Terze prove di Scienza delle finanze
27 Gennaio 2019Divina Commedia
27 Gennaio 2019Alessandro Manzoni
ADELCHI
SCENA SECONDA
Notte. Interno d’un battifredo sulle mura di Pavia. Un’armatura nel mezzo
GUNTIGI, AMRI
GUNTIGI
Amri, sovvienti di Spoleti?
AMRI
E posso
Obbliarlo, signor?
GUNTIGI
D’allor che, morto
Il tuo signor, solo, dai nostri cinto,
Senza difesa rimanesti? Alzata
Sul tuo capo la scure, un furibondo
Già la calava; io lo ritenni: ai piedi
Tu mi cadesti, e ti gridasti mio.
Che mi giuravi?
AMRI
Ubbidienza e fede
Fino alla morte. – O mio signor, falsato
Ho il giuro mai?
GUNTIGI
No; ma l’istante è giunto
Che tu lo illustri con la prova.
AMRI
Imponi.
GUNTIGI
Tocca quest’armi consacrate, e giura
Che il mio comando eseguirai; che mai,
Né per timor né per lusinghe, fia,
Mai, dal tuo labbro rivelato.
AMRI (ponendo le mani sull’armi)
Il giuro:
E se quandunque mentirò, mendico
Andarne io possa, non portar più scudo,
Divenir servo d’un Romano.
GUNTIGI
Ascolta.
A me commessa delle mura, il sai,
E’ la custodia; io qui comando, e a nullo
Ubbidisco che al re. Su questo spalto
Io ti pongo a vedetta, e quindi ogn’altro
Guerriero allontanai. Tendi l’orecchio,
E osserva al lume della luna; al mezzo
Quando la notte fia, cheto vedrai
Alle mura un armato avvicinarsi:
Svarto ei sarà… Perché così mi guardi
Attonito? egli è Svarto, un che tra noi
Era da men di te; che ora tra i Franchi
In alto sta, sol perché seppe accorto
E segreto servir. Ti basti intanto,
Che amico viene al tuo signor costui.
Col pomo della spada in sullo scudo
Sommessamente ei picchierà: tre volte
Gli renderai lo stesso segno. Al muro
Una scala ei porrà: quando fia posta,
Ripeti il segno; ei saliravvi: a questo
Battifredo lo scorgi, e a guardia ponti
Qui fuor: se un passo, se un respiro ascolti,
Entra ed avvisa.
AMRI
Come imponi, io tutto
Farò.
GUNTIGI
Tu servi a gran disegno, e grande
Fia il premio.
(Amri parte)
SCENA TERZA
GUNTIGI
Fedeltà? – Che il tristo amico
Di caduto signor, quei che, ostinato
Nella speranza, o irresoluto, stette
Con lui fino all’estremo, e con lui cadde,
Fedeltà! fedeltà! gridi, e con essa
Si consoli, sta ben. Ciò che consola,
Creder si vuol senza esitar. – Ma quando
Tutto perder si puote, e tutto ancora
Si può salvar; quando il felice, il sire
Per cui Dio si dichiara, il consacrato
Carlo un messo m’invia, mi vuole amico,
M’invita a non perir, vuol dalla causa
Della sventura separar la mia…
A che, sempre respinta, ad assalirmi
Questa parola fedeltà ritorna,
Simile all’importuno? e sempre in mezzo
De’ miei pensier si getta, e la consulta
Ne turba? – Fedeltà! Bello è con essa
Ogni destin, bello il morir. – Chi ‘l dice?
Quello per cui si muor. – Ma l’universo
Seco il ripete ad una voce, e grida
Che, anco mendico e derelitto, il fido
Degno è d’onor, più che il fellon tra gli agi
E gli amici. – Davver? Ma, s’egli è degno,
Perché è mendico e derelitto? E voi
Che l’ammirate, chi vi tien che in folla
Non accorriate a consolarlo, a fargli
Onor, l’ingiurie della sorte iniqua
A ristorar? Levatevi dal fianco
Di que’ felici che spregiate, e dove
Sta questo onor fate vedervi: allora
Vi crederò. Certo, se a voi consiglio
Chieder dovessi, dir m’udrei: rigetta
L’offerte indegne; de’ tuoi re dividi,
Qual ch’ella sia, la sorte. – E perché tanto
A cor questo vi sta? Perché, s’io cado,
Io vi farò pietà ; ma se, tra mezzo
Alle rovine altrui, ritto io rimango,
Se cavalcar voi mi vedrete al fianco
Del vincitor che mi sorrida, allora
Forse invidia farovvi; e più v’aggrada
Sentir pietà che invidia. Ah! non è puro
Questo vostro consiglio. – Oh! Carlo anch’egli
In cor ti spregerà. – Chi ve l’ha detto?
Spregia egli Svarto, un uom di guerra oscuro,
Che ai primi gradi alzò? Quando sul volto
Quel potente m’onori, il core a voi
Chi ‘l rivela? E che importa? Ah! voi volete
Sparger di fiele il nappo, a cui non puote
Giungere il vostro labbro. A voi diletta
Veder grandi cadute, ombre d’estinta
Fortuna, o favellarne, e nella vostra
Oscurità racconsolarvi: è questo
Di vostre mire il segno: un più ridente
Splende alla mia; né di toccarlo il vostro
Vano cl’amor mi riterrà. Se basta
I vostri plausi ad ottener, lo starsi
Fermo alle prese col periglio, ebbene,
Un tremendo io ne affronto: e un dì s’aprete
Che a questo posto più mestier coraggio
Mi fu, che un giorno di battaglia in campo.
Perché, se il rege, come suol talvolta,
Visitando le mura, or or qui meco
Svarto trovasse a parlamento, Svarto,
Un di color, ch’ei traditori, e Carlo
Noma Fedeli… oh! di guardarsi indietro
Non è più tempo: egli è destin, che pera
Un di noi due; far deggio in modo, o Veglio,
Ch’io quel non sia.
SCENA QUARTA
GUNTIGI, SVARTO, AMRI
SVARTO
Guntigi!
GUNTIGI
Svarto!
(ad Amri)
Alcuno
Non incontrasti?
AMRI
Alcun.
GUNTIGI
Qui intorno veglia.
(Amri parte)
SCENA QUINTA
GUNTIGI, SVARTO
SVARTO
Guntigi, io vengo, e il capo mio commetto
Alla tua fede.
GUNTIGI
E tu n’hai pegno; entrambi
Un periglio corriamo.
SVARTO
E un premio immenso
Trarne, sta in te. Vuoi tu fermar la sorte
D’un popolo e la tua?
GUNTIGI
Quando quel Franco
Prigion condotto entro Pavia, mi chiese
Di segreto parlar, messo di Carlo
Mi si scoverse, e in nome suo mi disse
Che l’ira di nemico a volger pronto
In real grazia egli era, e in me speranza
Molta ponea; che ogni mio danno avria
Riparato da re; che tu verresti
A trattar meco; io condiscesi: un pegno
Chiese da me; tosto de’ Franchi al campo
Nascosamente il mio figliuol mandai
Messo insieme ed ostaggio; e certo ancora
Del mio voler non sei? Fermo è del pari
Carlo nel suo?
SVARTO
Dubbiar ne puoi?
GUNTIGI
Ch’io sappia
Ciò ch’ei desia, ciò ch’ei promette. Ei prese
La mia cittade, e ne fe’ dono altrui;
Né resta a me che un titol vano.
SVARTO
E giova
Che dispogliato altri ti creda, e quindi
lmplacabile a Carlo. Or sappi; il grado
Che già tenesti, tu non l’hai lasciato
Che per salir. Carlo a’ tuoi pari dona
E non promette: Ivrea perdesti: il Conte,
Prendi,
(gli porge un diploma)
sei di Pavia.
GUNTIGI
Da questo istante
Io l’ufizio ne assumo; e fiane accorto
Dall’opre il signor mio. Gli ordini suoi
Nunziami, o Svarto.
SVARTO
Ei vuol Pavia; captivo
Vuole in sua mano il re; l’impresa allora
Precipita al suo fin. Verona a stento
Chiusa ancor tiensi: tranne pochi, ognuno
Brama d’uscirne, e dirsi vinto: Adelchi
Sol li ritien; ma quando Carlo arrivi,
Vincitor di Pavia, di resistenza
Chi parlerà? L’altre città che sparse
Tengonsi, e speran nell’indugio ancora,
Cadon tutte in un dì, membra disciolte
D’avulso capo: i re caduti, è tolto
Ogni pretesto di vergogna: al duro
Ostinato ubbidir manca il comando:
Ei regna, e guerra più non v’è.
GUNTIGI
Sì, certo
Pavia gli è d’uopo; ed ei l’avrà: domani,
Non più tardi, l’avrà. Verso la porta
Occidental con qualche schiera ei venga:
Finga quivi un assalto; io questa opposta
Terrò sguernita, e vi porrò sol pochi
Miei fidi: accesa ivi la mischia, a questa
Ei corra; aperta gli sarà. – Ch’io, preso
Il re consegni al suo nemico, questo
Carlo da me non chieda; io fui vassallo
Di Desiderio, in dì felici, e il mio
Nome d’inutil macchia io coprirei.
Cinto di qua, di là, lo sventurato
Sfuggir non può.
SVARTO
Felice me, che a Carlo
Tal nunzio apporterò! Te più felice,
Che puoi tanto per lui! – Ma dimmi ancora:
Che si pensa in Pavia? Quei che il crollante
Soglio reggere han fermo, o insieme seco
Precipitar, son molti ancora? o all’astro
Trionfator di Carlo i guardi alfine
Volgonsi e i voti? e agevol fia, siccome
L’altra già fu, questa vittoria estrema?
GUNTIGI
Stanchi e sfidati i più, sotto il vessillo
Stanno sol per costume: a lor consiglia
Ogni pensier di abbandonar cui Dio
Già da gran tempo abbandonò; ma in capo
D’ogni pensier s’affaccia una parola
Che li spaventa: tradimento. Un’altra
Più saggia a questi udir farò: salvezza
Del regno; e nostri diverran: già il sono.
Altri, inconcussi in loro amor, da Carlo
Ormai nulla sperando…
SVARTO
Ebben, prometti:
Tutti guadagna.
GUNTIGI
Inutil rischio ei fia.
Lascia perir chi vuol perir; senz’essi
Tutto compir si può.
SVARTO
Guntigi, ascolta.
Fedel del Re de’ Franchi io qui favello
A un suo Fedel; ma Longobardo pure
A un Longobardo. I patti suoi, lo credo,
Carlo terrà; ma non è forse il meglio
Esser cinti d’amici? in una folla
Di salvati da noi?
GUNTIGI
Fiducia, o Svarto,
Per fiducia ti rendo. Il dì che Carlo
Senza sospetto regnerà, che un brando
Non resterà che non gli sia devoto…
Guardiamci da quel dì! Ma se gli sfugge
Un nemico, e respira, e questo novo
Regno minaccia, non temer che sia
Posto in non cal chi glielo diede in mano.
SVARTO
Saggio tu parli e schietto. – Odi: per noi
Sola via di salute era pur quella
Su cui corriamo; ma d’inciampi è sparsa
E d’insidie: il vedrai. Tristo a chi solo
Farla vorrà. – Poi che la sorte in questa
Ora solenne qui ci unì, ci elesse
All’opera compagni ed al periglio
Di questa notte, che obbliata mai
Da noi non fia, stringiamo un patto, ad ambo
Patto di vita. Sulla tua fortuna
Io di vegliar prometto; i tuoi nemici
Saranno i miei.
GUNTIGI
La tua parola, o Svarto,
Prendo, e la mia ti fermo.
SVARTO
In vita e in morte.
GUNTIGI
Pegno la destra.
(gli porge la destra: Svarto la stringe)
Al re de’ Franchi, amico,
Reca l’omaggio mio.
SVARTO
Doman!
GUNTIGI
Domani.
Amri!
(entra Amri.)
E’ sgombro lo spalto?
AMRI
E’ sgombro; e tutto
Tace d’intorno.
GUNTIGI (ad Amri, accennando Svarto)
Il riconduci.
SVARTO
Addio.
ATTO QUINTO
SCENA PRIMA
Palazzo reale in Verona
ADELCHI, GISELBERTO, duca di Verona
GISELBERTO
Costretto, o re, dell’oste intera io vengo
A nunziarti il voler: duchi e soldati
Chiedon la resa. A tutti è noto, e indarno
Celar si volle, che Pavia le porte
Al Franco aprì che il vincitor s’affretta
Sopra Verona; e che pur troppo ei tragge
Captivo il re. Co’ figli suoi Gerberga
Già incontro a Carlo uscì, dell’aspro sire
Più ancor fidando nel perdon, che in una
Impotente amistà. Verona attrita
Dal lungo assedio, di guerrier, di scorte
Scema, non forte assai contra il nemico
Che già la stringe, non potrà la foga
Dei sorvegnenti sostener; né quelli
Che l’han difesa fino ad or, se pochi
Ne traggi, o re, vogliono al rischio starsi
Di pugna impari, e di spietato assalto.
Fin che del fare e del soffrir concesso
Era un frutto sperar, fenno e soffriro;
Quanto il dover, quanto l’onor chiedea,
Il diero: ai mali che non han più scopo
Chiedono il fine.
ADELCHI
Esci: la mia risposta
Tra poco avrai.
(Giselberto parte)
SCENA SECONDA
ADELCHI
Va, vivi, invecchia in pace;
Resta un de’ primi di tua gente: il merti:
Va, non temer; sarai vassallo: il tempo
E’ pe’ tuoi pari. – Anche il comando udirsi
Intimar de’ codardi, e di chi trema
Prender la legge! è troppo. Han risoluto!
Voglion, perché son vili! e minacciosi
Li fa il terror; né soffriran che a questo
Furor di codardia s’opponga alcuno,
Che resti un uom tra loro! – Oh cielo! il padre
Negli artigli di Carlo! I giorni estremi
Uomo d’altrui vivrà, soggetto al cenno
Di quella man, che non avria voluto
Come amico serrar; mangiando il pane
Di chi l’offese, e l’ebbe a prezzo! E nulla
Via di cavarlo dalla fossa, ov’egli
Rugge tradito e solo, e chiama indarno
Chi salvarlo non può! nulla! – Caduta
Brescia, e il mio Baudo, il generoso, astretto
Anch’ei le porte a spalancar da quelli
Che non voglion morire. Oh più di tutti
Fortunata Ermengarda! Oh giorni! oh casa
Di Desiderio, ove d’invidia è degno
Chi d’affanno morì! – Di fuor costui,
Che arrogante s’avanza, e or or verrammi
Ad intimar che il suo trionfo io compia;
Qui la viltà che gli risponde, ed osa
Pressarmi; – è troppo in una volta! Almeno
Finor, perduta anche la speme, il loco
V’era all’opra; ogni giorno il suo domani,
Ed ogni stretta il suo partito avea.
Ed ora… ed or, se in sen de’ vili un core
Io piantar non potei, potranno i vili
Togliere al forte, che da forte ei pera?
Tutti alfin non son vili: udrammi alcuno;
Più d’un compagno troverò, s’io grido:
Usciam costoro ad incontrar; mostriamo
Che non è ver che a tutto i Longobardi
Antepongon la vita; e… se non altro,
Morrem. – Che pensi? Nella tua rovina
Perché quei prodi strascinar? Se nulla
Ti resta a far quaggiù, non puoi tu solo
Morir? Nol puoi? Sento che l’alma in questo
Pensier riposa alfine: ei mi sorride,
Come l’amico che sul volto reca
Una lieta novella. Uscir di questa
Ignobil calca che mi preme; il riso
Non veder del nemico; e questo peso
D’ira, di dubbio e di pietà , gittarlo!…
Tu, brando mio, che del destino altrui
Tante volte hai deciso, e tu, secura
Mano avvezza a trattarlo… e in un momento
Tutto è finito. – Tutto? Ah sciagurato!
Perché menti a te stesso? Il mormorio
Di questi vermi ti stordisce; il solo
Pensier di starti a un vincitor dinanzi
Vince ogni tua virtù; l’ansia di questa
Ora t’affrange, e fa gridarti: è troppo!
E affrontar Dio potresti? e dirgli: io vengo
Senza aspettar che tu mi chiami; il posto
Che m’assegnasti, era difficil troppo;
E l’ho deserto! – Empio! fuggire? e intanto,
Per compagnia fino alla tomba, al padre
Lasciar questa memoria; il tuo supremo
Disperato sospir legargli! Al vento,
Empio pensier. – L’animo tuo ripiglia,
Adelchi; uom sii. Che cerchi? In questo istante
D’ogni travaglio il fin tu vuoi: non vedi,
Che in tuo poter non è? – T’offre un asilo
Il greco imperador. Sì; per sua bocca
Te l’offre Iddio: grato l’accetta: il solo
Saggio partito, il solo degno è questo.
Conserva al padre la sua speme: ei possa
Reduce almeno e vincitor sognarti,
Infrangitor de’ ceppi suoi, non tinto
Del sangue sparso disperando. – E sogno
Forse non fia: da più profondo abisso
Altri già sorse: non fa patti eterni
Con alcun la fortuna: il tempo toglie
E dà: gli amici, il successor li crea.
– Teudi!