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28 Dicembre 2019Arturo Bandini, un giovane inerme e narcisista, vive nella povertà a Los Angeles, sperperando denaro e sognando di diventare uno scrittore di successo, isolato nella sua squallida stanza d’albergo.
La sua vita prende una svolta quando incontra Camilla Lopez, una ragazza di discendenza messicana. Arturo si trova coinvolto in un amore disperato e non corrisposto, che lo tormenta tra dubbi e tormenti, ma lui resta saldo nella sua convinzione di avere un talento letterario eccezionale, trasformando ogni esperienza in materia per le sue storie, alimentando così il suo ego. Solo alla fine, dopo aver perso definitivamente Camilla, la realtà della vita sovrasta la sua passione letteraria, e nella sua opera finale, gettata nel deserto Mojave, riversa tutta la sua rabbia e disillusione per la sconfitta dei suoi sogni di felicità.
“Chiedi alla polvere”, il capolavoro ampiamente autobiografico di John Fante, oscillante tra l’ironia, la commedia e la tenerezza lirica, racconta la storia di Arturo Bandini. Pubblicato nel 1939, ottenne considerevole apprezzamento, ma la vera celebrità per l’autore arrivò solo dopo la sua morte, quando la sua opera fu riscoperta a livello mondiale, confermando il suo posto tra i grandi della narrativa americana del Novecento.
John Fante, nato a Denver nel 1911 da una famiglia di recenti emigrati italiani, trascorse la sua gioventù nella povertà. Si trasferì a Los Angeles nel 1930, dove svolse vari lavori per poter continuare a scrivere. Dopo il successo di critica dei suoi primi romanzi, trovò impiego a Hollywood come sceneggiatore. Benché inizialmente dimenticato come scrittore, fu rivalutato nel 1982 con la pubblicazione del romanzo “Sogni di Bunker Hill”, che riportava il personaggio di Arturo Bandini. Tra le sue altre opere, si ricordano “Una vita piena”, “La confraternita del Chianti” e “La strada per Los Angeles”.
Incipit del romanzo
Una sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d’albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell’albergo. O pagavo o me ne andavo: così diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce e andandomene a letto.
Al mattino mi svegliai, decisi che avevo bisogno di un po’ di esercizio fisico e cominciai subito. Feci parecchie flessioni, poi mi lavai i denti. Sentii in bocca il sapore del sangue, vidi che lo spazzolino era colorato di rosa, mi ricordai cosa diceva la pubblicità, e decisi di uscire a prendermi un caffè.
Andai al solito ristorante, mi sedetti su uno sgabello davanti al bancone e ordinai un caffè. Il sapore era più o meno quello ma, nel complesso, la bevanda non valeva quello che costava. Mentre ero lì seduto mi fumai un paio di sigarette, lessi i cartelloni che riportavano i risultati delle partite del-l’American League, evitando con cura
quelli della National League, e notai con soddisfazione che Joe DiMaggio teneva ancora alto l’onore degli italiani, perché era in testa alla classifica dei battitori. Un grande battitore, quel DiMaggio. Uscii dal ristorante, mi immobilizzai davanti a un immaginario lanciatore e battei la palla, segnando un punto a mio favore.
Poi mi incamminai verso Angel’s Flight, domandandomi come avrei passato la giornata. Non avevo niente da fare e così decisi di andarmene a zonzo
per la città.
Mi avviai lungo Olive Street e oltrepassai un caseggiato giallo, impregnato come una carta assorbente della nebbia notturna, e pensai ai miei amici Etnie e Carl, che venivano da Detroit e avevano vissuto lì, e mi ricordai di quella sera in cui Carl aveva picchiato Ethie perché aspettava un bambino e lui non voleva figli. Comunque il bambino era arrivato e la storia era finita lì. Mi venne in mente l’interno del loro appartamento, che puzzava di topi e di polvere, e le donne anziane che stavano a sedere nell’ingresso nei pomeriggi di calura, e una in particolare, che aveva un bel paio di gambe. Pensai anche all’uomo dell’ascensore, un fallito di Milwaukee, che grugniva immancabilmente quando gli si diceva il numero del piano a cui si era diretti, come se, tra tanti, quello fosse il peggiore. Rividi il vassoio colmo di panini e il pacco di rotocalchi che si portava sempre appresso.
Discesi lungo Olive Street, oltre le orrende casupole in legno che trasudavano storie di omicidio, fino all’Auditorio della Filarmonica e mi tornò in mente quella volta che lì c’ero andato con Helen per sentire il gruppo corale dei Cosacchi del Don. Mi ero annoiato a morte e proprio per questo avevamo litigato. Lei portava un abito bianco, che mi
procurava una fitta di piacere tutte le volte che lo toccavo. Oh, quella Helen,.. ma non è il momento. Mi ritrovai all’incrocio tra la Quinta e Olive, dove lo sferragliare dei grandi tram mi rodeva le orecchie, e l’odore della benzina velava le palme di tristezza; il marciapiede nero era ancora bagnato per la nebbia notturna.
Arrivai al Biltmore Hotel, davanti al quale stazionava una lunga fila di taxi con gli autisti che dormivano al posto di guida, tutti, tranne quello che era di fronte alla porta principale. Cominciai a pensare a loro, a chi erano e a cosa sapevano, e mi ricordai di quella volta che uno di loro ci aveva allungato un indirizzo, a Ross e a me, sogghignando con aria maliziosa, e poi ci aveva portato a Terapie Street, di tanti posti che c’erano, dove avevamo trovato solo due bruttone e Ross aveva concluso, mentre io ero rimasto nel salottino a far andare il fonografo, Impaurito e solo.
Oltrepassai il portiere del Biltmore e lo odiai subito, lui e i suoi galloni dorati, il suo metro e ottanta e la sua dignità, quando un’automobile nera si fermò accanto al marciapiede e ne smontò un tizio.
Aveva l’aria di essere ricco. Dopo di lui scese una donna ed era bella, portava una pelliccia di volpe argentata e quando attraversò il marciapiede e varcò le porte girevoli fu come una musica. Cosa non darei per godermela un po’, pensai, mi basterebbe un giorno e una notte, ma proseguii e lei non fu più che un sogno, mentre il suo profumo indugiava ancora nell’aria umida del mattino.
Mi incantai davanti alla vetrina di un negozio di pipe e ci rimasi un sacco di tempo, mentre il mondo intero spariva a eccezione di quella vetrina e delle pipe. Le fumai una per una, immaginando di essere un grande scrittore e di scendere da una grossa auto nera con un’elegante pipa di radica in bocca e in mano un bastone da passeggio, seguito dalla donna con la volpe argentata, visibilmente orgogliosa di me. Firmammo il registro dell’albergo, poi ordinammo un cocktail, ballammo un po’, prendemmo un altro cocktail e io recitai qualche strofa in sanscrito, e la vita mi sembrava meravigliosa perché ogni due minuti una fata mi fissava estasiata e io, il grande scrittore, ero costretto a farle un autografo sul menù, rendendo pazza di gelosia la mia compagna con la volpe argentata.
Los Angeles, dammi qualcosa di te! Los Angeles, vienimi incontro come ti vengo incontro io, i miei piedi sulle tue strade, tu, bella città che ho amato tanto, triste fiore nella sabbia.