni; eppure quando vennero ad offrirmi la scrittura pel Concerto del Caffè Nazionale non mi feci tirar le orecchi. Si piglia quel che capita. Oggi qui, domani là. Come? ci siamo di già? Avrei fatto altri due passi, per avere il piacere di stare con voi ancora. Il tempo passa presto. Che bella serata, in così buona compagnia eh? Un freddo secco che fa bene allo stomaco. E’ quello il vostro albergo? Hum! hum! Quasi quasi v’offrivo ospitalità in casa mia! –
E com’essa si stringeva all’uscio: – Eh, non abbiate paura! Che non voglio mica mangiarvi per forza. Non volete? Buona notte! –
Il maestro le aveva procurato due o tre indirizzi d’agenti teatrali ai quali l’aveva raccomandata. La presentò ad un impresario che montava un’operetta. Tutti rispondevano: – Pel momento non c’è nulla -. L’impresario soggiunge: – Bisogna vedere se vi è rimasta qualche altra cosa di bello, figliuola mia, perché la voce se n’è andata. Be’, be’, se avete di questi scrupoli non ne parliamo più! –
Ella tornava indietro così avvilita che il maestro si fece animo per dirle: – Sentite… E’ un pezzo che volevo dirvelo… Se avete bisogno di denaro… forestiera come siete… senza amici… senza aver altri conoscenti… Non son ricco, è vero… Ma quel poco che ho. No! no! non vi offendete. In imprestito, vedete! Come tra fratello e sorella!… –
Ella scoppiò a piangere.
– Dio mio! Vi ho forse offesa? Non intendevo offendervi, vi giuro. Se mi volete un po’ di bene anche voi!… Io ve ne voglio tanto!… Basta, basta, perdonatemi! Sia per non detto! Ma promettetemi almeno che se mai… il giorno in cui… Pensate che vi voglio bene… come un fratello… E vorrei che anche voi… –
Ella gli stringeva le mani, colle lagrime agli occhi, per dirgli di sì… che anche lei… che gli prometteva…
Ma piuttosto sarebbe morta. Da tutti, da tutti, prima che da lui! Glien’era riconoscente, sì! Avrebbe voluto anzi dirgli tante cose, per provarglielo, che non ci aveva più nessun altro in cuore… che quell’altro a poco a poco se n’era andato via, com’era andato lontano; e domandargli della donna che spesso veniva con lui al Caffè, e le dava una stretta al cuore… Delle sciocchezze, via! ma non sapeva da che parte incominciare. Egli sembrava sulle spine, ogni volta che erano insieme, guardava intorno, con aria inquieta; evitando d’incontrarla, nelle vie frequentate, scappando subito con un pretesto se c’era gente.
Uno dopo l’altro aveva prima impegnato i pochi oggetti che avessero qualche valore: gli orecchini, il braccialetto d’argento dorato, la poca roba d’estate, fino il baule dove la teneva. Tanto non poteva più andarsene. Poscia vendette le polizze dei pegni. Alla posta, l’ultima speranza degli sventurati in paese straniero, le rispondevano invariabilmente, due volte al giorno:
– Nulla! –
Una sera che ne usciva barcollante, incontrò il baritono, Arturo Gennaroni, sempre impellicciato, che le fece un gran saluto cerimonioso, levando in alto il cappello come se volesse dire evviva! Giusto voleva presentarle l’amico che era con lui – Temistocle Marangoni, il primo basso del mondo! – un uomo di mezza età, tutto capelli e barba, con un cappellone a cono, drappeggiato in un mantello grigio, e che sembrava che parlasse di sottoterra. – E dove corre, signora Edvige? Voleva sfuggirmi? Non è mica in collera con me, spero! –
Ella si scusava di non aver udito perché credeva che non dicesse a lei: – Io mi chiamo Assunta. Ma sul cartellone la padrona del Caffè pretendeva che quel nome non facesse…
– E’ vero, è vero. Anche il mio è un nome di guerra, per riguardi di famiglia, sa bene. Mio padre è il primo negoziante di Napoli. Laggiù hanno ancora dei pregiudizi… Sa bene… Veniamo con lei, se non le dispiace -.
Strada facendo aggiunse che era libero quella sera, perché la padrona del Caffè Nazionale l’aveva licenziato – una cabala che gli avevano inventato contro per gelosia di donne. Temistocle, lì, poteva dirlo. – Il basso agitava il barbone per attestarlo. Anche a lui avevano rubato la scrittura, quell’animale di Gigi Lotti, una scrittura di seimila franchi, viaggio intero pagato, col pretesto che la conferma al telegramma non era venuta. Ma gli voleva rompere il muso, la prima volta che l’incontrava alla birreria! Gennaroni, intanto che il suo amico si sfogava, chiedeva ad Assunta cosa avrebbe fatto della sua serata. – Si voleva andare al Concerto del Caffè Nazionale? Sentirebbero che porcherie! Lui se le sarebbe godute mezzo mondo, e si sarebbe fregate le mani magari se quella carogna della padrona fosse venuta ginocchioni a supplicarlo e ad offrirgli doppia paga. – Andiamo, andiamo. Pago io, Temistocle! Dei soldi, grazie a Dio, ce n’è sempre qui. Veniteci anche voi, bella Assuntina. Chissà che non troverete il fatto vostro? –
Sul tavolato, in mezzo al gran fumo della sala, una donna cogli occhi neri come avesse il colèra, e i pomelli color cinabro, nuda fino allo stomaco, strillava con voce rauca delle canzonette che facevano andare in visibil’io l’uditorio, schioccando le dita, e con una mossa dei fianchi che faceva svolazzare la sua gonnella corta sino ai legaccioli. Un vecchiotto, seduto in prima fila, col mento sul pomo dell’ombrello, si crogiolava dal piacere, ammiccando ai vicini, ridendo nella bazza, applaudendo anche col cranio calvo sino alle orecchie. Una modesta famigliuola, padre, madre e figliuoli in abbondanza, era venuta a solennizzare la festa al Caffè, ridendo saporitamente; solo la maggiore, una ragazzina magra e nera come un tizzone, dimenticava persino il sorbetto per ascoltare la cantatrice, sgranando degli occhi enormi, seria seria. Altri, nella sala, vociavano, picchiavano colle mazze ed i pugni sui tavolini, facevano un chiasso indiavolato, accompagnando il ritornello, interrompendolo con esclamazioni da trivio. Gennaroni ripeteva: – Ditemi poi se questa è arte! Ditemi se non è vera porcheria! – Tutt’a un tratto si vide la gente affollarsi davanti al palco, intorno a un omettino in tuba il quale gesticolava colle mani in aria. La donna invece si ostinava, col viso sfacciato, cercando cogli occhi nella folla i suoi protettori. Un tale, vestito da operaio, coi baffi grossi e la faccia dura, si arrampicò sul tavolato in mezzo ai fischi che assordavano, e prese la cantante per le spalle, spingendola verso due questurini in uniforme che s’erano fatti largo a furia di spintoni, e agitavano le braccia. Il gruppo scomparve nella folla, verso la cucina, fra un uragano di fischi, d’urli e di risate. Il baritono si dimenava come un ossesso, smanacciando, gridando: – Bravo! bis! – poi corse a stringere la mano al maestro, ancora sbalordito dinanzi al pianoforte.
– Che cagnara, eh! Ma la colpa non è tua, poveretto! Ci ho gusto per quella carogna della padrona, la quale pretendeva di averne le tasche piene di musica seria, lei e il suo pubblico. Come se non glielo avessimo fatto noi questo pubblico. E non le avessi fatto guadagnare più quattrini che non abbia capelli nella parrucca, quella strega! –
Intanto si sbracciava per farsi scorgere, gesticolando, gridando forte, calcandosi ogni momento la tuba sull’orecchio, posando di tre quarti, col bavero della pelliccia rialzato sino alle orecchie, malgrado il gran caldo, e un fazzoletto di seta al collo, come avesse avuto un tesoro da custodirvi.
– Dovresti farle intendere ragione, a quella stupida. Dovresti metterti in mezzo. S’è quistione di soldi, si può aggiustarsi. Non ho mai fatto questione di quattrini per l’arte. Ma bisogna concludere subito. Sì o no! Ho delle offerte magnifiche per l’estero. Domattina devo dare una risposta -.
Poi tornò al suo posto trionfante, facendosi largo nella folla. – Ah! ah! ve lo dicevo io! Ora tornano a pregarmi! Mi hanno offerto carta bianca. Hanno bisogno di me per fare andare la baracca! –
Il basso gongolava, come se si fosse trattato di lui, picchiava sul tavolino per ordinare altra birra. – Ogni conoscente che entrava nel Caffè lo invitava a prendere qualche cosa, facendo segno coll’ombrello, chiamando ad alta voce. – Tienti sulla tua, sai, Gennaroni! Fatti tirar le orecchie, prima di dir di sì! – L’altro scrollava il capo, minaccioso, come a dire: – Vedrete! vedrete! – Poi si alzava in piedi e faceva le presentazioni in regola: – Romolo Silvani, primo ballerino. – Augusto Baracconi, primo tenore assoluto, e suo fratello. – Ernesto Lupi, distinto pittore. – Fiasco completo, amici miei! Peccato che siate venuti tardi! – Essi, per cortesia, tornavano a pregarlo che narrasse. Ma Baracconi fratello stava col naso nel bicchiere, tutto intento a godersi il trattamento; Lupi disegnava delle caricature sul marmo del tavolino; il tenore diceva roba da chiodi di un collega sottovoce con Marangoni, e Silvani, dall’altro lato, domandava se quella bella giovane appartenesse all’amico Gennaroni, lisciandosi i baffettini neri come la pece, accarezzando la chioma inanellata, componendo la faccetta incartapecorita a un risolino seduttore. Tutti quanti però, a ogni pezzo nuovo, quando Gennaroni atteggiava il viso a una boccaccia di disgusto, facevano coro per sdebitarsi coll’amico, battendo in terra coi tacchi e coi bastoni, vociando – basta! basta! – mettendosi a sghignazzare. Il baritono infine, vedendo che il maestro non osava prendere le sue parti, quasi fosse inchiodato al pianoforte, andò a salutare la padrona del caffè, colla scappellata alta, tutto gentilezze, mentre essa cambiava i gettoni e teneva d’occhio i garzoni che uscivano dalla cucina. In quella entrò il donnone del maestro, più accesa in viso che mai. Aveva udito il baccano dalla strada, mentre veniva a prendere Bebè.
– No, no, lui non ci ha colpa, – le dicevano gli amici.
Gennaroni, che tornava dal banco fuori di sé, aggiunse ch’era proprio un bebè, un pulcino bagnato, uno che non era capace di dir due parole per un amico. Le domandava ridendo se le capitava di dargli le sculacciate, qualche volta.
L’altra continuava a ridere, scrollando le piume del cappello. – No, no, era così buono il poveretto! proprio come un fanciullo! A lasciarlo fare se lo sarebbero mangiato vivo, certe sgualdrinelle che sapeva lei! – Infine se lo prese sotto il braccio, e se lo portò via. Gli altri se n’erano andati pure ad uno ad uno. Il basso protestò che correva a vedere se era giunto il telegramma, e piantò lì il bicchierone vuoto su di una pila di piattelli. Assunta rimaneva sbalordita, colla tazza a metà piena, il cappellino di paglia e la eterna cappa grigia che la facevano sembrare più misera. Nell’uscire barcollava perché non aveva preso altro tutto il giorno, quasi il chiasso le avesse dato alla testa. – Che avete? – chiese Gennaroni. – Eh, la birra! Non ci sarete avvezza! – Essa invece pensava a quella disgraziata che l’avevano mandata via coi questurini. – Non temete, no; che il pane non gli manca a quella lì… e il letto neppure! – conchiuse il baritono. Tirava vento, e cominciavano a cadere i primi goccioloni della pioggia. – Sentite, cara Assunta. Adesso dovreste fare una bella cosa: venirvene a casa mia a scacciare insieme la malinconia! Avete visto come fanno gli altri? Ciascuno colla sua ciascuna! Ci avete il vostro ciascuno voi? –
Ella non rispondeva, colla testa sconvolta, il cuore stretto da un’angoscia vaga, un senso di sconcerto nello stomaco, davanti agli occhi una visione confusa dell’albergatrice arcigna che voleva esser pagata, dell’impiegato postale che le rispondeva – nulla! -, dei visi sconosciuti in mezzo ai quali andava e veniva tutto il giorno, della donna enorme che si era portato il maestro sotto il braccio – intirizzita dalla tramontana, coi ginocchi che le si piegavano sotto. L’altro seguitava a stordirla chiacchierando, soffiandole sul viso le sue parole calde e il fumo del sigaro, stringendole forte il braccio sotto la pelliccia. Allo svoltare di un’altra via essa alzava gli occhi, e si guardava intorno, balbettando: – Dove andiamo? Dove andiamo? – come fuori di sé. Gennaroni le diceva adesso delle parole dolci e sonore che la stordivano: – vieni meco! Sol di rose, intrecciar ti vo’ la vita… – colla chiave che s’era levata di tasca aveva aperto un usciolino sgangherato. Nell’androne buio, prima d’accendere un fiammifero, se la strinse sul costato come nel melodramma, di tre quarti, un braccio sulla spalla e l’altro sotto l’ascella.
Là nel lettuccio magro e cencioso della cameraccia nuda che prendeva lume da un cortiletto puzzolente, ella gli narrò il povero romanzo della sua vita, per quel bisogno d’abbandono con cui gli si era data, mentre egli sbadigliava, cogli occhi gonfi, e l’alba insudiciava le pareti untuose, da cui pendevano appesi ai chiodi i costumi stinti da teatro. – Aveva amato un giovane che usciva dal Conservatorio, con due o tre spartiti pronti, e intanto s’era messo a dozzina in casa loro, per sessanta lire al mese, tutto compreso. Gli altri pigionali erano un professore, un impiegato al dazio, e due studenti. Sua sorella lavorava in un magazzino di guanti; il babbo era guardia municipale; lei gli avevano consigliato d’imparare il canto, che sarebbe stata una fortuna per tutti, e le avevano fatto lasciare anche il mestiere d’orlatrice, col quale si sciupava le mani, per novanta centesimi al giorno. Finché giungevano le vacanze, nove mesi dell’anno, si stava piuttosto bene. Poi quando gli studenti se ne partivano, il professore andava a fare i bagni, e l’impiegato desinava in un’osteria fuori porta per risparmiare i soldi dell’omnibus, si restringevano un po’ nelle spese, e il giovane del Conservatorio s’adattava con loro, proprio come uno della famiglia.
Le domeniche andavano a spasso insieme; qualche volta egli portava un bel cocomero, e si faceva festa, nel terrazzino. Soleva dire scherzando: – Ce ne ricorderemo poi, quando saremo ricchi, sora Assunta! – Era così buono! aveva negli occhi un non so che, come vedesse lontano tante cose, e diceva che l’arte gli spingeva delle nuvole d’oro sconfinate nel pezzettino di cielo che si vedeva al di sopra del vicoletto, allungando il collo. La sera si metteva a sonare al buio, pratico com’era della tastiera, ed essa stava ad ascoltare più che poteva, dietro l’uscio, quella bella musica che le penetrava al cuore come una dolcezza.
Egli che se n’era accorto infine, le diceva di tanto in tanto: – Le piace? dice davvero? – Voleva pure che Assunta gli cantasse la sua musica. Un giorno che la sua voce gli era piaciuta tanto, tanto che a lei stessa le sembrava fosse un’altra che cantasse, egli si alzò all’improvviso dal pianoforte, e la strinse fra le braccia, tutta tremante anche lei, senza sapere quel che si facessero.
La mamma, povera e santa donna, non ne seppe nulla. Allorché fu impossibile nascondere quello che era avvenuto, il giovane scappò al suo paese, per paura del babbo municipale. Ella ne fece una malattia mortale, durante la quale la mamma sola veniva a trovarla di nascosto. Un giorno le disse piangendo che lui se n’era andato via lontano, in Grecia, in Turchia, molto lontano insomma! Era svanita l’ultima speranza. All’ospedale, appena fu guarita, non vollero lasciarla. Il babbo aveva giurato che non l’avrebbe più ricevuta in casa sua. Un avventore della guantaia dove lavorava sua sorella le aveva procurato una scrittura di corista al Politeama. D’allora aveva girato il mondo, da un teatro all’altro, viaggiando in terza classe, dormendo in alberghi dove la notte venivano a bussarle all’uscio e a minacciarla, digiunando spesso per mantenersi onesta, passando lunghe ore nell’anticamera di un’agenzia, assediando il camerino dell’impresa per essere pagata, impegnando la roba d’estate per coprirsi l’inverno. A Mantova s’era ammalata d’angina, mentre provavano il Ruy Blas, e aveva perso la voce. La mamma era morta giusto mentre era all’ospedale. Il babbo s’era rimaritato. La sorella era andata via di casa per non stare colla matrigna.
– Un bel porco, quel tuo allievo del Conservatorio! te lo dico io! – conchiuse Gennaroni, stirandosi le braccia.
Ora pur troppo gli era cascata addosso quella tegola sul capo! per un momento di debolezza, per aver troppo cuore, e non trovare il verso di dirle: – Cara mia, ogni bel giuoco vuol durar poco! – Ella non se ne dava per intesa, aveva fatto lì il nido come una rondine. Una che non era neanche buona a stirargli i solini, o a fargli uno stufatino con patate. Giusto in quel momento poi che si trovava a spasso, e i soldi volavano come avessero le ali! Vero che la poveretta non si lagnava mai, fossero carezze o schiaffi, mangiava poco, e non chiedeva neppure un paio di scarpe. Ma, tanto, era un altro peso. Agli amici, che le facevano l’occhietto, Gennaroni, fra burbero e scherzoso, soleva dire: – Da cedere con ribasso, per liquidazione! –
Avevano preso a frequentare un caffeuzzo oscuro annesso al teatro, una specie di succursale dell’agenzia, dove bazzicavano soltanto gli artisti a spasso, che vi facevano un gran consumo di virginia ai ferri e d’acqua fresca, sparlando dei colleghi assenti, portandovi le prime notizie dei fiaschi, sempre a caccia di cinque lire, e giocando alle carte sulla parola. Gennaroni vi conduceva la sua amante di prima sera, per risparmiare il lume; la faceva sedere nel suo cantuccio, lì vicino alla stufa, dove nessuno andava a disturbarla, giacché il garzone del caffè era avvezzo a non seccar la gente se prima non lo chiamavano, e si metteva a giocare a scopone, oppure se ne andava pei suoi affari. Spesso le diceva: – Sai, mia cara, io non sono geloso! – Ma il primo ballerino si limitava a strizzarle l’occhio da lontano, col gomito appoggiato al banco, e il busto inarcato sotto la giacchetta bisunta. Marangoni, all’ombra del suo enorme cappellaccio, facendole il solletico colla barbona nel parlarle all’orecchio, le chiedeva, colla sua bella voce che sembrava venire di sotto il tavolino: – Quando verrà il mio quarto d’ora? – E Lupi diceva che voleva farle il ritratto, «se era tutt’oro quello che riluceva». – Oro di coppella, com’è vero iddio! – sghignazzava Gennaroni. Il tenore invece non parlava d’altro che di scritture e di telegrammi che aspettava; di cabale che gli montavano contro tutti i giorni; di gente a cui voleva rompere il muso. Dell’amore, lui, non sapeva che farne: era buono da mettere in musica soltanto; più d’una volta cogli amici aveva detto chiaro e tondo quel che pensava di Gennaroni, lui stupido che si era appiccicato quel cerotto, una che tossiva sempre, come se gli fossero mancate altre donne, a quel macaco!
Una sera capitò anche il maestro, il quale aveva fatto san Michele lui pure, ora che al Caffè Nazionale c’era un giocatore di bussolotti. Gennaroni si fregava le mani sbraitando: – Vedrete che chiuderanno fra due mesi! Ve lo dico io! – Assunta si sentì come un tuffo nel sangue appena vide entrare il maestro, e avrebbe desiderato che egli non si accorgesse di lei, nel suo cantuccio presso la stufa. Il poveraccio era così disfatto e scombussolato che non sapeva nemmeno come rispondere a tutti coloro che gli facevano ressa intorno. Poi, come la scorse, cogli occhi addosso a lui, andò a salutarla, domandandole come stava, se aveva trovato qualche cosa, nel tempo che non s’erano più visti. Pur troppo, anche lui non aveva trovato nulla!… se no glielo avrebbe fatto subito sapere!… Dopo che il maestro ebbe voltate le spalle, incominciarono le osservazione sul conto di lui. – Quello lì se ne rideva! – Era ben appoggiato! – Appoggiato a un vero pilastro! – Baracconi disse una parolaccia.
Verso la fine di dicembre gli avventori del Caffè del teatro sembravano ammattiti, formando dei crocchi animati, disputandosi fra di loro, cavando ogni momento dal portafogli lettere e telegrammi sudici, correndo sull’uscio, ogni volta che s’apriva, per vedere se giungeva un fattorino del telegrafo. Il domani di san Stefano erano tutti lì dalle sette, davanti la porta del Caffè, sotto la pioggia, coll’ombrello aperto, ansiosi, guardandosi in cagnesco fra di loro – delle facce nuove che si vedevano soltanto nelle grandi occasioni, pastrani senza pelo e stivaloni infangati, scialli messi a guisa di pled, cappelloni di donna e sottane che sgocciolavano sul marciapiedi.
Alcuni dei vecchi mancavano: il tenore, un basso, rimorchiatovi da poco dal Silvani, e due o tre altri, di cui i rimasti dicevano corna. Attraverso l’usciale si udiva come un brontolìo sordo di rivoluzione nello stanzone vuoto, dove il Lupi beveva a piccoli sorsi un Caffè caldo, schizzando la testata di un giornale davanti al garzone in maniche di camicia che gli si buttava addosso per vedere, col ventre sul tavolino.
Assunta, rimasta a casa, stava facendo cuocere due uova in una caffettiera posata sullo scaldino, quando udì picchiare all’uscio, e le comparve dinanzi il maestro all’improvviso – così in camiciuola com’era e ancor spettinata. Egli pure era sossopra, talché non si avvide nemmeno dell’imbarazzo di lei.
– Lei!… Lei qui! Come ha saputo?… – Gennaroni stesso. Siamo stati insieme -. Ella avvampò in viso, cercando macchinalmente i bottoni della camiciuola. – Venivo a portarle una buona notizia… Un mio amico che è incaricato di formare una compagnia pel Cairo… m’ha promesso di scritturarla.
– Ma… Non s’aprei… così lontano…
– No, no, bisogna risolversi piuttosto… Bisogna accettare.
– E’ che… dovrei parlarne prima a un’altra persona… Non potrei risolvermi da sola… così su due piedi… –
Il maestro le afferrò le mani, quasi per forza:
– Bisogna accettare! Dica di sì… E’ pel suo meglio! –
Essa non l’aveva mai visto a quel mondo. Allora, colla gola stretta da un’angoscia vaga, si fece animo per interrogarlo… Voleva sapere… – Gennaroni partirà stasera col diretto. Deve imbarcarsi a Genova domani, – disse infine il maestro. – Chi gliel’ha detto? – Lui stesso; lo sanno tutti -. La poveretta cercò una seggiola brancolando. – No! no!… Non può essere! Non mi ha detto nulla!… Stamattina ancora!… – Glielo dirà poi, quand’è il momento di partire… A che scopo tormentarla avanti tempo? – E’ vero! è vero!… –
Allora si mise a piangere cheta cheta nel grembiule. Poscia, quando fu un po’ più calma, si asciugò gli occhi, senza dir nulla, e si mise a preparargli la valigia, un bauletto di cuoio nero tutto strappi e scontrini di ferrovia: le camicie di flanella, la scatola dei polsini, le pantofole slabbrate, la pipa nella quale egli soleva fumare, il berretto di pelo che teneva in casa, i costumi da teatro appesi ai chiodi – ogni oggetto che toglieva dal solito posto si sentiva staccare pure dal seno qualche cosa, dinanzi a quelle pareti nude. Il maestro l’aiutava. Gennaroni, tornando a casa, li trovò in quelle faccende. – Bravi! Bravi! Gliel’hai detto? – In fondo era davvero un buon diavolaccio, penetrato sino al cuore dalla dolcezza con cui Assunta s’era rassegnata.
– Così buona! così giudiziosa, povera ragazza! Tutto l’opposto del tuo carabiniere, eh! –
Egli voleva anche abbracciarla dinanzi al maestro, strizzava l’occhio a costui perché li lasciasse soli. Ma Assunta gli faceva segno di non andarsene, cogli occhi gonfi di lagrime. – Non l’avrebbe dimenticata, no, finch’era al mondo! Del resto le montagne sole non s’incontrano. Intanto dava una mano anche lui per aiutarla, correndole dietro dal cassettone al letto, su cui era il baule, colle braccia piene di roba; voleva che andassero tutti e tre insieme a desinare al Caffè, l’ultima volta, e finir la giornata bene.
Il maestro si scusò. – Ah! ah! il carabiniere! – Però promise di trovarsi alla stazione. – Sì, sì, benone! le farai un po’ di compagnia. Poi mi affido a te per trovarle la scrittura. E’ un pulcino bagnato questa poverina, se non c’è chi l’aiuti! – Voleva lasciarle anche una ventina di lire, caso mai le abbisognassero… Ma essa si ribellò, per la prima volta. – Scusa! scusa! Dicevo caso mai non firmassi subito la scrittura… Ma non c’è bisogno d’andare in collera. L’ho fatto a fin di bene -. Ella si intenerì piuttosto. Per lei aveva fatto anche troppo! per tanto tempo! Al Caffè poi non le riescì di mandar giù un solo boccone, mentre egli mangiava per due e cercava di tenerla allegra. Le offerse anche di farle una sigaretta per scioglierle quel gruppo alla gola – roba d’isterismo.
Alla stazione c’era tutta la compagnia che partiva con lui. Dei poveri diavoli che litigavano coi facchini, due o tre prime parti che pigliavano i posti di seconda, colla borsetta ad armacollo, e le mamme dietro, cariche di fagotti e di scatole di cartone. Gennaroni disse alla sua amica:
– Tienti un po’ in disparte, come tu fossi col maestro -.
Così lo vide per l’ultima volta, col biglietto nel nastro del cappello, allegro e chiassone come al solito, salutando questo e quello. – Addio! Ciao! Buona fortuna! –
S’era preso anche in mano la gabbia del pappagallo di una compagna di viaggio. Dalla cancellata fuori la stazione lo videro sbracciarsi a collocare tutto il loro arsenale di scatole e cappellini mentre il treno fuggiva.
Di lui le rimase un bel ritratto in fotografia, formato gabinetto, in posa di tre quarti, colla bocca sorridente, la pelliccia sbottonata, un mazzetto di ciondoli sul ventre – e la sua brava dedica sotto: «Ricordo imperituro!».
In quanto alla scrittura non se ne fece nulla. L’impresario anzitutto, voleva belle ragazze e non dei cerotti come quella lì. – Le pare, caro maestro? – Il poveraccio non si diede vinto ancora; continuò ad arrabattarsi come un disperato per lei, correndo di qua e di là, raccomandandola a quanti conosceva. Ma ciascuno pensava ai propri casi in quel momento. Ora che Gennaroni aveva piantata la ragazza senza voce e senza quattrini, doveva essere un affar serio levarsi da quella pece, uno che vi si lasciasse prendere, per buon cuore o per altro.
Gli amici, quando essa capitava al Caffè per aspettare il maestro che doveva portare la risposta, se la battevano uno dopo l’altro, primo di tutti il Silvani, colla giacchetta più stretta che mai. Il garzone stesso, così prudente di solito, veniva ogni momento a strofinare il marmo del tavolino con un cencio, vedendo che non ordinava nulla. Fino il maestro, a poco a poco, scoraggiato di portarle sempre la stessa cattiva nuova, non si era fatto più vedere. Però essa gli aveva detto: – Non si affanni tanto, poveretto, ché qualcosa ho già trovato -.
E quando egli, facendosi rosso, era tornato sull’offerta di denaro, essa gli aveva risposto che non occorreva. A lui glielo avrebbe detto, davvero, di tutto cuore!
Una domenica, verso la fine di luglio, il maestro incontrò Assunta che usciva dalla bottega di un calzolaio. Essa avrebbe voluto evitarlo, ma l’altro già le si accostava col cappelluccio di paglia ritinto in mano. – Come va? Tanto tempo che non ci siamo più visti! – Assunta balbettava, cercando di nascondere un fagottino che portava, fattasi di brace in viso.
Il maestro cercava le parole anche lui: – Almeno un vermuttino. Qui a due passi, al solito Caffè!… – Essa non voleva, vestita a quel modo!… Infine si lasciò condurre a un tavol’inetto fuori dell’uscio, all’ombra del tendone. Dapprincipio stettero un po’ in silenzio, guardandosi in viso. Ella sembrava più grassa, disfatta, bianca come cera, con due enormi pèsche sotto gli occhi, e le mani pallide colle vene gonfie. Il giovanotto aveva la barba lunga, la biancheria sudicia, i calzoni sfrangiati che cercava di nascondere sotto il tavolino. A poco a poco Assunta gli narrò che s’era acconciata colla padrona stessa della casa; pensava alle spese, riguardava la biancheria, teneva d’occhio la pensione, e ci aveva in compenso vitto e alloggio.
Il tempo che avanzava poi s’era rimessa al suo mestiere d’orlatrice. – Con lei non mi vergogno, guardi! – Anche lui fece delle vaghe confidenze: le cose non gli erano andate sempre bene; la stagione morta si portava via quelle poche lezioni… – Accennò pure di aver cambiato alloggio… – Del resto i suoi abiti parlavano per lui. Assunta non volle altro che un caffè di quattro soldi. Egli invece ordinò un giornale, un giornale qualunque, tanto, seguitavano a discorrere con un senso invincibile di malinconia, che pure aveva la sua dolcezza. Di tratto in tratto si guardavano negli occhi, e ripetevano con un sorriso triste: – Guarda che piacere! –
Si udiva parlare a voce alta nel Caffè; e degli scoppi di risa, delle discussioni tempestose, accompagnate dalla stessa nota bassa del Marangoni che trinciava da caporione.
Assunta, allungando il collo dentro l’usciale, lo vide seduto in mezzo a un crocchio di sfaccendati, dinanzi ad un vassoio di bicchieri vuoti e una bottiglia d’acqua di seltz, con un vestito nuovo del Bocconi e la barba tagliata a punta come un damerino. Da lì a un po’ se ne uscì fuori, seguìto dagli amici che gli facevano codazzo. Silvani persino lo tirò in disparte sul marciapiede opposto, supplicandolo sottovoce con tutta la persona umile. Il basso scrollava le spalle e il capo, colla barba dura come una spazzola. Infine volse un’occhiata sprezzante verso il maestro, il quale s’era fatto pallido al vederlo, e non l’aveva salutato, e cavò fuori il borsellino, scantonando seguìto dal ballerino piegato in due. Passava della gente in abito da festa; delle famigliuole intere che andavano a sentir la musica al giardino pubblico. Poscia, di tratto in tratto, succedeva il silenzio grave delle ore calde della domenica.
Infine Assunta e il maestro lasciarono il Caffè, e si avviarono ai Boschetti, rasente al muro, nella striscia d’ombra che orlava il marciapiedi. Assunta aveva detto ch’era libera fino a sera, e anch’esso non temeva più di farsi vedere insieme a lei. Il largo viale ombroso era deserto. Di tanto in tanto solo qualche coppia d’innamorati che passeggiavano sotto i platani, cercando i sedili più remoti. Anch’essi… Le ore scorrevano e non sapevano risolversi a lasciarsi. – Ah! se ci fossimo conosciuti prima! – esclamò infine il maestro.
Ella alzò gli occhi su di lui, si fece rossa, e li chinò di nuovo. Il maestro giocherellava col fagottino che Assunta teneva sulle ginocchia.
– O piuttosto se avessi fatto il calzolaio!… No… dico così… Son delle giornate nere… Passeranno! – Chiamò uno che andava vendendo dell’acqua fresca, in un barilotto attorniato di bicchieri, e offrì da bere anche a lei. L’uomo andò a mettersi in fondo al viale, col barilotto posato a terra, come una macchietta nera nel verde. Sembrava di essere a cento miglia dalla città, nell’ombra e nel silenzio. Poco per volta il maestro le disse che l’aveva amata, sì, proprio! tante volte quel segreto gli era spirato sulle labbra! Essa lo sapeva, accennando col capo che teneva chino in aria di rassegnazione dolorosa, la quale scorgevasi anche dall’abbandono di tutta la persona, dalla treccia allentata che le si allungava sul collo. – Allora perché… perché ci siamo taciuti?… – La poveretta lo guardò in tal modo, attraverso le lagrime che le scendevano chete chete per le gote, ch’egli abbassò gli occhi.
– Sì, è vero, fu il destino! Quell’altra non sa neppur il sacrificio che le ho fatto… per debolezza, per bontà di cuore… e c’è chi dice per un tozzo di pane! Me lo merito. Ora essa m’ha piantato pel Marangoni che la batte e fa lo strozzino coi suoi denari. Come ho dovuto sembrarle spregevole, dica!…
– No… no… Era destino!… Anch’io!…
Però sentivano entrambi una gran dolcezza nel dirsi tutto ciò, seduti accanto sullo stesso banco. Egli aprì la bocca due o tre volte per farle una domanda che non osava. Poi strappò un ramoscello che pendeva, e si mise a sminuzzarlo in silenzio. Assunta più di una volta s’era mossa per andarsene, senza averne la forza.
La sera era venuta prima che se ne fossero accorti, una sera tepida e dolce. Assunta stava col capo chino, col seno gonfio, le mani pallide e venate d’azzurro sulle ginocchia, come ascoltando le parole che lui non osava pronunziare. Infine egli le prese in silenzio una di quelle mani, in un modo eloquente. Per tutta risposta ella aprì le braccia che si teneva sulle ginocchia, con un gesto desolato, e scotendo il capo: – No, guardi… non posso! –
A quell’atto, per la prima volta, il maestro la fissò in un certo modo che diceva d’aver capito ogni cosa, e glielo disse nell’occhiata ingenua e desolata che le posò in grembo.
– Almeno le ha scritto? – balbettò infine.
Ella rispose di no chinando il capo rassegnato.
Gennaroni ricomparve al Caffè verso il principio dell’inverno, masticando delle pastiglie, col fez come un turco, e le tasche piene di bottigline di marsala, per le quali ebbe a dire agli amici che volevano fargli festa:
– Adagio! adagio, miei cari! Questi qui sono campioni! Voialtri non mi darete certo delle commissioni, eh!… – To’! il maestro! Ben trovato! So, so, briccone! So che me l’hai portata via, traditore! Dico per scherzo, sai! Non sono in collera con te, tutt’altro! Non siamo mica dei piccioni per far sempre lo stesso paio! Specie uno come me che ha da girare il mondo, ora che mi son dato al commercio. Non c’è altro per guadagnar quattrini, te lo dico io! Tutto il resto… roba da pezzenti! Tanti saluti ad Assunta. Oppure, no, non le dir nulla. A buon rendere -.