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Chi è Arturo Bandini
Arturo Bandini è il protagonista del romanzo “Chiedi alla polvere” di John Fante. Bandini è un giovane scrittore italo-americano che vive a Los Angeles durante la Grande Depressione degli anni ’30. Il personaggio di Bandini è largamente autobiografico, poiché Fante stesso ha tratto ispirazione dalla propria esperienza di immigrato italiano negli Stati Uniti.
Bandini è un individuo complesso, pieno di contraddizioni. Da un lato, è pieno di ambizioni letterarie e sogna di diventare un grande scrittore; dall’altro, è tormentato dall’insicurezza e dall’autodubbio. È in lotta costante con se stesso e con il mondo che lo circonda, cercando di trovare la sua identità e il suo posto nella società.
Nel corso del romanzo, vediamo Bandini navigare attraverso una serie di relazioni complicate, soprattutto con Camilla Lopez, una giovane messicana che diventa il suo oggetto d’amore non corrisposto. La storia segue le sue vicissitudini mentre cerca di affermarsi come scrittore e come uomo, affrontando le sfide della povertà, della discriminazione e della solitudine.
Bandini rappresenta molti degli stessi temi e conflitti che Fante ha sperimentato nella sua vita, rendendolo un personaggio ricco e affascinante che continua a resonare con i lettori oggi. La sua lotta per trovare la propria voce artistica e la sua identità personale lo rendono un personaggio iconico nella letteratura americana del XX secolo.
Conclusione del romanzo
Il mio libro uscì una settimana dopo. Per un po’ fu divertente. Entravo nelle librerie e lo vedevo, confuso tra migliaia di altri; il mio libro, le mie parole, il mio nome, la mia ragione di vita. Ma non era più la sensazione che avevo provato quando avevo visto pubblicato Il cagnolino rise sulla rivista di Hackmuth. Quella era sparita per sempre. Non avevo più avuto notizie di Camilla. Le avevo lasciato solo quindici dollari;
non potevano durarle più di dieci giorni. Sapevo che mi avrebbe telegrafato appena fosse rimasta senza soldi. Camilla e Willie… che ne era di loro? Ricevetti una cartolina da Sammy. La trovai nella cassetta delle lettere, un pomeriggio. Diceva: Caro signor Bandini, quella ragazza messicana è qui e lei sa benissimo che non mi va di avere delle
donne tra i piedi. Se è la sua ragazza è meglio che se la venga a prendere, perché mi dà fastidio. Sammy. Il timbro postale era quello di due giorni prima. Feci il pieno di benzina, buttai una copia del mio libro sul sedile anteriore e partii alla volta della baracca di Sammy, nel deserto Mojave. Arrivai che era mezzanotte passata. C’era luce
all’unica finestra. Bussai e lui mi aprì. Prima ancora di parlare, mi guardai attorno. Lui tornò a sedersi accanto alla lampada, raccolse da terra un rotocalco e continuò a leggere, senza dire una parola. Di Camilla, nessuna traccia. «Dov’è?» gli domandai. «E chi diavolo lo sa?
Se n’è andata.» «Vorrai dire che l’hai sbattuta fuori.» «Non la reggo qui attorno. Sono malato.» «Dov’è andata?» Indicò con il pollice verso sud-est. «Da quella parte.» «Ma lì c’è il deserto.» Si strinse nelle spalle. «Si è portata con sé il cagnolino. Carino, quel botolo.» «Quando è stato?» «Domenica sera.» «Domenica!» esclamai. «Cristo, sono passati
tre giorni! Aveva con sé da mangiare o da bere?» «Del latte» rispose.
«Una bottiglia di latte per il cane.» Uscii all’aperto e guardai verso sud-ovest. Faceva molto freddo, la luna era alta e le stelle splendevano a grappoli nella cupola blu del cielo. A sud, a ovest e a est si stendeva una landa desolata, disseminata di rialzi pietrosi, di sterpi e di scuri alberi di yucca. Tornai alla baracca. «Vieni fuori a indicarmi
da che parte è andata» dissi a Sammy. Abbassò la rivista e fece cenno verso sud-est. «Di là» rispose. Gli strappai il giornale di mano, lo afferrai per il collo e. lo trascinai fuori, nel buio della notte. Non pesava niente e traballò sotto la mia spinta. «Avanti, fammi vedere»
ripetei. Arrivammo fino al limite dello spiazzo antistante la baracca.
Lui borbottò che era malato e che io non avevo diritto di trattarlo così, e intanto si risistemava la camicia, stringendosi la cintura. «Su, fammi vedere dov’è andata» ripetei. Lui me lo indicò. «L’ho vista sparire oltre quella cresta.» Lo piantai lì e percorsi il mezzo chilometro che mi separava dal punto indicato. Faceva così freddo che dovetti chiudermi la giacca attorno al collo. Il suolo che calpestavo era composto da grossa sabbia scura mista a sassolini e forse, in qualche lontana era geologica, aveva fatto da fondo a un mare. Oltre la cresta ce n’era un’altra, e poi altre ancora, all’infinito. Il terreno sabbioso non recava alcuna impronta; sembrava che di lì non fosse mai passato nessuno. Continuai a camminare, avanzando a fatica sul suolo che cedeva e si ricostituiva, ricoprendo le mie orme di uno spolverìo di sabbia grigia. Dopo circa tre chilometri, mi sedetti a riposare su un sasso rotondo. Nonostante il freddo, sudavo. La luna si muoveva verso nord. Dovevano essere circa le tre. Avevo camminato senza fermarmi,
anche se lentamente, ma le creste continuavano a succedersi l’una all’altra, le colline subentravano alle colline e solo i cactus e le altre piante del deserto permettevano di distinguere la terra dal cielo.
Cercai di ricordarmi le carte della zona. Non c’erano strade né città, e nemmeno tracce di vita umana di lì all’altra estremità del deserto;
nulla se non desolazione per chilometri e chilometri. Mi alzai e mi rimisi in cammino. Ero intorpidito dal freddo, ma continuavo a sudare. A oriente il grigio del cielo si illuminò, assumendo una sfumatura rosata e poi più rossa, finché la palla di fuoco sorse da dietro le colline nerastre. Una suprema indifferenza ricopriva il deserto e l’eterno
rinnovarsi dell’alba, e tuttavia il mistero di quelle colline, il loro segreto consolatore rendevano la morte senza importanza. Si poteva morire, ma il deserto avrebbe mantenuta segreta la nostra morte e ne avrebbe spazzato il ricordo col vento, il caldo e il freddo. Era inutile. Come fare a trovarla? E perché cercarla? Cosa potevo offrirle
di diverso da quel mondo brutale che l’aveva già stroncata una volta?
Ripresi il cammino in senso inverso, triste, nella triste luce dell’alba. Lei apparteneva alle colline, ora, e le colline l’avrebbero nascosta. Dovevo lasciarla tornare alla loro solitudine, lasciarla vivere con i sassi e con il cielo, lasciare che il vento giocasse con i suoi capelli fino alla fine. Era quella la sua strada. Il sole era alto quando tornai alla baracca. Faceva già caldo. Sammy era sulla soglia.
«Trovata?» mi domandò. Non gli risposi. Ero stanco. Rimase a osservarmi per un istante, poi sparì all’interno. Udii scorrere il chiavistello. Si cominciava a scorgere, in distanza, il luccichio tremolante della canicola. Risalii il sentiero fino alla Ford. Presi la copia del mio libro, del mio primo libro, la aprii e scrissi a matita sul risguardo: A Camilla, con amore, Atturo. Percorsi un centinaio di metri verso sud-est e, con tutta la forza che possedevo, gettai il libro nella direzione che lei aveva preso. Poi montai in macchina, avviai il motore e partii per Los Angeles.