Una recente indagine del professor Ulrich Tiechler, dell’Università tedesca di Kassel, mette a nudo una realtà che spesso ignoriamo, cioè che i nostri studenti universitari sono quelli più lontani dal mondo del lavoro, rispetto ai coetanei europei.
Ci vengono in mente i nostri tempi, quando spesso un universitario era costretto a lavorare, per potersi permettere gli studi. Oggi, certamente, c’è anche meno richiesta e meno possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro. Però c’è talvolta anche mancanza di iniziativa, di intraprendenza. Poi non ci si può lamentare troppo se alla fine del percorso non si trova un posto di lavoro. Se un giovane non ha mai creato i presupposti, non può pretendere di trovare un posto subito dopo la laurea, in linea con i suoi studi. Una parte della colpa ce l’hanno anche le famiglie, che giustificano e assecondano sempre i figli, senza metterli di fronte alle loro responsabilità, correi di un notevole ritardo. I nostri giovani sono gli ultimi a diplomarsi in Europa (19 anni invece di 18), gli ultimi a laurearsi (i cosiddetti fuori-corso c’erano anche ai nostri tempi, ma gli italiani sono ai limiti massimi in Europa per quanto riguarda l’età media dei laureati), gli ultimi a trovare lavoro e gli ultimi a sposarsi.
Ciò che è quasi la regola in altri paesi d’Europa (si pensi alla Norvegia, ma anche alla Germania) cioè lo stretto legame tra Università e mondo del lavoro, da noi è un’eccezione. A fronte del 40% di studenti universitari norvegesi già inseriti nel mondo del lavoro, gli studenti universitari italiani lavoratori sono solo poco più del 10%.
A conferma di ciò, arriva anche una indagine pubblicata sul numero di marzo di Tuttoscuola e citata in un articolo del Corriere della Sera, che mostra come oltre due milioni, (il 21,2% della popolazione italiana tra i 15 e i 29 anni), sono in Italia i giovani della generazione Neet (Not in education, employment or training) e molti di loro non hanno conseguito nemmeno un diploma di istruzione secondaria superiore.